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 2013  maggio 23 Giovedì calendario

CI RIPROVANO: CARCERE PER I GIORNALISTI

Come Alessandro Sallu­sti: due giornalisti di Panora­ma sono stati condannati al car­cere per diffamazione a mezzo stampa. Anche in questo caso, come nella vicenda che nell’au­tunno scorso eb­be per protago­nista il direttore del Giornale, la condanna scaturisce dalla que­rela sporta da un magistrato che si vede dare ragione da un altro magistrato. Stavolta è sta­to Francesco Messineo, procuratore della Repubblica di Pa­lermo, a sentirsi diffamato da un articolo del settimanale. A rendere ancora più inattesa la condanna c’è il fatto che pro­prio nel corso di questo proces­so sono stati interrogati lo stes­so Messineo e il suo ex «vice» Ignazio De Francisci: e hanno fornito della situazione nella Procura palermitana un quadro ancora più grave di quello descritto nell’articolo di Pano­rama.
Si tratta dei verbali di in­terrogatorio pubblicati ieri dal Giornale, in cui Messineo e De Francisci parlano di una procu­ra segnata da una «funesta tradi­zione di divisioni», dove i magistrati devono fare lo «slalom tra le faide» e giudici di sinistra e moderati si contrappongono paralizzando l’ufficio.
Eppure, dopo avere ascolta­to in aula gli interrogatori dei suoi due colleghi, il giudice milanese Caterina Interlandi ha emesso la sua sentenza: un an­no di carcere all’autore dell’arti­colo, Andrea Marcenaro; otto mesi al direttore di Panorama, Giorgio Mulè, per omesso con­trollo. A entrambi viene negata la sospensione condizionale perché già condannati in passa­to (per Mulè, si tratta di una am­menda di otto anni fa). Condan­nato anche, ma con la condizionale, un collaboratore del setti­manale. È una sentenza di pri­mo grado, che deve ancora pas­sare per il vaglio dell’appello e della Cassazione. Per Mulè e Marcenaro la prospettiva di ve­nire portati in carcere ad espia­re la pena non è ancora immediata. Ma intanto il tribunale di Milano ha detto la sua: si può punire con il carcere un reato di stampa. Eppure quando la stes­sa sorte era toccata a Sallusti, a protestare erano stati giornali e politici di tutti gli schieramenti. E persino il presidente della Re­pubblica Giorgio Napolitano aveva motivato la grazia con­cessa a Sallusti proprio con i dubbi sulla sensatezza della pe­na detentiva.
Ma il messaggio esplicito del capo dello Stato non ha eviden­temente trovato grande ascolto a Milano. Così ecco la condan­na al carcere: in un processo, pe­raltro, dove neanche la presun­ta vittima, Messineo, aveva smentito i fatti riportati nell’ar­ticolo, ma si era limitato a contestarne il tono e la tesi generale, ovvero una sua inadeguatezza a svolgere il lavoro di procurato­re capo di Palermo, sintetizzata dal titolo «Ridateci Caselli». «Ho ricavato una impressione complessiva di delegittimazio­ne e di aggressione morale, nel­l’articolo si ridicolizza la mia figura», ha dichiarato in aula Messineo. Aggiungendo: «Ho subito gravissimi danni in ter­mini di immagine, quindi di sensazioni interiori, di autosti­ma e quant’altro». Al centro dell’articolo, d’al­tronde, c’era un incontroverti­bile dato di fatto: un cognato imbarazzante. Il fratello della mo­glie di Messineo è un signore che è stato indagato e prosciol­to per intestazione di beni a fa­vore della mafia, e che al tempo dell’articolo era testimone in una inchiesta per omicidio a Caltanissetta. Questa parente­la scomoda era nota da tempo, tanto che Messineo si era aste­nuto dal dirigere l’indagine. E nel 2009 il tema era stato solle­vato da Repubblica e dalla Stam­pa, con articoli che avevano spinto i pm palermitani a orga­nizzare una raccolta di firme a sostegno del loro capo. Messi­neo, allora, non sporse querela contro i due giornali. Querelò l’anno dopo invece Panorama per avere riportato gli stessi fat­ti. E per averli calati in un conte­sto di divisioni all’interno della Procura di Palermo che dal pro­cesso milanese per d­iffamazio­ne è uscita confermato e anzi ag­gravato.
Ora il tribunale accoglie in pieno le richieste di Messineo, compreso il risarcimento di 20mila euro per compensarlo della «perdita di autostima» di cui ha parlato in aula. Una sen­tenza che -ma è ovviamente so­lo una coincidenza- arriva pro­prio mentre Panorama è in edi­cola con una copertina «Gli Strapotenti» dedicata alla magi­stratura. E pochi mesi dopo lo scoop con cui nell’agosto dello scorso anno Panorama rivelò che la Procura palermitana ave­va inter­cettato il presidente del­la Repubblica: facendo infuriare proprio Messineo.

