Denise Pardo, L’Espresso 24/5/2013, 24 maggio 2013
CHE ERRORE LE LARGHE INTESE
[Intervista a Ignazio Marino] –
Il progetto per Roma. L’incontro con una città e una comunità lasciata a se stessa, il degrado, la disoccupazione che avanza. Il sospetto di patti segreti con Beppe Grillo. Ignazio Marino, 58 anni, candidato sindaco chirurgo del centrosinistra (qualcuno dice più sinistra tout court), ha fatto la sua campagna elettorale nel momento più nero dell’ex partito rosso, con un segretario dimissionario prima, un segretario pro tempore poi e con il contestatissimo governo di larghe intese, il primo che il Paese abbia mai avuto. Racconta il suo modello per la Capitale, la sinergia con Nicola Zingaretti, il rapporto con il Pd e la sua politica seduto su un divano rosso di casa sua. Roma è città di rovine, gatti e gattare. Marino ha due felini Napoleone e naturalmente Paolina, Annibale che non c’è più, guarda benevolo da un grande ritratto in una cornice d’argento.
Qual è l’emergenza per la Capitale?
«È il lavoro, per Roma come per l’Italia. Ieri alla fermata della metropolitana di Ponte Mammolo c’era una donna che piangeva, l’ho avvicinata. “Ho 45 anni e tre figli, sono senza lavoro, mio marito se ne è andato di casa e ho il mutuo da pagare, non so come fare”, si disperava. Storie drammatiche, storie all’ordine del giorno. A San Basilio, i dati erano allarmanti: il 20 per cento degli studenti abbandona la scuola, non trova lavoro, finisce in mezzo a una strada. E diventa preda della criminalità e dello spaccio di droga».
Cosa propone?
«Aiuti concreti. L’Italia come Grecia e Ungheria non ha una legge sul reddito minimo di cittadinanza. Con Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio, abbiamo studiato un pacchetto lavoro. Le elenco alcuni punti: un bando annuale da 500 euro recuperati da fondi Ue più altri 350 per mezzi pubblici gratuiti e accesso ai musei, destinati alla formazione o al tirocinio in laboratori di artigianato di 10 mila giovani. Poi l’opportunità di offrire i tanti spazi vuoti di proprietà del Comune a chi vorrà avviare un esercizio commerciale. Sarà uno scambio, un modo per far crescere l’economia della città e ridare speranza alle nuove generazioni. Il lavoro è il problema numero uno».
I tumulti all’interno del Pd non si placano. Che rapporto ha con il partito?
«Ho un’intesa bellissima con gli elettori del Pd che in queste settimane mi hanno accolto con grande affetto. Con il partito il dialogo è come sempre… vogliamo definirlo dialettico? È stato molto complicato nei giorni dell’elezione per il capo dello Stato. Prima Franco Marini, curriculum impeccabile, ma non un simbolo del Terzo millennio, infatti ho votato Stefano Rodotà. Poi l’offesa a Romano Prodi, l’unico ad aver battuto Berlusconi, affossato dal partito che ha fondato, il disagio di Rodotà... ».
Nella sua campagna elettorale il Pd è stato inesistente, molto più presente Sel.
«Mi sono ritrovato al centro di un partito disorientato e senza interlocutori. La leadership nazionale era polverizzata, quella romana dispersa e le elezioni erano a Roma. È stato Nicola Zingaretti a impersonare una sorta di vicario generale delle funzioni venute a mancare. Mi ha dato una mano su tutto, anche nelle cose più semplici, perfino sul modo di comporre una lista, il notaio, le firme, e chi ne sapeva nulla? Fino al momento dell’elezione di Epifani, ha rappresentato l’unica figura di garanzia».
Una specie di miracolo per un partito segnato da lotte fratricide.
«Giorni fa, è stato lui a introdurmi in un incontro al palazzo delle Esposizioni. Ha detto: “Io e Ignazio non siamo amici, non abbiamo sviluppato un legame personale. Ma ci rispettiamo e ci stimiamo moltissimo”. È così, è la verità senza ipocrisia o finzioni. Ha riconosciuto pubblicamente di aver seguito alcuni miei consigli: la chiusura del baraccone Agenzia della sanità, il nominare i direttori generali secondo valutazioni di merito fatte da un ente terzo. Lui ha ricambiato aiutandomi sul pacchetto lavoro. Se sarò eletto, abbiamo già un accordo su un’ Agenzia per la mobilità, struttura che razionalizzi il rapporto insensato tra le società di autobus, treni, treni regionali, tram, metropolitane. È nata una sinergia: il Lazio per gran parte è Roma e Roma non può fare a meno del Lazio. C’è da ricostruire, insieme, un sistema».
Come giudica la scelta di Guglielmo Epifani, segretario a tempo?
«Molto positivamente. Si è messo subito al lavoro per ricompattare il Pd intorno ai temi che contano davvero: lavoro, casa, diritti. Sta percorrendo la strada che l’elettorato del Pd, anche il più allargato, si aspetta dal maggior partito di centrosinistra. Prima di essere eletto, mi ha detto: “Roma è una sfida centrale non per te Marino, ma per me Epifani”. Ventiquattrore dopo eravamo a casa sua per definire la strategia. È riuscito a rimotivare tutto il gruppo dirigente che ha cominciato a spendersi per me, David Sassoli, Paolo Gentiloni, Silvia Costa..».
