Giampaolo Visetti, la Repubblica 23/5/2013, 23 maggio 2013
MONGOLIA LA MINIERA DEL MONDO
DAL NOSTRO INVIATO
ULAN BATOR
La “collina turchese” è una voragine nera che potrebbe accogliere una metropoli. Ruspe alte come palazzi non smettono di scavare da tre anni e mentre scendono diventano un tarlo lanciato verso il cuore della terra. Una polvere acre, secca gli ultimi arbusti e il fragore delle trivelle invade la pace perduta nel deserto del Gobi. Ancora pochi giorni e dalla miniera di Oyu Tolgoi, a ottanta chilometri dal confine con la Cina, si muoveranno le prime colonne di tir cariche di rame. Per la Mongolia e per il resto del mondo si apre un’era nuova.
Il Paese più povero e meno popolato dall’Asia centrale si trasforma nel Qatar dell’Estremo Oriente. Gli analisti finanziari anglofoni lo hanno ribattezzato “Minegolia”. Le Borse annunciano la nuova “booming economy” asiatica del prossimo decennio. Oyu Tolgoi è questo: il secondo giacimento di rame e oro del pianeta, venti chilometri di depositi sotterranei, 450 mila tonnellate di rame e 93 di oro all’anno per il prossimo mezzo secolo, 13 mila ex nomadi pastori reclutati come minatori. La compagnia anglo-australiana Rio Tinto, assieme ai canadesi di Ivanhoe Mines, ha già investito 7 miliardi di dollari, due più del previsto. Per la Mongolia è una scossa superiore all’ascesa di Gengis Khan, quasi novecento anni fa.
Nel 2013 il suo Pil annuncia il primato globale della crescita: tra il 13% e il 15%, con punte mensili del 18%. Nel 2011 era salito del 17%. Entro il 2020, dagli scavi di Oyu Tolgoi dipenderà il 35% del bilancio nazionale, destinato alle compagnie straniere. Non solo il tesoro del Gobi sconvolge l’ex pascolo dell’Urss. Sotto l’erba bruciata avanzano i tunnel di 6 mila giacimenti delle materie prime e delle terre rare da cui dipende l’industria globale: valore stimato, oltre 3 mila miliardi di euro. Una fortuna e una condanna: solo le multinazionali occidentali dispongono dei capitali per trasformare gli elementi in risorse, mentre la Cina si è assicurata l’85% di tutti i prodotti nella provincia perduta nel 1911.
Gli investimenti esteri costituiscono già il 62% del Pil nazionale, il 75% entro il 2015. «Si consuma la grande spartizione della Mongolia – dice Galsan Odontuya, docente di scienze sociali nell’università statale della capitale – mentre le multinazionali ci accusano di “neonazionalismo delle risorse”». Il bilancio della Rio Tinto supera da solo il Pil mongolo. Per una paese vasto cinque volte l’Italia, con tre milioni di abitanti di cui la metà concentrata a Ulan Bator, è un insuperabile shock. Le compagnie minerarie estere stanno acquistando l’unica democrazia centroasiatica, Giappone e Corea del Sud la costruiscono, la Cina la consuma sotto il controllo di Russia e Stati Uniti. Ai mongoli finiscono gli avanzi: il 35% dei nuovi “campioni mondiali d’incassi” vivono sotto la soglia di povertà, la disoccupazione sfiora il 40%, l’alcolismo travolge sette maschi su dieci. Da missile della crescita, la Mongolia diventa anche il simbolo della devastazione sociale, culturale, ambientale e politica che sta sconvolgendo l’Asia del post- comunismo capitalista. La Banca mondiale parla di «clept ocrazia»: affonda nella classifica dei Paesi per corruzione, un pugno di milionari nel luogo più straordinario e distrutto del pianeta.