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«TRATTATI DAI GIUDICI PEGGIO DEI DELINQUENTI» -
Otto mesi senza condizionale. «Sono esterrefatto. Andrea Marce­naro e Riccardo Arena, gli autori dell’articolo incriminato, hanno ricevuto una condanna a un anno di carcere. Ci trattano peggio dei delinquenti».
Giorgio Mulè, direttore di Pano­rama, è basito: «Sono amareggia­to, ma amareggiato è poco. Leggo il dispositivo e scopro che non mi è stata data la condizionale».
Perché?
«Posso solo immaginarlo: me la sarei giocata con una condanna precedente, una multa del 2005, che, fra parentesi, ho preso dopo la querela di un altro magistrato di cui nemmeno ricordo il nome. I criminali ricevono i benefici di leg­ge, io e i miei giornalisti no».
Il pezzo di Panorama contene­va forse delle notizie inesatte, errori, sviste, o peggio falsità.
«Nulla di tutto questo. L’artico­lo era un viaggio documentato dentro la procura di Palermo, co­me se ne fanno tanti nei giornali».
E allora?
«E allora mi chiedo dove sia la le­sa maestà. Arena e Marcenaro hanno raccontato come era la pro­cura, guidata, allora come oggi, da Francesco Messineo, che poi ci ha querelato».
E come era?
«C’erano divisioni e contrasti. Come peraltro hanno scritto e scri­vono tutti i giornali. C’era chi rim­piangeva Gian Carlo Caselli e chi a un certo punto ha preferito an­darsene. Una sorta di diaspora. Tutto noto e pubblicizzato dai me­dia».
Anche i guai, chiamiamoli co­sì, del procuratore?
«Sì, abbiamo spiegato che il co­gnato di Messineo era sotto inchie­sta. Ma c’è di più. In aula, lo stesso Messineo e Ignazio De Francisci, a lungo procuratore aggiunto a Palermo, non hanno smentito i fatti. Le faide in quel grande calderone del palazzo di giustizia di Palermo e in particolare della procura».
Forse il tono era eccessivo?
«Noi non componiamo agiogra­fie, mettiamo in pagina i fatti e le nostre critiche. Però, mi si lasci di­re, senza passare il segno. Con ci­viltà e misura. Invece quando abbiamo chiesto di recuperare le car­te del procedimento disciplinare aperto al Csm su Messineo, il giu­dice ha risposto picche».
Come mai?
«Non lo so, le avrà reputate su­perflue per la sentenza anche se, secondo noi, potrebbero arrivare ulteriori conferme alle nostre tesi. So che ormai faccio il giornalista da più di vent’anni e tutti i miei pro­blemi con la giustizia riguardano sempre e solo loro, i magistrati. Mi fermo per carità di patria».
Ha pesato in questa storia lo scoop di Panorama sulle intercettazioni del Quirinale?
«Il pezzo è della scorsa estate e ha rotto le uova nel paniere ai pm. Noi abbiamo detto anche in quel caso la verità, raccontando che i Pm avevano ascoltato le telefonate del Quirinale».
Messineo?
«Si difese in modo singolare, specificando che la fuga di notizie non poteva essere partita dalla procura perché la procura non aveva rapporti con Panorama. Mah».
Conclusione?
«Siamo sempre allo stesso pun­to. Gli strapotenti - come li abbia­mo chiamati in copertina la scor­sa settimana- sono sempre strapo­tenti, qualunque tentativo di inter­venire sul potere giudiziario viene subito catalogato come legge bavaglio, minaccia alla libertà delle toghe o norma salva qualcuno. E il Parlamento, a mesi di distanza dall’esplosione del caso Sallusti, è al palo. Non si è fatto niente: chiac­chiere e ancora chiacchiere. La nuova legge sulla diffamazione è solo un fantasma evocato nei di­battiti e nei convegni».