E al congresso quale sarà il suo candidato?
«Oggi come oggi appoggerei Matteo Renzi, così capace da ottenere alle primarie il 40 per cento del consenso pur avendo contro una parte significativa dell’apparato più organizzato del Pd. Matteo rappresenta la fine di una fase storica che si deve chiudere. Mi piacerebbe anche una donna come Debora Serracchiani, unico handicap essere appena stata eletta alla presidenza del Friuli, che conosce l’organizzazione di un partito e ha la carica di umanità e freschezza. È ora di andare oltre i leader che appartengono al Novecento».
Dopo averla votata al Senato, molti elettori piemontesi si sono sentiti traditi dalla scelta di correre per Roma. Se non vincesse, farebbe il consigliere comunale o tornerebbe al seggio senatoriale?
«Non ho più seggio, ho rinunciato. L’opportunità del Campidoglio è stata fonte di pressione e grande ansia. La mia campagna elettorale in Piemonte e Lazio è stata intensa e concentrata sui problemi della sanità, i gravi disagi dei posti letto e del personale ospedaliero ridotto all’osso. Ero capolista e abbiamo vinto il premio di maggioranza in tutte e due le regioni. Ho riflettuto molto sul significato del cambiamento di percorso e mi sono placato pensando che in caso di vittoria cercherò di influenzare alcuni aspetti della politica nazionale utili sia per i cittadini del Piemonte che del Lazio».
In piena campagna, è nato il governo Letta con il Pdl. Ha avvertito indignazione per “l’inciucio”?
«Ero convinto che mi avrebbe creato enormi problemi. Invece zero assoluto. Le persone hanno tutt’altre preoccupazioni. L’enorme fatica del vivere con l’incubo del non arrivare a fine mese, la disoccupazione, l’abbandono in cui versa chi ha parenti ammalati, il degrado, il traffico, il cattivo funzionamento della metropolitana B».
Quindi, sarebbe un rovello autoreferenziale del Palazzo?
«Davvero lei crede che possa essere un problema per chi non ha una casa? Sa quanto sperpera la giunta Alemanno per mettere 1.300 famiglie in ghetti dove spesso non c’è nemmeno l’allaccio al gas? Trenta milioni di euro l’anno. Li trasformerò in un buono-casa da 700 euro a nucleo da distribuire a chi mi porterà un contratto di una casa affittata a quella cifra. In questo modo aiuterò il triplo di famiglie alle quali avrò ridato la dignità di decidere dove e come vivere».
Condivide la strada delle larghe intese?
«No, e lo dico inascoltato dal 2010. Già allora bisognava cambiare la legge elettorale e votare. Qui rischiamo di ritornare alle urne con il Porcellum. Cosa fare per sostituirlo? Una risoluzione Onu? L’arrivo di caschi blu?».
Si dice che tra lei e Grillo ci sia un patto segreto per Roma.
«Quando Grillo prese la tessera Pd rivelando di volersi candidare alla segreteria Bersani e Franceschini gridarono allo scandalo. Non ero affatto d’accordo e penso che sarebbe stato tutto un altro film. Ma non l’ho mai incontrato, è una persona che da un lato m’incuriosisce, dall’altro mi spaventa per la violenza dell’approccio».
Nessuno grillino l’ha mai attaccata, è abbastanza strano.
«È vero. Anzi. Al Senato dopo la mia dichiarazione di voto per la legge per la chiusura dei manicomi criminali che ho voluto con tanta forza i 50 grillini mi hanno applaudito con un calore inaudito. Moltissimi di loro hanno votato alcuni dei miei disegni di legge. Ma non c’è un patto per Roma con i 5S, spero di avere un patto sui contenuti con tutti, con gli elettori di Alfio Marchini, con chi è disgustato da Gianni Alemanno».
E con i poteri forti di Roma?
«All’Acer è andata benissimo, quasi tutti i costruttori, sì ecco, meno Franco Caltagirone quello del “Messaggero”, e in prima linea i quarantenni, erano galvanizzati all’idea di Roma come Londra con cento, mille cantieri per riqualificare la città, e per due anni zero tasse comunali sui ponteggi ».
Oltretevere non può apprezzare le sue posizioni sul testamento biologico.
«Il sindaco non legifera sul testamento biologico. E credo si possa apprezzare una storia di sei anni di battaglie per la solidarietà sociale e l’attenzione ai più deboli».
Come si salverà il Pd?
«Cercando di risolvere i problemi delle persone. Introducendo prima di tutto al suo interno la cultura del merito e della competenza. E smettendo di litigare».
Come si salverà Roma?
«Ridandole una visione. Il sindaco non deve tagliare un nastro. Deve avere un traguardo dove condurre quella città e quella comunità da qui a venticinque anni, quando lui non ci sarà nemmeno più».