Flavia Foradini, L’Espresso 24/5/2013, 24 maggio 2013
TREDICI KLIMT NEL CASTELLO IN FIAMME
La capitolazione tedesca era stata firmata all’alba del 7 maggio 1945. Sul far della sera, poco lontano da Vienna, le Ss incendiarono il castello di Immendorf, producendo un rogo che si protrasse per 12 giorni. Il bersaglio dei nazisti non era la patrizia dimora di campagna, bensì il suo contenuto, che non si voleva cadesse nelle mani dei russi. Nelle stanze di Immendorf era custodito un tesoro di opere d’arte, fra cui 13 dipinti di Gustav Klimt. L’incendio di Immendorf non fu un caso isolato. Dei 1.500 depositi istituiti dai nazisti in Europa per contenere manufatti artistici razziati, molti vennero distrutti negli ultimi giorni del Terzo Reich, e alcuni si salvarono per casi fortuiti. Come il più prezioso di tutti: la dismessa miniera di salgemma di Altaussee, a 80 chilometri da Salisburgo, trasformata nel 1943 in un gigantesco deposito e che dal 1944 albergò anche i 4.700 capolavori razziati in tutta Europa e selezionati da Hitler per quello che dopo la “vittoria finale” sarebbe diventato il Museo del Führer a Linz. Un enorme tesoro, che i gerarchi nazisti decisero non dovesse sopravvivere al nazionalsocialismo. Ma fra il 3 e il 4 maggio del ’45 la direzione della miniera riuscì a non far esplodere le otto bombe da 500 chili ciascuna, piazzate in punti strategici delle sale sotterranee, facendo saltare e rendendo inagibile solo l’ingresso. In quell’ultimo scorcio di guerra, molta fortuna ebbero i Liechtenstein, che con azioni degne di un film trasportarono invece la loro collezione da Vienna a Vaduz. Subito dopo il 1945, la maggior parte dei collezionisti dovette rivolgersi al Central Art Collecting Point di Monaco, istituito dagli americani per restituire i 5 milioni di manufatti artistici razziati dai nazisti. Un lavoro immane, portato avanti non senza critiche, e che gli alleati d’Oltreoceano dichiararono chiuso nel 1951, lasciando tuttavia senza padrone decine di migliaia di capolavori. Burocrazie kafkiane e maligne chicane da parte dei musei impedirono la restituzione per decenni. Pochi ridiedero volontariamente il maltolto ai proprietari o ai loro eredi. Quando si arrivava a un accordo, spesso c’era qualcosa di ricattatorio: un Antico Maestro da lasciare in loco e, in cambio, la possibilità di portarsi via qualche servizio di piatti e un po’ di tele minori. La lievitazione del valore di quelle opere ha creato nel tempo un business colossale attorno al fenomeno della restituzione, con cause milionarie. Come quella del dipinto “Wally” di Egon Schiele, posto sotto sequestro dalle autorità americane il 7 gennaio 1998, subito dopo la chiusura di una mostra al Moma di New York. Solo nel 2010 il piccolo ritratto è tornato nelle sale del Museo Leopold di Vienna, dopo un accordo extragiudiziale da 15 milioni di euro e 3,5 milioni di spese legali. Uguale strascico per cinque quadri di Klimt, illegittimamente appesi per anni al Belvedere di Vienna: la causa di restituzione iniziò nel 2000 e, dopo 3 milioni di spese giudiziarie, si concluse nel 2006 con un trasporto aereo verso gli Usa, dove vivono gli eredi del collezionista Bloch-Bauer, e poco dopo, con la vendita delle opere per 195 milioni di dollari. Andò meglio ai Rothschild, che nel ’99 poterono caricare i loro camion davanti al Kunsthistorisches di Vienna, che per primo in Austria aveva deciso di restituire le opere volontariamente per fare ammenda di anni di connivenza con i nazisti. Il caso “Wally” produsse una nuova consapevolezza: il 3 dicembre 1998, a Washington una dichiarazione di intenti sottoscritta da 44 Stati fissò un codice di comportamento per la restituzione. Oggi i maggiori musei hanno setacciato le proprie collezioni alla ricerca di opere sospette e hanno restituito, ma molto resta da fare. Pochissimi fra i responsabili delle razzie sono stati chiamati a rispondere.