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 2013  maggio 22 Mercoledì calendario

LE NUOVE VIA VENETO CON IL VIZIO DELL’ODIO

Ero un ragazzo che sognava di fare il cinema, appena arrivato a Roma, tantissimi anni fa. Una sera in un bar a due passi dalla Rai, osservai una seduzione a base di tartine, aperitivi e promesse di radiosi futuri nella trasmissione di punta del sabato sera. Il cialtrone cercava di fare ‘fessa’ una splendida ragazza dell’Est, lei fingeva di crederci. Presi nota e scrissi qualcosa su un foglio. Da provinciale terribilmente incuriosito da microcosmi quasi esclusivamente romani, ho osservato per anni il contesto con occhio vergine accumulando appunti e impressioni. Attraverso i miei personaggi, ne La grande bellezza volevo raccontare la crudeltà di una città che può essere dolce, ma costringe chi ci vive all’estrema fatica di confrontarsi con il nulla dell’esteriorità”. A un film che fissasse la decadenza di una filosofia e descrivesse nevrosi, miserie e compromessi di un gruppo di viveur cresciuto nel dogma del disincanto, Paolo Sorrentino pensava da tempo. Transitando in “piazze che sembrano garage” alla maniera di Flaiano nel ‘60: “Il film avrà per titolo La dolce vita e non ne abbiamo scritto ancora una riga. Prendiamo vagamente appunti e andiamo in giro”. Gli sgranati splendori di un’epoca lontana hanno nel film di Sorrentino un che di definitivo. Gli individui, smarriti in un falso movimento di musica e colori, saltano cambiando d’abito da un convivio a una mostra e si ritrovano al punto di partenza. In una perpetua festa declinata a funerale. Si balla e ci si parla addosso, indifferenti a tutto, senza saper guardare oltre, mentre ogni riferimento di senso evapora. Toni Servillo è Jep Gambardella, arrivato in riva al Tevere da giovane e sulle sue sponde trasformato, grazie al successo del suo primo libro, L’apparato umano, in nobile firma da settimanale e gagà con velleità da retore. Intorno a Jep, alle strisce di cocaina e ai camerieri in livrea, scodinzolano ancelle invecchiate al ritmo del realismo. Sabrina Ferilli, bravissima, scettica sulle certezze di Servillo (“A Roma succede sempre qualcosa”) e abile nella risposta lesta: “Sicuro? Sembra da stà a Fiuggi”. E poi giocattolai annoiati con il desiderio della sveltina (un Carlo Buccirosso sudato che danza e non nasconde testosterone e dialettale aspirazione primitiva: “Te chiavasse”), incompresi gregari di ieri (Carlo Verdone, autore sensibile, sconfitto e marginale, al vano inseguimento di una certificazione di gloria letteraria), dame sole abbandonate nel talamo (Isabella Ferrari), ex stelle deformate dal botox (Serena Grandi), cardinali più interessati al coniglio in fricassea che al trascendente (Herlitzka). Una galleria di vinti e presunti vincitori gravati dal peso di un’esistenza che si ripete identica a se stessa. Le tappe sempre uguali, da inseguire con febbrile, robotica, sterile ostinazione. Poi quando anche l’ultima oliva del Martini annega nel bicchiere, ogni redenzione pare perduta e la decadenza sembra l’unica lettura possibile, ne La grande bellezza si intravede la luce della spiritualità. È un lampo improvviso che cambia tono al racconto e trasforma l’apologo. A Cannes, in un’edizione ricca di talento, sono rimasti molto impressionati dall’azzardo. Passione prevalentemente esterofila, perché, con meccanismo simile a quello incendiò risse dialettiche sul capolavoro di Fellini e trasformò Fratelli d’Italia di Arbasino (ritratto sgradito e specchio deformato ma fedele dei vizi cultural-mondani) in un rosario di eccezioni: “Nel libro dell’Alberto ci sono tutti, ma io non sono così”, scorgersi in una maschera de La grande bellezza, concentrarsi su un’umanità alla deriva o intravedere la fine dell’Impero tra i clacson e le bestemmie, può dare turbamento. Nel film di Sorrentino, Via Veneto è una strada deserta spazzata dal vento. Meno di una reliquia alla