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 2013  maggio 22 Mercoledì calendario

PIGNORAMENTI E SOLDI IN NERO IL DOPPIO FALLO DI PANATTA

Altro che finali di Roma e Parigi nel ’76. La partita più tosta di Adriano Pa­natta, finita male come quella con Pat Du Pre ai quarti di Wim­bledon del ’79, dura quasi dieci anni e viene giocata nelle aule di tribunale con la Federazione italiana tennis per una brutta vi­cenda che risale ai tempi in cui l’ex capitano azzurro ricopriva l’incarico di direttore degli In­ternazionali di Roma. E la Fit, per quella storia di irregolarità e presunte stecche, rivuole i sol­di indietro. Finora, il buon vec­chio Adriano è riuscito ad an­nullare tutti i match ball che la Federazione ha cercato di piaz­zare con una decina di pignora­menti e decreti ingiuntivi. Ma di diritto e di rovescio, è riuscito sempre a evitare il peggio non facendosi trovare - perché tra­sferito - dall’ufficiale giudizia­rio nella sua casa dei Parioli. Se­condo le rimostranze della Fit la stessa cortina fumogena è sta­ta innalzata anche attorno al suo patrimonio (auto, beni di lusso). L’ex numero 4 del ranking mondiale risulta nullatenente, e la Fit è riuscita a far pi­gnorare su un conto corrente di 19mila euro, spiccioli rispetto a ciò che Adriano deve (dovreb­be) rifondere. Ma com’è che na­sce il debito? Per scoprirlo oc­corre andare al 2002 quando Pa­natta si rivolge a un collegio ar­bitrale per chiedere l’annulla­mento del «licenziamento» dal­la Fit, dovuto a una storiaccia di bustarelle e manovre oscure at­torno alle trattative per il main­sponsor da 400mila dollari per il torneo capitolino. Panatta,se­condo l’accusa, si sarebbe fatto pagare in nero 20 milioni di lire da un broker pubblicitario per facilitare la firma del contratto, e altri 10 li avrebbe fatti versare a una persona di sua conoscen­za per ottenere la sponsorizzazione della Provincia di Roma, e ancora altri 5 li avrebbe dirot­tati per pagare gli straordinari dei suoi collaboratori. Nelle «spese pazze» ci sarebbe anche l’ingaggio del fotografo ufficia­le pagato tre volte il prezzo di mercato.
Lette le carte, sentiti i testimo­ni, il collegio arbitrale assegna il primo set alla Fit. Panatta, che contesta la legittimità della re­voca della consulenza, per i giu­dici ha torto, ma decide ugualmente di impugnare il provvedimento. Inizia il secondo set, stavolta davanti alla Corte d’ap­pello civile di Roma. Che confer­ma il lodo arbitrale perché «è ac­cl­arata la non conformità a correttezza e buona fede» dei com­portamenti di Panatta. L’ex campione, però, a sorpresa non presenta ricorso, e la sen­tenza diventa definitiva. Due a zero. Inizia il processo paralle­lo sugli aspetti deontologici e di­sciplinari. Nel frattempo, però, la Fit si è accollata, oltre alla pro­pria quota, anche quella che Pa­natta avrebbe dovuto riconoscere ai tre arbitri. È il primo mattoncino del maxi-debito. Passano gli anni, aumentano gli oneri e gli interessi, e Panat­ta continua a essere uccel di bo­sco. Intanto, l’inibizione perpe­tua dalle cariche federali si trasforma, in secondo grado, in uno stop in panchina a cinque anni. L’ex re degli Internazionali non si arrende e ricorre alla Camera di conciliazione ed ar­bitrato del Coni; il risultato è che anche i giudici del terzo gra­do di giudizio sottoscrivono la precedente sentenza. Da diret­tore del torneo, Panatta non avrebbe dovuto in alcun modo approfittare del suo incarico fi­duciario, affidatogli dalla Fit, per ottenere regali e vantaggi personali. La Camera di conci­liazione, per di più, lo condan­na anche alle spese legali, soldi che vanno ad aggiungersi al de­bi­to precedentemente matura­to, per il quale la Fit si è rivolta al tribunale per chiedere i relativi decreti ingiuntivi. Sforzi ed energie inutili: Panatta impu­gna anche i decreti ingiuntivi provvisoriamente esecutivi, co­stringendo la Federazione a so­stenere altre spese per stare in giudizio, e addossandosi an­che lui altri 6mila euro di spese di giustizia. Perde pure stavol­ta. E il tie-break è sempre più vi­cino. Dopo un po’ di fastidio per la domanda («non voglio parlare di queste cose. Di sport sì, di queste vicende no»), Pa­natta dà al Giornale la sua ver­sione: «Non è vero nulla di quel­lo che dice la Fit. Ogni volta che sento parlare della Fit mi viene l’orticaria. Sono irrintracciabi­le? Ma se non abito più da vent’anni ai Parioli! Dove vivo oggi ricevo regolarmente la po­sta. Ma da loro non è mi è arriva­to nulla. Con la Fit ci parlano i miei avvocati. Non so se il con­tenzioso è ancora in corso. Ci at­teniamo alla legge. Questa sto­ria non mi sembra affatto inte­ressante». Angelo Binaghi, pre­sidente Fit, mostra lo stesso fa­stidio. «L’uomo Panatta non si è mai rivelato all’altezza del Pa­natta giocatore. E ho detto tutto».