Pietro Veronese, L’Espresso 24/5/2013, 24 maggio 2013
DOVE LO SCHIAVO DIVENTA TURISMO
Gli schiavi sono tra noi. In carne e ossa e sotto forma di fantasmi, agli angoli delle strade e nella memoria confusa di un passato volentieri ignorato, ma incancellabile. Vendono sesso in periferia o borsette contraffatte nelle vie del centro, oppure ricompaiono in ceppi, a capo chino, in sbiadite stampe sette-ottocentesche. Lo schiavismo, denunciano le organizzazioni umanitarie che si occupano di questa piaga, non è mai cessato. Ha cambiato forma, modalità, contesto. Certamente non è più legale ma prospera. Secondo l’associazione americana Free the Slaves (www.freetheslaves.net) gli schiavi sono oggi in tutto il mondo, in termini assoluti, più numerosi di quanto non siano mai stati nella storia dell’umanità: 27 milioni di persone private della libertà e ridotte in servitù, costrette al lavoro coatto o forzato. È di questo mese la notizia, diffusa da Medici senza frontiere, che le autorità yemenite hanno liberato oltre 1.600 migranti africani trattenuti in stato di schiavitù dai trafficanti: affamati, torturati, abusati, violentati, mantenuti in uno stato animale, per sempre traumatizzati.
Per questo è importante ravvivare la memoria della tratta secolare in cui gli uomini furono catturati, incatenati, trasportati e venduti come cose, o animali da lavoro, come fossero buoi o cavalli da tiro. A milioni, procurando inaudite ricchezze a chi ne faceva commercio e ancor più ai loro "utilizzatori finali". Nel Sei-Settecento, e ancora all’inizio del XIX secolo, quando la Gran Bretagna infine proibì la tratta degli schiavi, le piantagioni di canna da zucchero delle Indie occidentali erano l’equivalente delle odierne industrie hi-tech, della Silicon Valley californiana o dei distretti tecnologici delle megalopoli orientali. Erano la punta della produzione capitalistica, soddisfacevano una domanda inesauribile e generavano profitti incalcolabili. Le più lussuose dimore di Chelsea e di Mayfair furono edificate letteralmente sulla schiena degli schiavi africani al lavoro nelle piantagioni della Giamaica e dintorni. Ancora nei romanzi di Jane Austen - siamo ai primi dell’Ottocento - leggiamo di gentiluomini che si assentano dalle loro tenute nella campagna inglese per andare a «sistemare i propri affari» nelle West Indies. Era schiavismo. Nemmeno la Rivoluzione francese, nemmeno il turbine napoleonico si erano sognati di mettere in discussione che un uomo diventasse legittimamente proprietà di un suo simile, con pieno diritto di vita e di morte.
La schiavitù è esistita in Occidente dacché esiste la civiltà, dalla Grecia delle polis alla Roma dei consoli e dei Cesari. Tralasciando, s’intende, gli edificatori delle Piramidi o della Grande Muraglia. Gli umani sono stati attraverso i millenni i migliori mezzi di produzione: forti, intelligenti, capaci. Quando i primi navigatori portoghesi si spinsero incerti a meridione, lungo la costa occidentale dell’Africa, e poi, gettata l’ancora alla foce di fiumi colossali, avanzarono verso l’interno accolti da una riverente curiosità, vi trovarono regni e società dove la schiavitù era regolarmente praticata. Era una consuetudine, e come tale regolamentata dall’uso e dalla tradizione. Gli schiavi erano pegni di pace, aristocratici doni, prova di sottomissione, reciproca garanzia di sostegno e consenso che i sovrani e i grandi notabili si scambiavano. I re locali ammirarono i nuovi venuti, le grandi navi dalle enormi vele, le corazze e gli elmi, gli scoppi delle armi da fuoco, i capolavori costruttivi. Sognarono di potersi anch’essi impossessare di quelle meraviglie tecnologiche, per l’intanto abbracciarono la fede cristiana e volentieri donarono schiavi, chiedendo in cambio missionari, carpentieri, fabbri.
Era soltanto un tragico equivoco. Gli storici ci dicono che quando europei e africani si incontrarono il loro livello di sviluppo era grosso modo equivalente: analoga la capacità di produrre ricchezza, simili le forme di organizzazione statale. Ma quello che per l’Africa era un punto di arrivo, per l’Europa era il trampolino di uno sviluppo inimmaginabile. Nell’incontro, gli africani pensavano a uno scambio; gli europei a una rapina. Di questo fatale fraintendimento, gli schiavi furono il rivelatore. Ciò che i re neri credevano di donare, i conquistatori pretendevano.
