Eugenio Facci, Libero 23/5/2013, 23 maggio 2013
LA DIETA NEI LAGER DI KIM: 14 FAGIOLI AL GIORNO
Sopravvivono tra botte, freddo e lavori forzati per 12 ore al giorno. Rinchiusi a vita per crimini ideologici, a volte solo per aver fischiettato una canzone sudcoreana. Portati in campi di concentramento dove si entra ma non si esce, senza un processo, senza un testimone, senza nessuna speranza. Sono i prigionieri politici di Pyongyang, in uno degli angoli più bui del globo, una folla di circa 200 mila persone metà delle quali morirà nei campi per «cause non naturali».
Dopo aver trascurato per anni la questione per motivi diplomatici, l’Onu ha adesso iniziato a interessarsi più da vicino della vicenda. Una commissione di tre esperti è stata nominata questo mese per far luce sulle condizioni nei campi, sui maltrattamenti, la malnutrizione e le sparizioni forzate. I racconti di chi è riuscito a sfuggire dai campi e la sempre maggiore documentazione fotografica (ottenuta tramite satellite) hanno spinto le Nazioni Unite a iniziare un’inchiesta. Le condizioni nei campi descritte dai disertori sono brutali. Da regolamento i prigionieri sono malnutriti e sottoposti a turni di lavoro sfiancanti, dalle 12 alle 14 ore al giorno con un solo giorno di riposo al mese. I pasti consistono di 14 fagioli con un contorno di mais. Le torture e i maltrattamenti sono continui.
In questo inferno in terra si può finire anche senza aver fatto niente. Secondo la «teoria generazionale» del regime fino a tre generazioni di una stessa famiglia sono punibili se un membro si rende colpevole del reato di «pensiero erroneo». Basta professare una religione o esprimere dubbi sul regime per essere portati, insieme a figli e genitori, in questi campi di concentramento. La punizione, al contrario di altri «centri di rieducazione» dove la pena è temporanea, dura tutta la vita.
Gli evasi raccontano di esecuzioni pubbliche, e dell’obbligo per i prigionieri che vi hanno assistito di accanirsi contro i cadaveri, scagliando pietre o a mani nude. Altre pratiche deliranti includono l’uccisione di chi non sia di pura razza coreana (ad esempio i figli di coppie miste cinesi-coreane), anche di bambini appena dati alla luce. Molti, ovviamente, non sopravvivono a queste condizioni disumane. «Tra un terzo e metà di quelli che arrivano in questi campi muoiono a causa di malattie e maltrattamenti» dice il direttore del Comitato per i Diritti Umani in Nordcorea in una inchiesta sul tema del settimanale americano CS Monitor. Le stime dicono che le morti «non naturali» in questi campi potrebbero essere state finora oltre cento mila, mentre secondo altre stime il rateo di decessi in questi campi sarebbe di circa dieci mila all’anno.
Il problema finora era stato sottovalutato anche perché la Corea del Sud, nel tentativo di ammorbidire i rapporti col Nord, non aveva voluto portare la questione di fronte alla comunità internazionale. Ma ora il regime potrebbe essere chiamato formalmente di fronte alla Corte Penale Internazionale dell’Aia, se la commissione Onu ritenesse le prove sufficienti per un’azione del genere.