Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  maggio 24 Venerdì calendario

NERO SU BIANCO IN CAMPO VERDE. COSI’ IL SESSANTOTTO CAMBIO’ IL TENNIS

Anche il pensionato di Novi Sad si era dovuto arrendere. Ogni notte si addormentava, per venire subito risvegliato dal rumore di una pallina da tennis tirata contro il muro, al piano di sotto. Si alzava, andava in cucina, e attendeva invano che il rumore finisse. Invano. La bambina dei vicini poteva andare avanti all’infinito. Poi, un giorno, i signori Seles partirono per l’America, portando con loro la figlia Monica. Ma il pensionato non aveva più ritrovato il sonno. Adesso sedeva in cucina, ascoltando il silenzio, vivendo l’assenza. Quei colpi ritmati gli mancavano.
Ognuno ha il suo momento di resa preferito. Succede sempre. Prima o poi cedi all’evidenza. Il tennis ti manda al manicomio. Nessun altro sport, o disciplina, è capace di tirare fuori istinti primordiali e sconosciute attitudini interiori, fino a diventare ossessione. «Nel tennis i meccanismi motori traducono la storia personale e il carattere in colpi e caratteristiche di gioco. Un metodico tenderà a giocare in modo metodico, mentre chi ha estro nella vita lo tirerà fuori anche in campo. Una partita lottata, tesa, è prima di ogni altra cosa uno scontro di psicologia».
«Livelli di gioco», il primo dei due saggi di John McPhee che Adelphi si appresta a pubblicare sotto il titolo Tennis, è uno dei racconti più affascinanti di sempre sul tennis. Forest Hills, 1968, semifinale dello Us Open, prima edizione di uno Slam con porte aperte a dilettanti e professionisti. Arthur Ashe contro Clark Graebner. Nero e bianco. Entrambi amatori, entrambi americani. Negli annali non c’è traccia di questa partita. Il suo destino è stato di sopravvivere della luce riflessa di questo libro. Non segnò alcun passaggio di consegne tra i grandi del tempo, non è in alcun modo divenuta epopea. In quel pomeriggio d’agosto, John McPhee cercava altro. Non il contrasto di stili, che dovrebbe essere essenza del gioco, ma di personalità. Due esseri umani quanto più possibile distanti uno dall’altro, uniti dalla condivisione di un evento sportivo.
La prima antenata di Ashe arrivò in America nel 1735, su un brigantino inglese che portava un carico di 167 neri dell’Africa occidentale. Nei registri della contea figura solo come «ragazza negra». Il papà di Arthur era un poliziotto che si definiva professionista della disciplina, rimasto vedovo molto presto. Al primo giorno di scuola media del figlio, lo aveva accompagnato fino all’ingresso, tenendo il tempo con un cronometro. Così fissò i minuti a disposizione di Arthur per tornare a casa. Non uno di più.
Il suo maestro fu Robert Walter Johnson. Era un dottore, cui capitava spesso di leggere sui giornali che gli atleti neri non erano sofisticati. In grado di correre o saltare, talvolta anche bene, ma impediti a un gioco di destrezza come il tennis. Fondò una scuola per ragazzi di colore. Forgiò il carattere di Arthur imponendogli codici di comportamento severissimi. Reprimere ogni reazione, non lamentarsi mai, lasciare all’avversario i punti dubbi. Solo così, secondo il dottore, i neri potevano farsi strada nel mondo bianco del tennis.
Quei precetti divennero regola di vita. Nel 1968 il capitano Ashe si occupava della formazione dei cadetti di West Point. Sul campo era così freddo da sembrare disinteressato. Reprimeva i suoi istinti, come gli era stato insegnato sin dall’infanzia. Ma il suo spirito era quello di un ragazzo che «odia l’ordine», a cominciare dalla sua stanza. Un liberal di quell’epoca vivace e confusa, consapevole, in quanto unico tennista nero della storia, di essere ormai un fenomeno sociologico. Si impegnava nelle lotte per i diritti civili ma detestava gli attivisti troppo aggressivi, che gli facevano l’effetto dei predicatori pentecostali. Il suo gioco rifletteva il contrasto tra indole personale e disciplina, producendo effetti stranianti. «Non sai mai dove ha la testa» dice Graebner. «Gioca come un nero: come gli viene, se gli viene, se no amen».
Clark Graebner aveva la foto autografata del presidente Richard Nixon sulla scrivania. Era figlio unico di un odontotecnico, un signore che esibiva denti candidi e perfetti «come un autoritratto professionale». Lui sembrava il sosia di Superman in borghese. I più maligni nel circuito lo avevano soprannominato Herr Graebner, per la camminata marziale. Irascibile e aggressivo, come un figlio unico mai abituato a perdere o ad avere torto. «Bianco, protestante, benestante» dice Ashe. «È molto attaccato ai soldi. Ha un tennis rigido, granitico, repubblicano. Intelligente, ma poco elastico, quindi prevedibile».
John McPhee è uno dei fondatori del New Journalism, in compagnia di Tom Wolfe e di Hunter Thompson. A differenza dei più celebri colleghi, il suo stile non prevede divagazione e flusso di coscienza. È verticale, non orizzontale. Il giornalismo prevale sulla narrativa. Il ritratto di Bill Bradley, suo compagno di università, futuro campione di basket anche a Milano e poi senatore. La raccolta delle arance in California, la più remota delle Isole Ebridi, l’esercito svizzero. Sempre non fiction, per quanto creativa. Se analizzata in profondità, ogni storia, piccola o insignificante che possa sembrare, assume altri significati.
I tennisti parlano da soli. Come accade spesso ai prigionieri, non dimenticano mai. Qualche mese dopo l’incontro, McPhee si presentò da Ashe e Graebner con i nastri della partita. Bastava accendere il proiettore perché entrambi cadessero in stato di ipnosi. Imprecavano a ogni colpo sbagliato, mimavano i gesti. Costretti dalla loro natura a rivivere il passato come un eterno presente. Ha ragione Matteo Codignola nel suo bel saggio a metà del libro, sincero atto d’amore nei confronti del tennis: è proprio questo a fare di «Livelli di gioco» un oggetto unico.
«Guarda come colpisce senza pensarci», sbotta Graebner davanti all’ennesimo colpo di un Ashe ormai in stato di grazia, avviato verso la vittoria. «Qualsiasi cazzata tenti, gli riesce». Avendo identificato i due giocatori per quel che rappresentano nelle loro differenze, a ogni pagina viene facile pensare alla metafora, al repubblicano vecchio stampo che rifiuta di adottare un’etica irrazionale e vede le proprie certezze sgretolate da un vento nuovo, da un’attitudine a lui sconosciuta. Siamo pur sempre nel fatidico Sessantotto, vale la pena ricordarlo.
Ma nella successione dei punti, nell’apparente fissità delle vite di Ashe e Graebner si riflette soprattutto il magnetismo del tennis. In «Livelli di gioco» c’è l’implicita spiegazione dell’impossibilità di staccare gli occhi dalla palla, o dalla pagina, come accaduto per l’Open di Andre Agassi. «Una ossessione che stringe chi lo gioca e chi lo guarda in un viluppo letale», parole sante di Codignola.
A McPhee interessava il giusto, era una passione di quando era bambino, come tutti gli argomenti di cui si è occupato in seguito. Il suo metodo, quasi contro la volontà dell’autore, ha prodotto uno studio su un mistero totalizzante, ma bellissimo. Come l’immagine del pensionato insonne nella sua cucina, mentre ascolta la bambina che palleggia di notte sul muro di casa. Colpisce la palla e poi ancora, non smette mai.
Marco Imarisio