mercé di ricchi arabi che nei ristoranti in cui il turista è una preda, affondano il turbante nelle lasagne precotte. Anche se ama descriversi con le tinte della pavidità: “Quando scrivo, proietto nei personaggi le biografie che avrei desiderato vivere se avessi condotto un’esistenza più incosciente e meno spaventata”, Sorrentino ha tradotto la lezione di Sean Penn. In This must be the place, l’attore rifletteva sul coraggio: “Bisogna scegliere una volta nella vita, anche una sola, in cui non aver paura”. Sorrentino gli ha dato retta e da cronico insonne, nelle albe sfiorate dal silenzio, ha osservato dalla sua terrazza i tetti di Roma. Deserta e intorpidita. Come nel suo ultimo film. Ancora vuota, per un’effimera tregua, prima di assistere senza emozione al brulicare dei suoi sudditi. Se in Roma di Fellini, il riverbero delle adunate trasteverine rifletteva vitalità, ne La grande bellezza di Sorrentino dominano inconsapevolezza e smarrimento. I luoghi sono gli stessi, ma trascorsi 40 anni, anche le eterne dinamiche sociali governate dal cinismo segnano il passo. Sorrentino, 43 anni tra una settimana, basette da adolescente e scaramanzia da irredimibile calciofilo, in cima al suo affresco, non a caso, si affida a Céline: “Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario”. Se il volo de La grande bellezza, che da mesi anima paragoni a volte oziosi con La dolce vita, si concluderà nello stesso modo, Sorrentino viaggerà ancora. Fellinì. Anità. Marcellò. Altri smoking. Stessa Palma.
È contento di aver immaginato questo viaggio?
Il film è molto rischioso, persino massimalista e cerca di raccontare temi profondi che per chi si occupa di cinema sono considerati intoccabili. Il senso della vita, dell’amicizia, dello scorrere del tempo. Non volevo volare basso, ma so che offrire più piani di lettura può rivelarsi pericoloso. Ti esponi alla stroncatura feroce e all’applauso, allo sberleffo e all’entusiasmo acritico. Mi ha fatto ridere Alessandro Piperno: “I tuoi detrattori istituzionali andranno a nozze”. Ha ragione, ma non saprei comportarmi altrimenti.
Perché ha bisogno di rischiare?
Per divertirmi. Il cinema è mia la zona spericolata. Nella vita reale sono sempre stato pauroso e molto prudente. Parteggio sfacciatamente per la routine, per il binomio casa e famiglia, per le passioni tenui che non mi costringano a uscire dalla tana.
Nessun rimando autobiografico alla frenesia de “La grande bellezza”, dunque.
Qualunque aderenza sarebbe irrilevante rispetto all’eccezionalità del cinema. Per somigliare al Servillo del film non mi basterebbe un secolo. Non ho il carattere giusto, da adolescente ho attraversato periodi di grande solitudine.
Sul lavoro invece?
Amo lanciare sfide, esagerare, ancor di più se il film precedente è andato così e così. Non è il caso di This must be the place, ma sul Divo scommisi perché L’amico di famiglia non era stato accolto bene e non avevo alcuna intenzione di ridimensionarmi. Ora cammino sul filo con La grande bellezza. Magari domani mi calmo, per ora non è aria.
Presunzione?
Esattamente il contrario. Sperimento per indole caratteriale e mancanza di alternative. Ogni tanto mi propongono di girare storie più semplici e comuni e dico no. Non rinuncio perché non le ritenga alla mia altezza, ma perché non saprei come impostarle o migliorarle senza provare disagio.
Il suo protagonista, Jep Gambardella, sostiene che i 65 anni gli abbiano donato una fondamentale illuminazione: “Non ho più tempo per fare cose che non ho alcuna voglia di fare”.
È arrivato a Roma con i calzoni corti e l’ambizione di entrare in contatto con la mondanità. Ne è stato risucchiato. Ha studiato, per poi accettarne le regole d’ingaggio. Il vizio dominante. Ostentare l’ipocrisia. Creare difficoltà al prossimo. Offuscare, in conclamata mancanza di talento, quello degli altri. Gloriarsi dell’impresa perché il fallimento altrui, aiuta a dimenticare il proprio.
