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 2013  maggio 24 Venerdì calendario

MORO MI DISSE: AVANTI CON BERLINGUER

Aldo Moro mi ha parlato oggi con una apertura che dopo i tempi della Fuci non avevamo mai più avuto tra noi. In un certo senso la politica ci ha talvolta allontanato: nella svolta correntizia degli anni Cinquanta io mi trovai dalla parte degli anziani; al momento della nascita del centrosinistra reputai che si stessero erroneamente accelerando i tempi di una maturazione ancora acerba; per due volte ho avuto da lui lo sfratto dal ministero della Difesa, sotto la spinta di alcuni personaggi militari che avevo cercato di far rientrare nell’ambito dei propri doveri e competenze; e, infine, durante la crisi degli inizi di quest’anno se l’era presa male per certe mie critiche in direzione de sul modo di proporre formule risolutive a ripetizione senza approfondirle adeguatamente e dando evidente impressione di credere solo nello scioglimento delle Camere. Nel precedente governo bicolore Dc-Pci, Moro mi era stato però molto grato perché, essendo io titolare del Bilancio, non gli avevo mai creato problemi con Ugo La Malfa, vicepresidente, che giustamente teneva a esser lui il coordinatore della politica economica del governo. Non mi era costata alcuna fatica, riconoscendo a La Malfa un’ineguagliabile preparazione e anche una preziosa comunicativa sia con i sindacati sia con gli imprenditori. Moro mi ha detto stamane che non pensa di continuare a presiedere il governo e ritiene che debba succedergli io, mettendo a frutto il “colloquio” con gli altri partiti che avevo realizzato durante la mia presidenza del gruppo democristiano alla Camera e che è rimasto anche dopo le forti polemiche contro il mio governo con i liberali. E indispensabile, ritiene Moro, coinvolgere in qualche maniera i comunisti, anche perché i socialisti ne faranno una conditio sine qua non: e questo momento deve essere gestito (la parola mi piace poco) da uno come me, che non susciti interpretazioni equivoche all’in terno e all’esterno. Ma io obietto subito che appartengo alla minoranza congressuale; Moro dice che non è davvero il momento di fare distinzioni del genere e che Benigno Zaccagnini la pensa come lui.
13 luglio 1976. I direttivi democristiani hanno presentato a Giovanni Leone il mio nome, accanto a quello di Moro, che ha già fatto conoscere la sua indisponibilità. Ricevo pertanto l’incarico di formare il governo e nelle dichiarazioni all’uscita dal Quirinale non posso che promettere di compiere ogni sforzo per far rinascere uno spirito di collaborazione tra le forze politiche che dia vigore ed efficienza alla legislatura e raccolga, superando ogni particolarismo e ogni esiziale polemica, l’esigenza sempre più diffusa tra gli italiani di maggior giustizia e sviluppo civile e sociale. Mi reco, fuori protocollo, a far visita a Giuseppe Saragat che mi incoraggia nella ricerca del possibile, dicendo dottamente che altro è il cogito, altro l’azione. Mi incontro anche con La Malfa, con il governatore della Banca d’Italia, Paolo Baffi, con Gaetano Stammati (sarebbe stato ministro del Tesoro nel governo Andreotti, ndr) e Giannino Parravicini (allora presidente del Mediocredito centrale, ndr) per approfondire la realtà dei temi economici prima di iniziare i colloqui con i partiti. Mi aggiorno in politica estera vedendo alcuni ambasciatori, a cominciare da John Volpe (Usa) e da Andrey Rijov (Urss). Mi debbo parare una difficoltà pregiudiziale. Il cancelliere tedesco Helmut Schmidt ha reso pubblica una dichiarazione nella quale, parlando anche a nome di americani, francesi e inglesi con i quali si era consultato a Portorico, si diffida l’Italia dal mutare il proprio schieramento politico tradizionale, se non vuoi trovarsi isolata. Già Moro, tornando avvilito dal vertice dei Paesi industrializzati a Portorico, ci aveva riferito di aver sentito attorno ai problemi italiani un misto di sfiducia e di minore interesse. La forte ascesa dei comunisti sembra fosse considerata irreversibile e sulla governabilità dell’Italia si facevano molte riserve. Nessuno però in sua presenza aveva analizzato il problema e la dichiarazione di Schmidt lo ha colto di sorpresa. Io credo che non dobbiamo mostrarci isterici ne permalosi. Avremo tempo di spiegare al cancelliere la situazione e chiedergli consigli. Oggi egli rappresenta il Paese al quale abbiamo dovuto portare in pegno l’oro della riserva monetaria per garantire gli ultimi prestiti. Non possiamo risentirci perché si occupa di ciò che accade da noi... debitori. Con fermezza mi oppongo a ogni presa di posizione pubblica in polemica con Bonn.
