Stefano Livadiotti, L’Espresso 24/5/2013, 24 maggio 2013
RIFORMATE LA RIFORMA
Il giudizio sulla riforma del lavoro targata Fornero è negativo al 100 per cento: gli effetti deleteri hanno iniziato a manifestarsi prima ancora della sua concreta applicazione, al semplice effetto annuncio». Maurizio Sacconi, presidente Pdl della commissione Lavoro del Senato e già ministro del Welfare nell’ultimo governo Berlusconi, è tranchant. Non è da meno Nicola Rossi, economista e presidente del think-tank montezemoliano Italia Futura: «La classica cosa sbagliata nel momento sbagliato». Un giudizio condiviso da Alberto Bombassei, imprenditore a cinque stelle, ex numero due di Confindustria con delega alle relazioni industriali, oggi parlamentare di Lista Civica: «L’aggravarsi della crisi rende la legge troppo severa; bisogna rimuovere i vincoli che penalizzano l’occupazione».
Insomma, la riforma non ha funzionato, come conferma dal suo osservatorio privilegiato il direttore generale della Confindustria, Marcella Panucci. E la difesa d’ufficio delle norme, abbozzata in perfetta solitudine dal neo ministro del Welfare, ha retto poco. «Starei molto attento a toccare una legge che sta finalmente producendo una serie di effetti voluti», aveva azzardato martedì 14 maggio Enrico Giovannini davanti alla commissione Lavoro di Palazzo Madama. Salvo poi precisare il concetto appena cinque giorni dopo, annunciando una serie di modifiche al testo firmato dalla Fornero, a partire dai contratti a termine.
Il Giovannini prima versione aveva basato la sua posizione su un monitoraggio realizzato dall’Isfol. Il dossier dell’Istituto ammetteva un calo dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato e di quelli di collaborazione. A fronte del quale registrava però una crescita dei contratti a tempo determinato e di quelli di apprendistato. Il classico quadro a luci e ombre, dunque. Ma, pur essendo controllato dal ministero, l’Isfol alla fine non aveva potuto tacere un dato: «Complessivamente nel quarto trimestre del 2012 l’occupazione ha raggiunto il suo minimo dall’inizio della crisi economica».
Dice Giuliano Cazzola, ex sindacalista di lungo corso della Cgil e già presidente della commisione Lavoro della Camera: «Non sarebbe corretto imputare alla legge Fornero l’aggravamento del tasso di disoccupazione nel secondo semestre del 2012, ma gli indicatori sono tanto e univocamente negativi da indurre a ritenere che qualche effetto concorrente non possa proprio essere escluso». Cazzola ha fatto due conti. Dall’entrata in vigore della riforma, nel luglio del 2012, i saldi occupazionali mensili sono tutti negativi, a eccezione di quello dello scorso ottobre. Alla fine, gli uomini hanno perso 169 mila posti di lavoro e le donne altri 99 mila.
Una débâcle. La colpa è certamente della crisi, in primo luogo. Ma la Fornero ci ha messo del suo, con una riforma figlia dell’ardita teoria secondo la quale se si rende più difficile il lavoro flessibile si favorisconono le assunzioni a tempo indeterminato. Non è così. Tanto meno in tempi di vacche magrissime, quando una maggiore flessibilità può invece consentire di contenere i danni dal punto di vista dell’occupazione. Se ne è avuta la prova 15 anni fa, con il pacchetto Treu, che ha intro dotto nuove e più agili forme di impiego, come il lavoro interinale, e agevolato altre già esistenti, come il lavoro a termine. Tra il 1997 e il 2006, anni fiacchi (il prodotto interno lordo ha sempre viaggiato, con una sola eccezione, sotto il passo del 2 per cento l’anno), l’occupazione è cresciuta del 12,77 per cento. «Alla maggiore flessibilità», ha scritto all’epoca Carlo Dell’Aringa, studioso della materia e oggi sottosegretario Pd al Welfare, «ha corrisposto un forte incremento dell’occupazione: una performance eccezionale, soprattutto in un periodo di economia lenta».