Nei consessi frequentati da Servillo luoghi comuni e risentimenti sembrano il prodotto di un vuoto.
Vogliono parlare tutti e in questi incontri in cui non ci si ascolta, alla lunga ci si incattivisce. E si passa il tempo a parlare male dell’altro. L’odio come passatempo, hobby, insofferenza estemporanea, livore della domenica. Si distrugge l’amico di ieri perché non ci ha fatto un favore e si abbraccia il nuovo, con la certezza di tradirlo domani. E il tempo passa, in un’annoiata frustrazione di fondo. Le serate insensate di Jep gli lasciano gli stessi dubbi che ha chiunque partecipi al gioco sociale. Pensi: “Sarebbe stato meglio se non fossi venuto” e poi ti ritrovi con la compagnia di sempre, a fare più tardi di quanto non vorresti. Nessuno che ricordi Dino Risi e a costo di strappare il velo della finzione dica: “Se fossi a casa vostra, a questo punto mi alzerei”.
A proposito di modelli. In Servillo c’è qualcosa di Raffaele La Capria?
Con La Capria ho cenato, è un uomo di rara simpatia, ma lo conosco poco. Gambardella non è ispirato a lui. Solo qualche tappa biografica in comune.
Gambardella è un provinciale gaudente, diverso da Luciano Bianciardi.
Nella metropoli Bianciardi vive sofferenze atroci che immagina di risolvere con il tritolo, il mio provinciale è metamorfico. Si adatta, diventa elemento trainante. Fare tardi è un imperativo. Sembra Antonio Delfini che a mezzanotte, guarda in direzione di Via Veneto e dice ai compagni di bighellonaggio: “E adesso, dove si va?”. C’è una smania ludica, almeno nelle intenzioni.
Meno ludica della contesa elettorale. A Roma si vota tra pochi giorni.
Sono molto fiducioso. È troppo tempo che non ci sono slanci, spero comincino il giorno dopo l’elezione del nuovo sindaco.
Quanto c’è del “Cafonal” di Roberto D’Agostino nella rappresentazione della Roma che si agita intorno a un banchetto?
Ero stato con D’Agostino a una festa dello chef La Mantìa. Mi parve che i molti imbucati recitassero un divertimento posticcio. Che la foga di mostrarsi allegri, la preoccupazione di non rimanere delusi, soffocasse la reale possibilità di godersela. Così ho deciso di non andare da nessuna parte e di reinventare le feste, come tutto il resto. Un film deve essere verosimile nella costruzione, non nella riproposizione di un ambiente.
Arrivando a Roma Gambardella/Servillo aveva un progetto: “Non volevo solo diventare il re della mondanità, ma avere il potere di far fallire le feste degli altri”.
Più che un film su Roma o su una città che si adagia su quel che possiede senza preoccuparsi di quel che potrebbe essere, La grande bellezza è un film per i migranti che a Roma, per caso o per diletto, si sono fermati a vivere. Prima turbati dallo splendore e poi precipitati col tempo in un gorgo che gli ha fatto confondere l’amore con l’abitudine. Al disincanto, Servillo aggiunge la mancanza di sentimento e interesse per il circo che gli ruota attorno. Lo domina, ma lo disprezza. Anche il sesso gli è estraneo. Un fastidio. Un’inerzia simile al mangiare. Lo capisce solo la domestica filippina. Tra loro si chiamano farabutti. Comunicano quasi senza parlare. Ed è giusto. L’unica che si occupa di riordinare il caos di Jep, è anche la sola in grado di decrittarlo dalla profondità di un’occhiaia. Per sopravvivere e ritrovare la felicità perduta, alla fine Jep deve evadere con il pensiero. Immaginarsi in un angolo di beatitudine. Su spiagge remote o nel mare dei suoi 20 anni, con la sua bella distante, a trepidare sullo scoglio.
La voragine dell’adolescenza lo costringe a riflettere.
