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 2013  maggio 21 Martedì calendario

ROSARIA E QUEL PERDONO CHE VIOLENTA LE DONNE

Lui l’ha massacrata a calci e pugni nella pan­cia; lei ha dovuto subire due operazioni, è ancora in prognosi riservata ed è senza mil­za. Lei ora dice di volerlo perdonare e di desidera­re di tornare con lui. Perché lo «ama da morire». Appunto: da voler morire. Non è spiegabile in altro modo la difesa del quasi omicida («non voleva farmi del male», «non ho lividi in faccia») da parte di una donna che è finita, grazie alle sue botte, in una pozza di sangue, calpestata nel corpo, nel cuore, nella dignità. Forse la sua ani­ma è già stata uc­cisa da quell’uomo, che lei ora non vuole né denunciare, né lasciare. Non può, quindi, rendersi più conto che è il per­dono a nutrire la violenza: il carnefice si vuole abbevera­re di una quantità sempre mag­giore di orrore e di strazio, per calmare il suo mostro interno, che s’acquieta di tanto in tanto solo per ricaricarsi di un’ener­gia più feroce.
Non è follia quella degli uomi­ni che picchiano: è follia quella delle donne che non scappano al primo schiaffo. Dal ceffone al­la mano omicida, il percorso è garantito dalla cattiveria primor­diale e ingovernabile di uomini possessivi, rabbiosi, incolti, ma­ledetti, disumani. E le donne hanno molta paura all’idea di re­stare sole, invece di essere atterrite dagli abbracci di un orco san­guinario. Si vergognano di de­nunciare, di fuggire, di chiedere aiuto agli altri, invece di sentirsi oltraggiate dal disprezzo di una bestia deforme. Non si amano, queste donne dipendenti dalla violenza. Si svalutano, si credo­no i­nutili e quasi sembra voglia­no comunicarlo al killer, scelto e alimentato da loro, per farsi sop­primere. Oppure dicono di volersi immolare sull’altare sacrificale della ma­ternità: «non posso lasciarlo, non posso denun­ciarlo, ci sono i fi­gli». Balle!
Così facendo, non si comporta­no da eroine, ma imprigionano i figli negli effetti devastanti della violenza assistita, col­tivano la catena generazionale della brutalità, sfamano le loro creature con lividi, urla e be­stemmie quotidiane. Più tenaci di Penelope, ogni giorno ricuciono la loro vita strappata, convin­te di tessere la tela preziosa della famiglia unita e invece allestiscono i drappi funebri dei sentimenti, dei diritti, del rispet­to; spesso della vita loro e dei fi­gli. Queste donne non sono paz­ze in senso psichiatrico, perché ce ne sono troppe che subisco­no, accettano, rimandano, spe­rano.
La violenza domestica è pur­troppo un dramma sommerso dal pudore personale, dalla vergogna sociale, dalla paura di non essere protette. L’accoglien­za e la tutela sono affidate più ai privati che alle istituzioni. Oltre la metà delle denunce vengono, infatti, con grave colpa, archivia­te o abbandonate.
Le poche belve che vengono perseguite, tornano presto in li­bertà, senza essere state rieduca­te, ma anzi con in bocca il sapore sanguinolento della vendetta.
Ancora, del resto, c’è chi inse­gna alle donne a subire; chi cre­de che sia normale per un mari­to picchiare la moglie; chi consi­dera la separazione una violen­za ai bambini; chi è convinto che i panni sporchi si debbano lava­re in famiglia. Dunque si può pensare che le vittime della violenza siano anche vittime di una «cultura» sbagliata. Cultura, paura, vergogna, sa­crificio, ma di che cosa voglia­mo parlare di fronte al valore del­la vita e della libertà di essere?
Molti di noi, tutti anzi, invece di blaterare di quote rosa, dovremmo rendere le donne, fi­glie, sorelle, madri, meno deboli nel rapporto di coppia. Potrem­mo cominciare col dire loro che il diritto a essere mantenute è molto meno significativo di quello a essere rispettate. Potremmo anche suggerire di valu­tare bene i segni premonitori della sopraffazione in colui che decidono di volere con sé nella coppia: le parolacce frequenti, le urla, gli scatti improvvisi, lo spintone, uno schiaffo, la pos­sessività, la persecutorietà, il controllo, il repentino isolamen­to, le reazioni inadeguate.
E potremmo infine spiegare che le scuse sono pur sempre un patteggiamento, così come il perdono. Il «reato» è stato consu­mato e confessato ma non san­zionato. Il che vuol dire che il de­linquente non ha avuto modo di pentirsi. Dunque ripeterà il ge­sto aggressivo e lesivo. Inutile illudersi.
Il seme della violenza si nutre di compromessi, fino ad acqui­stare un potere distruttivo nel vuoto d’amore.
C’è un momento, anche mol­to prima della tragedia, per sce­gliere di scappare: «Perché la libertà, uno se la prende, e ciascu­no è libero quanto vuole esser­lo» (J. Baldwin).