La Fornero, convinta del contrario, ha imboccato una strada diametralmente opposta. E di paletti all’occupazione atipica ne ha piazzati davvero tanti. Basta sentire un consulente del lavoro come Enzo De Fusco per metterne insieme un elenco davvero sterminato. Per i contratti a tempo determinato è stato stabilito che, prima di ogni rinnovo, bisogna far trascorrere un intervallo tra i 60 e i 90 giorni e che se il rapporto di lavoro dura più di 12 mesi è necessario motivare perché si sia scelta quell’opzione in luogo dell’assunzione stabile. Per le partite Iva è stato introdotto un meccanismo machiavellico, che porta alla presunzione di un rapporto subordinato mascherato quando si verificano almeno due dei seguenti elementi: il lavoratore ricava più dell’80 per cento del suo reddito complessivo da un unico committente (e viene da chiedersi come potrebbe mai saperlo in anticipo), lavora per lui per più di otto mesi l’anno per due volte consecutive, ha una postazione all’interno dell’azienda. L’associazione in partecipazione, quella forma di impiego in base alla quale si viene remunerati con una quota dell’utile, è stata limitata ai familiari del titolare dell’azienda o a un numero massimo di tre. Non basta: se un’azienda ne prende quattro e viene scoperta può essere costretta ad assumerli tutti in blocco e non solo quello in eccesso. In base a una logica bizzarra, la retribuzione del contratto a progetto, che per definizione non ha orari fissi, è stata equiparata a quella del lavoro dipendente, che invece prevede la timbratura del cartellino. E ancora: le aziende con più di dieci dipendenti che ingaggiano un certo numero di apprendisti dopo tre anni devono assumerne almeno la metà, se vogliono aumentare la loro quota. Per non parlare del contratto a chiamata, quello che si usa per il cameriere del banchetto nuziale: prima bastava rispettare certi requisiti anagrafici del lavoratore e alcuni periodi dell’anno; adesso bisogna che ci sia una specifica autorizzazione nel contratto di categoria. Se questo non viene rinnovato, si blocca tutto.
Una serie di limitazioni sufficienti a ingessare ancor più un mercato che già lo era in partenza. Il rapporto 2012 dell’Istat rielabora l’Employement protection database dell’Ocse. In una scala che va da zero (protezione bassa) a 6 (protezione alta) nel 2008 l’indice di rigidità della regolamentazione del lavoro dell’Italia stava a quota 1,89, contro lo 0,75 del Regno Unito e lo 0,21 degli Stati Uniti. Poi, la situazione è peggiorata. Lo dice il World Economic Forum nel suo "The global competitiveness report 2012-2013". Il "Labor market efficiency" ci colloca al centoventisettesimo posto su 144 paesi, con un valore pari a 3,7 (in una scala tra uno e sette): a titolo di raffronto, gli Stati Uniti e il Regno Unito stanno a 5,4, la Germania a 4,5 e la Francia a 4,4. Non basta: se si vanno a guardare le regole relative ad assunzioni e licenziamenti, l’indice scende a 2,8 e l’Italia scivola al centrotrentasiesimo posto. Infine: la normativa sul lavoro viene indicata come il quarto handicap più grave per chi fa business da noi.
Un’elaborazione di Tito Boeri, l’economista che dirige la Fondazione Rodolfo Debenedetti e ha fondato il sito lavoce.info, riassume nel modo più puntuale e significativo gli effetti finora prodotti dalla riforma. Tra il primo e il secondo semestre del 2012 l’occupazione parasubordinata, intermittente e a somministrazione (quella, cioè, resa più costosa dalla legge), ha lasciato sul campo il 26,04 per cento. Mentre quella legata a contratti a tempo determinato o indeterminato ha contenuto la perdita al 6,37 per cento. Un andamento contrario a quello che si era registrato nel 2011. Commenta Boeri: «Alla distruzione di posti precari non ha corrisposto la creazione di posti a maggiore stabilità». Come invece si illudeva la Fornero.