È circondato da gente già morta e inconsapevolmente, elebora una sorta di testamento spirituale. Va alla ricerca di senso. Si pone domande nelle quali il significato nascosto alberga quasi sempre dalle parti della religione. Non avendo dimestichezza con l’argomento, cerca di fare passi avanti nella conoscenza del sacro. Ma inciampa. Incontra un cardinale, Herlitzka, e scopre che è esattamente come lui. Mondano, vacuo, superficiale. Per scoprire che esiste una terza via alla quale non aveva pensato, deve avvicinarsi a una vera santa con i paramenti da suora. Una donna che, senza riuscirci, vorrebbe abbassare al suo livello. Ma lei crede in qualcosa. Ha dei valori. Non lo ascolta. Lo disarma. Al suo nulla restituisce il niente.
Qui il film cambia completamente registro.
Continuando a rispettare la religiosità. Ed è strano, perché non ho nessun afflato religioso, nessuno slancio spirituale. L’incontro con la suora comunque non gli serve a seguire la vocazione, ma a riconsiderare più lietamente quel che ha vissuto. Appianando il malumore, capendo che c’è una bellezza anche nell’ambizione non realizzata. Nel niente della vita, più emozionante di qualunque mito letterario.
Ne “La grande bellezza” c’è spazio per uno strepitoso Carlo Verdone. Il malinconico amico all’ombra di Jep, provinciale come lui, declassato, sottomesso e disgregato come in un verso di Rino Gaetano.
Carlo è una grande icona popolare. Io pensavo a un film che traducesse la grande commistione di ambienti che Roma tollera alla stessa tavola. La città non è snob, non somiglia a Napoli dove anche per paura, la distanza tra borghesia e popolo è fortissima, si conducono vite separate e ci si incontra solo dal salumiere. A Roma trovi la tonaca abbracciata alla starlette, la mescolanza più improbabile di generi e in quest’ottica ho offerto la parte ad attori che riflettevano le estrazioni più varie. Ci sono Verdone e Ferilli, Galatea Ranzi e Serena Grandi. Mi sono sentito libero, senza pregiudizi. Roma non li ha, da parte mia sarebbero stati ridicoli. E i registi, i pregiudizi, li hanno eccome. Iniziano sempre con precise idee di esclusione. “Quello della tv no, quello della pubblicità neanche”.
Sabrina Ferilli è una spogliarellista che a Servillo insegnerà qualcosa. Donne e uomini nel suo film hanno rapporti mediati dal reciproco scambio, relazioni formali, gelide.
Il film è contemporaneo, ma il contesto narrato è antico. L’uomo guarda alla donna con diffidenza. È un oggetto del desiderio con il quale è del tutto superfluo comunicare. Nella comunità maschile di Servillo resiste il mito dell’amicizia. Anche se tutto è ormai accaduto. Più che amicizie sono condivisioni di una noia.
Ha girato ore di materiale, scene per due film.
Ho dovuto fare delle rinunce dolorose. Un matrimonio in campagna che rivisto, mi è parso una divagazione inutile. La scena con Giulio Brogi nei panni di un vecchio regista è saltata per mere questioni di ritmo e ho tagliato un bel momento con Carlo Verdone perché non l’ho girato al meglio. Doveva risultare in bilico tra il divertente e il disperato, ma non era né surreale, né sufficientemente triste.
Che scena era?
Un istante drammatico. Un addio. Verdone masturba la compagna sulle scale dell’Ara Coeli. Loro sono stati bravissimi, io non ho centrato bene il tono. Ho sbagliato. La parabola di Carlo reggeva comunque, così l’ho tolta.
È affezionato ai suoi film?
Non sono feticista. Non li rivedo. Scordo in fretta, anche le amarezze. Se ripenso ai miei film, non mi ricordo un solo taglio. Da segretario di produzione dimenticai il girato in macchina, senza chiuderla, per una notte. Roba da patibolo.
Ora è a Cannes.
Sono più teso della prima volta. Sento di giocarmi qualcosa di importante. C’è un aspetto liturgico che mi colpisce. I francesi sono molto bravi a costruire una cornice in cui la realtà è sovrastata dalla sensazione che stia per consumarsi qualcosa di epocale. So benissimo che non è così, ma crederci è consolante.