16 luglio 1976. Ho trovato in tutti i partiti, a cominciare dal mio, buona propensione ad aiutare il mio sforzo, ma in pratica non c’è modo di dar vita a una maggioranza. Almeno socialisti e socialdemocratici non marceranno se i comunisti restano sulla negativa. I comunisti, da parte loro, insistono per un governo di emergenza a larga base democratica, e lasciano capire tra le righe di potersi astenere nel voto di fiducia soltanto se questo apporto venga loro chiesto esplicitamente. La Dc è contro il “governone”, ed esige che gli altri partiti, comunisti compresi, assumano decisioni autonome sulla base di un programma che spetta a me redigere e presentare. In qualche momento mi sembra il classico gioco del cerino. L’atteggiamento dei comunisti è il nodo centrale della questione.
20 luglio 1976. Giacomo Mancini (ex segretario Psi, ndr) mi aveva preannunciato che le dimissioni di Francesco De Martino (segretario Psi, ndr) erano effettive e che il segretario uscente non accettava neppure di restare in direzione. Al suo posto, proponenti Pietro Nenni e lo stesso Mancini, è andato Bettino Craxi; ma la linea di riferimento operativo con i comunisti non muta, essendo di tutto il partito. Vedrò Craxi, anche al di fuori delle visite ufficiati della delegazione socialista. Esaurito il ciclo degli incontri con le varie delegazioni, mi accingo a fissare in un documento, che intitolo timidamente Idee per il programma di governo, le linee di quanto ho esposto in questi giorni integrate dai suggerimenti ricevuti. E ora di avviare la conclusione. . 27 luglio 1976. Il documento di sintesi del programma di governo ha avuto una buona accoglienza. Intanto ho accertato dai socialisti, anche da Craxi, che, almeno per un certo tempo, è comunque esclusa una partecipazione al governo; resta rigida la condizione di non avere i comunisti all’opposizione, pur notando in Craxi un accento marcato sull’autonomia socialista. La decisione sarà presa dopo la formazione del governo, ma Craxi mi incoraggia a comporto, ripetendo però che se i comunisti non ci stanno, anche il Psi voterà contro. I socialdemocratici entrerebbero solo con i repubblicani, ma questi ultimi hanno già deciso di astenersi. Anche i liberali mi annunciano l’astensione e i sudtirolesi promettono l’appoggio pieno, al quale tengo molto, avendo da sempre lavorato nell’indirizzo degasperiano di rasserenamento in Alto Adige. Riferisco alla direzione democristiana, alla quale anche Zaccagnini da conto dei passi fatti in tutte le direzioni, compreso un interrogativo al Psi sulla possibilità di un voto a favore qualora i comunisti esprimano un “benevolo no”. La risposta è negativa. Il ministro Carlo Donat Cattin accenna a un passaggio della De all’opposizione, ma l’argomento, forse esposto solo dialetticamente, non viene raccolto. La direzione approva il mio programma e si rende conto che oltre quello che abbiamo ottenuto Zaccagnini e io (in un accordo per me confortante) non è possibile andare. Prima della riunione era stata fatta circolare l’ipotesi di un quadripartito a presidenza laica, ma nessuno ne ha parlato in seduta. Per scrupolo informativo ne ho chiesto ai socialisti, che mi hanno confermato la loro volontà di non partecipazione, chiunque sia il presidente: l’ho fatto sapere ad Amintore Fanfani al quale qualche libero battitore aveva parlato in senso diverso. Oltre la direzione anche molti parlamentari di vari partiti vengono a incitarmi a concludere, andando alle Camere. Quale può essere il rischio? Una bocciatura; ma se poterono subirla Alcide De Gasperi nel 1953 e Fanfani nel 1954, sarebbe da parte mia un atto di superbia non metterla tra le disavventure da affrontare. E, oltre tutto, nell’un caso e nell’altro, si riuscì subito dopo (più o meno) a ripristinare una coalizione con un presidente diverso. Non credo però che i partiti si assumeranno la responsabilità di far cadere il governo, se tutti hanno condiviso con me l’analisi di una situazione al limite della catastrofe. Il mio invito ad aiutarci è stato schietto e senza alcuna furbizia tattica. È una svolta? Per molti aspetti sì, ma come si farebbe altrimenti fronte alla situazione?