Portoghesi e spagnoli dapprima, poi i nordici - i danesi, gli svedesi, gli olandesi - infine gli inglesi, non erano mai sazi di carne umana. Quando i sovrani della costa capirono, era già troppo tardi; le loro struggenti epistole ai "fratelli" che sedevano sui troni d’Europa, anche ai pontefici romani, rimasero senza risposta. Tentarono allora di ottenere armi da fuoco, ma in cambio occorrevano più schiavi, e si fecero così razziatori a loro volta.
La tratta si organizzò come un regolare commercio. Le navi negriere scendevano colme di mercanzie - stoffe, fucili, chincaglierie - da scambiare con il carico umano. Poi con le stive piene di schiavi terrorizzati, attraversavano l’Atlantico fino ai Caraibi. Lì nuovo scambio con i prodotti esotici, in primo luogo lo zucchero, da rivendere sui mercati di Londra e del continente. Si viaggiava sempre a pieno carico: per gli armatori, il rischio era ricompensato da profitti favolosi.
Finì bruscamente nel 1807, con lo Slave Trade Act approvato dal Parlamento di Westminster in capo a una battaglia politica trentennale. A motivare la nuova legge furono tanto i principi quanto l’intento di infliggere un colpo mortale all’economia della Francia, che dal lavoro degli schiavi dipendeva quanto e più di quella britannica. Fatto sta che la flotta reale era allora signora dei mari e la tratta ben presto si esaurì. I forti che punteggiavano la costa occidentale dell’Africa, dall’Angola al Golfo di Guinea, su su fino al Senegal, edificati dai portoghesi e dagli scandinavi per fungere da fortezze e da terminali delle rotte carovaniere, punti d’imbarco per i carichi umani, si svuotarono, tacquero e caddero in rovina come i castelli delle fiabe.
Sono questi siti, restaurati e opportunamente inclusi nei pacchetti dei tour operator, che oggi i turisti, in numero sempre crescente, si affollano a visitare. Come Elmina Castle in Ghana o l’isola di Gorée davanti a Dakar. Quest’ultima, a differenza di Elmina o del porto di Saint-Louis, anch’esso in Senegal, ebbe un ruolo marginale nella tratta; ma la suggestione del luogo, certificata dal sigillo Unesco, ne ha fatto un simbolo e ha poco senso discutere i simboli.
Il "turismo della schiavitù" è di due tipi. C’è quello più comune e banale, che accomuna un po’ tutti, in cerca di facili emozioni. E quello degli africani della diaspora, in cerca di radici, di memoria, di un doloroso passato identitario. Questo secondo motivo di visita ai luoghi che sono rimasti segnati dagli orrori della tratta è il più difficile da soddisfare, perché le tracce sono confuse e sbiadite, le memorie cancellate, le tradizioni spezzate. Gli schiavi non lasciano alberi genealogici. Può sovvenire allora la religione, anche nelle forme più autoctone africane, grazie alla sua capacità di mettersi in sintonia con gli spiriti del presente e del passato.
La fine della tratta non significò la fine dello schiavismo in Africa. Imperterrito continuò per tutto l’Ottocento quello praticato dagli arabi: il loro terreno di caccia, all’opposto degli europei, era il versante orientale del continente, da dove le carovane si spingevano fino al cuore del territorio, nell’odierno Uganda e oltre. Gli arditi esploratori geografici non disdegnarono di ricorrere alla competenza logistica di costoro, come il celebre mercante di schiavi zanzibarita Tippu Tip, che organizzò carovane anche per Henry Morton Stanley.
Il peggio tuttavia doveva ancora venire. Arrivò con l’acquisizione da parte di re Leopoldo II del Belgio, nel 1885, del più enorme feudo personale che mai sovrano abbia posseduto: l’odierna Repubblica democratica del Congo. Sotto il buon re, il Congo fu uno sconfinato campo di concentramento, di lavoro forzato e di orrore universale. In quello che sarebbe stato descritto da Conrad come il «cuore di tenebra» del mondo, i suoi agenti imponevano agli abitanti quote di produzione, che fosse avorio o caucciù: chi non le rispettava aveva le mani tagliate. I morti furono milioni. Ma questa è un’altra storia, che non ha lasciato siti Unesco da visitare con la guida.