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 2013  maggio 23 Giovedì calendario

LA LEGGE SULLA CITTADINANZA BAMBINI IN SALA D’ASPETTO

Le scrivo a proposito del dibattito in corso sullo «ius soli» da introdurre in Italia, al quale lei era apparso favorevole argomentandone in una delle sue recenti risposte. Anche se personalmente ritengo che sia una delle questioni meno urgenti da affrontare dall’attuale governo (visti i gravissimi problemi che invece farebbe meglio a gestire), mi chiedo che cosa ne direbbero gli altri Paesi dell’Unione Europea. Concedere la cittadinanza italiana a bambini nati sul nostro territorio, infatti, significherebbe automaticamente che essi saranno cittadini europei, quindi potranno trasferirsi in un qualsiasi Stato dell’Unione. Migliaia di immigrati che potrebbero arrivare senza nessun problema in Germania, Francia, Spagna, Olanda, Belgio ecc. Che cosa ne direbbero i nostri partner europei di questa possibilità?
Chiara Giacomini, Milano
Cara Signora, quella dello «ius sanguinis» è una categoria piuttosto semplice. Nasce «nazionale» il bambino che viene al mondo nel Paese di cui i suoi genitori (o almeno il padre) sono cittadini; ed è «nazionale», generalmente, anche se la famiglia, in quel momento, vive in un altro Paese. Nel caso dello ius soli tutto è molto più complicato. Come ha già spiegato Gian Antonio Stella sul Corriere del 7 maggio, molti Paesi, in questi ultimi anni, hanno adottato lo ius soli e hanno riconosciuto ai bambini, in linea di principio, il diritto alla cittadinanza del Paese natale. Ma hanno disegnato percorsi che variano da uno Stato all’altro. Accanto all’articolo di Stella, il Corriere ha pubblicato uno schema da cui risultano alcuni dei criteri adottati nei Paesi dell’Unione Europea. In Spagna è cittadino chi nasce nel Paese da genitori di cui almeno uno è nato sul posto; ma si può acquisire la cittadinanza anche dopo dieci anni di residenza o un anno dal matrimonio con un cittadino spagnolo. In Irlanda è cittadino il figlio di genitori stranieri che risiedono nel Paese da almeno tre anni. Nei Paesi Bassi la cittadinanza si acquista al compimento dei diciotto anni. In Francia il bambino è immediatamente francese se nasce da genitori stranieri ma nati in Francia. In Germania, vale a dire nel Paese che in passato fu maggiormente caratterizzato dallo ius sanguinis, il bambino è tedesco se uno dei genitori vive nel Paese da almeno otto anni e ha un permesso di soggiorno da tre. In Italia, infine, vale la regola dei diciotto anni, come nei Paesi Bassi, ma l’apolide e il rifugiato politico possono ottenere la cittadinanza entro cinque anni e i figli di cittadini della Ue entro quattro.
Per lo Stato italiano, quindi, il problema non è quello di passare dallo ius sanguinis alla ius soli, ma di rendere quest’ultima categoria meno restrittiva di quanto sia attualmente. Certo, come lei scrive, i problemi più urgenti del Paese sono altri. Ma non vedo perché il ministro dall’Integrazione (quando esiste, come nel caso del governo italiano) dovrebbe rinunciare ad aggiustare una legge che non risponde più alle caratteristiche di un Paese in cui la popolazione cresce ormai soltanto grazie alla presenza di una forte comunità straniera.
Sergio Romano