29 luglio 1976. Vado a sciogliere la riserva, comunicando al presidente della Repubblica che in serata gli porterò la lista. E una assicurazione circa i colpi di coda, non certo di Zaccagnini che mi dice di aver recitato iersera il rosario per me. Mi è sembrato giusto mantenere al minimo il numero del ministri, diminuendone sette rispetto al governo precedente, del quale ho conservato la collaborazione dei due tecnici già scelti da Moro, Francesco Paolo Bonifacio (Grazia e giustizia, ndr) e Stammati, e divenuti ora senatori. Ma le due novità su cui si soffermerà certamente la stampa internazionale sono Tina Anselmi al Lavoro e Rinaldo Ossola al Commercio estero (ex direttore generale della Banca d’Italia, ndr). Per la prima volta nella storia italiana una donna diventa ministro, mentre l’apporto di Ossola è non solo un fiore all’occhiello del monocolore, ma attesta che vogliamo far sul serio nella politica finanziaria e mette a disposizione del governo le ineguagliabili relazioni estere che Ossola ha acquistato nei lunghi e prestigiosi anni di lavoro alla Banca d’Italia. Anche la nomina di Arnaldo Forlani agli Esteri è importante. Si chiude definitivamente la parentesi aperta nel 1973 a Palazzo Giustiniani, quando Forlani e io fummo gentilmente messi da parte. Altro rilievo rimarchevole: sette ministri lo sono per la prima volta. Non ci si potrà rimproverare di non far posto a “facce nuove”, secondo la pittoresca espressione del Segretario di Stato statunitense Henry Kissinger. Alle 20,40 posso andare al Quirinale, mantenendo l’impegno. Il presidente approva le mie proposte. Anche per i sottosegretari vi è un buon taglio: 12 in meno Sono immagini di serietà che il momento richiede come segnali, anche se non dobbiamo indulgere a un qualunquismo generalizzante.
