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 2013  maggio 22 Mercoledì calendario

LA ROMA CULTURAL-FESTAIOLA? CHE TALENTO RENDERLA CAFONA

Il senso di La Grande bellez­za, il film di Paolo Sorrentino in concorso ieri a Cannes, è racchiuso in Ferito a morte di Raffa­ele La Capria, uno dei romanzi del Novecento italiano. Entrambi napoletani, entrambi educati a una sorta di armonia pagana, il miracoloso secolare rapporto fra natura e cultura, il secondo ha fat­to a tempo a viverne la sua ultima stagione, mentre al primo non è dato altro che il rimpiangerla per non averla conosciuta. Ferito a morte ruotava intorno al mito del­la «Bella giornata», ovvero la sinte­si perfetta che fra cielo, mare e es­seri umani dava a quest’ultimi l’idea che un paradiso in terra fos­se possibile, e eterno. Ma, in agguato, c’era sempre «l’occasione mancata», il non cogliere l’attimo illudendosi che ci fosse sempre tempo, che lo si potesse sempre ri­mandare. E, invece, dopo, c’era­no solo cenere e disillusione.
Sorrentino è un regista molto letterario (cosa che i cinefili puri gli contestano, non illegittima­mente), per il quale ciò che si dice vale quanto, e non meno, di ciò che visivamente si racconta. La grande bellezza è piena di citazio­ni esplicite, Dostoevskij e Bellow, Céline e Flaubert, e una delle sue chiavi è in un altro autore france­se, Paul Morand, di cui il protagonista parafrasa a suo modo il fastidio di dover trascorrere la sera con una donna che, una volta fat­to l’amore, si rivela vacua, nessun interesse in comune: «Non ho più l’età per sopportare una serata perduta». Il tempo è infatti il tema della Grande bellezza. Lo abbiamo sprecato, ce lo siamo lasciati sfuggire tra le mani, e ora non re­sta altro che il ricordo, la memo­ria, la nostalgia. Quest’ultima è una delle poche armi a nostra dife­sa, dice uno dei tanti protagonisti del film, il meno cinico, il più fragi­le e insieme l’unico che cerchi di trovare una via di fuga (Carlo Ver­done gli presta la sua migliore fac­cia malinconica), insieme con le radici, il senso di appartenenza, come spiega una alter ego di Ma­dre Teresa di Calcutta, «tecnica­mente una santa», ammonisce un cardinale bon vivant, ma anco­ra non­ riconosciuta come tale dal­la gerarchia ecclesiastica...
Il problema è che, comunque, è troppo tardi, la «grande mutazio­ne» si è compiuta e quello che, mezzo secolo fa, l’età della Dolce vita di Fellini e di Ferito a morte di La Capria, era percepito come un futuro minaccioso in agguato, è divenuto il presente, e non lascia più spazio alla speranza.
A passeggio per una Roma col­ta nel suo albeggiare, quando la sua lancinante bellezza non è scal­fita dalla volgarità del turismo di massa, né dalla frenesia dell’altrettanto volgare popolo della not­te, Jep Gambardella, il protagoni­sta del film di Sorrentino (Toni Servillo), autore di un unico bel ro­manzo, scrittore mancato per ansia di perfezio­ne e poi volontà di abiezione realizzat­a­si in un giornalismo da gossip e un presenzialismo monda­no, si muove fra i fanta­smi e la realtà di una città talmente eterna nel suo aver visto tutto e il suo contrario, da po­ter irridere l’attualità. E, infatti, la popolano artisti di una post-avan­guardia di cui ormai non si capi­sce più né il significato né il valore, e che tuttavia hanno successo; in­tellettuali legati a una stagione «rivoluzionaria», il comunismo par­tit­ico di lotta e di governo del tem­po che fu, riciclatisi adesso in cu­stodi di un moralismo accigliato; borghesi con la sindrome del divertimento perpetuo, per coprire il nulla della loro quotidianità; giovani emergenti che hanno dalla loro solo l’età e la voglia selvaggia di apparire. A tutto ciò fa da contorno una cattolicità sempre più di facciata, la pompa, lo sfarzo, senza però che dietro ci sia l’essen­za, lo spirito, la fede. Film per certi versi lugu­bre, una sorta di sermo­ne funebre sulla deca­denza di Roma (e del­l’Italia), La grande bellezza racconta, con una luce cine­matografica, bellissi­ma (opera di Franco Bigazzi) e degli attori esemplari (il già citato Servil­lo è un colto farabutto napoleta­no, tanto simpatico quanto insop­portabile, Sabrina Ferilli una malinconica spogliarellista, Serena Grandi il tragico mascherone del suo passato, Galatea Ranzi, l’intellettuale engagée e protégée del tempo che fu, Carlo Buccirosso l’imprenditore sessualmente as­satanato, la morte della speranza, la dissipazione del talento che l’accompagna, l’angoscia esisten­ziale di chi si trova ad assistere a un finale di partita. «L’occasione mancata» ha preso definitivamente il posto della «bella giorna­ta» e per chi il passato, non aven­dolo vissuto, non è più in grado di ricordarlo, o avendone fatto parte può solo rimpiangerlo, il futuro è solo una morte a credito.