4-6 agosto 1976. Presentazione alle Camere. Ho lavorato fino all’alba a rivedere, tagliare e cucire il discorso. Non potendo presentare una maggioranza organica, debbo indugiarmi sui programmi fissando un preciso calendario esecutivo. Mi sembra giusto nei confronti dei partiti che, astenendosi, ci consentono di vivere. Hanno il diritto di poter controllare l’operato dell’esecutivo; e noi stessi saremo meglio in grado di correggere le cose che non vanno e che non consentono indugi. Il primo a parlare è Adriano Ossicini, l’antico amico fucino da cui mi divisero, ma solo politicamente, opposte scelte giovanili. Parla poi Nenni con qualche frecciatina, che non intacca la linea socialista di astensione ormai decisa. Negli altri interventi non emergono imprevisti; la “grande astensione” sembra assicurata. Devo però sventare un disegno missino, forse erano soltanto “voci” di confondere le carte associandosi al fronte delle astensioni determinanti. Uno spunto del senatore Armando Plebe mi offre il destro per farlo in modo non pesante. Avendo criticato la base aeriforme del governo gli ho risposto che da ragazzo avevo molto ammirato l’opera di Lucio Fontana intitolata Vuoto nell’aria, mentre non mi era piaciuta la sua Scultura in cemento nero. Contro il governo si esprimono il sardista Mario Melis e il socialista Lelio Basso. Quest’ultimo non ha dimenticato che da capogruppo io bloccai la sua candidatura alla Corte costituzionale; ma lo avevo fatto telefonando prima di tutto a lui, ricordandogli che aveva detto alla Camera che per un qualsiasi cittadino vedere un poliziotto in divisa era una provocazione. Orbene, se nominato giudice costituzionale, avrebbe avuto una guardia al portone di casa e non volevo, davvero che fosse di continuo “provocato”. Questa lealtà di modi fece sì che non si interrompesse una amichevole cordialità. Una piccola parentesi gialloumoristica ha ritardato lo scrutinio finale. La solita voce anonima ha annunciato al centralino di Palazzo Madama che una bomba stava per esplodere nei sotterranei del palazzo. La presidenza ha sospeso la seduta per dar modo agli artificieri di verificare. Siamo però rimasti tutti nell’edificio e se la bomba fosse veramente esistita non avrebbe fatto gran differenza saltare in aria in aula o nella sala Cavour.
16 marzo 1978. Giornata drammatica. Rapito Moro vicino a casa sua e uccisi cinque uomini della sua scorta. Azione condotta da superspecializzati che crea una impressione profonda. Ha dell’incredibile. Mi informa Giuseppe Caroli (sottosegretario alla Difesa, ndr) mentre stanno giurando i sottosegretari. Stento a crederci. Telefono a Neretta (la moglie di Moro, ndr): è fortissima e piange sui morti che è scesa a vedere, stesi ancora sulla strada. Vengono a Palazzo Chigi La Malfa, Enrico Berlinguer, Luciano Lama. Craxi, Pierluigi Romita (segretario Psdi, ndr), Zaccagnini, Luigi Macario (Cisl), Giorgio Benvenuto (Uil) e tanti altri. Emozione profonda. Francesco Cossiga e Giuseppe Parlato (capo della Polizia, ndr) diramano gli ordini per i blocchi stradali. Tutti concordano nel non dare segni di cedimento e nel chiedere la fiducia per il governo. Leone, Pantani e Pietro Ingrao sono d’accordo. A Montecitorio, due ore e mezzo dopo l’ora fissata, leggo una sintesi del discorso programmatico: e lo stesso faccio al Senato. In poche ore ambedue le Camere votano (a favore anche Democrazia nazionale, astenuti, purtroppo, i sudtirolesi e contrari i liberali). Al Senato terminiamo alle due di notte, in vana attesa di qualche notizia su Moro. Alle 20, consigliato da Zaccagnini, ho parlato alla televisione invitando alla compostezza e a non raccogliere provocazioni: non sappiamo se i rapitori abbiano un disegno eversivo immediato da mettere in atto. Mi premeva di sfatare la leggenda che democrazia è debolezza. Il dibattito alle Camere è stato di tono elevato. La Malfa chiede che si risponda alla pari con la dichiarazione di guerra lanciata contro lo Stato democratico. Craxi sostiene che abbiamo tutti sottovalutato il fenomeno terroristico, che ora va sconfitto a pena di veder sconfitto ben più che il governo. Berlinguer allarga il discorso chiedendo una pronta iniziativa per il Medio Oriente. Giorgio Almirante vorrebbe un militare agli Interni e ha attaccato il governo che sarebbe soggetto al padrone comunista. Marco Palmella reputa non abbastanza energico il governo e chiede le dimissioni di Cossiga. Lucio Magri si ispira alla capacità di una mobilitazione delle masse. Altiero Spinelli, per gli indipendenti di sinistra, critica la De che tarda a capire la maturazione democratica dei comunisti.