Montagne, pascoli e deserti, tra gli Altai del Bayan-Olgii e il Gobi del Dornogov, vengono abbandonati ogni anno dal 20% degli abitanti. Le praterie sono squarciate dalle miniere abusive delle “tartarughe”, i cercatori d’oro clandestini. Fiumi e laghi si rivelano avvelenati dalle sostanze usate per l’estrazione di metalli e minerali. Le sorgenti inaridiscono. «Ottocentomila nomadi pastori – dice l’attivista per i diritti umani Chimgee Ganbold – sono costretti a vendere praterie, greggi e mandrie. È la febbre dell’oro, quasi sempre si risolve nell’emarginazione ». La terra non confiscata per le miniere, finisce nelle mani dell’industria tessile. Il boom di carne e cashmere, trainato da Pechino, in tre anni ha fatto esplodere i capi di bestiame da 34 a 45 milioni: quindici animali per ogni abitante. Le capre, con la lana più pregiata, dal 20% dei greggi sono diventate il 70%. I vitelli da macello soppiantano gli yak. I terreni così si esauriscono, l’acqua viene destinata alle miniere, le falde inquinate. I mongoli, con l’inflazione al 14%, non possono più mangiare carne e ripararsi dal gelo con la lana. Per la prima volta il popolo che dominò il più vasto impero della storia si ritira dai suoi spazi infiniti e viene deportato in un’orrenda città che ha cambiato nome nove volte e che è lo specchio del suo drammatico successo. A Ulan Bator, “eroe rosso” dei sovietici, si vendono oggi tre generi di prodotti: il lusso occidentale per il 5% dei milionari, il cashmere mongolo per i 12 mila stranieri delle multinazionali e l’alcol russo per i 600 mila mongoli ammassati nelle tendopoli delle gher. Un terzo degli abitanti vive con un dollaro al giorno e 6 mila bambini di strada dormono nelle fogne per non morire assiderati. I manager stranieri guadagnano 70 mila dollari al mese, gli insegnanti universitari mongoli 200. L’affitto di una stanza è di 250 dollari mensili: il 95% della popolazione si indebita con le banche, o finisce nel fango e nel ghiaccio dei distretti-gher. Qui l’acqua si vende ad un razionato rubinetto di Stato, mentre nell’esclusivo residence Bellavista, due cantieri più in là, i water elettrici spruzzano getti caldi sul posteriore degli eletti. I figli dei ricchi frequentano le scuole private da 25 dollari all’anno, quelli dei poveri non hanno i soldi per il bus che in un’ora raggiunge la periferia. La capitale della “booming economy” mondiale, si trasforma nel simbolo dell’ingiustizia che domina lo sviluppo asiatico, dalla Cina, al Bangladesh, alla Cambogia. «Girano più Suv che a Seul – dice Usukh Zorig, medico nel quartiere gher di Chinghiltei – e le targhe facili da ricordare vanno all’asta a 20 mila dollari. Un numero di cellulare vip costa fino a 30 mila dollari: i milionari, se non visualizzano le cifre status-symbol, nemmeno rispondono al telefono».
I sessanta clan mongoli saliti sull’ascensore per il paradiso, tutti con almeno un familiare in parlamento, vivono assieme ai signori delle miniere sulla collina di Zeisan, vicino alla residenza presidenziale. Ville California-style, grattacieli-deluxe e fuoristrada con teschi d’acciaio scolpiti nei cerchioni delle jeep: un concentrato di esibizionismo e pessimo gusto che domina la coltre di polvere di carbone, stagnante sulle baraccopoli dei nomadi senza più animali, ammassati oltre il fiume Tuul. «Prima il dominio cinese della dinastia Qing – dice lo storico Otsonsuren Dulam - poi le purghe staliniane del 1937 e lo sfacelo del-l’Urss: pensavamo di essere sopravvissuti al peggio, ma non avevamo conosciuto la razzia del capitalismo energetico ». Fino al contagio della febbre da materie prime, alla fine degli anni Novanta, i mongoli conducevano una vita antica e vagavano liberi con le mandrie su altipiani di ineguagliata bellezza. Ridotti in povertà dall’improvvisa ricchezza, sono scossi oggi dall’odio contro la casta che, tra gli applausi dei mercati internazionali, si spartisce il patrimonio nazionale sommerso e il tesoro naturalistico a cielo aperto. Dietro il «nazionalismo delle risorse », monta la «xenofobia dei capitali»: l’Europa è razzista perché gli immigrati sono tanti e troppo poveri, la Mongolia perché sono pochi e troppo ricchi. «Duecentomila nuovi milionari fra 3 milioni di poveri – dice Ch. Ayurazana, direttore di un centro di accoglienza a Yarmag – devastano una società primitiva come quella mongola. Satelliti e web impongono i modelli anche nei campi gher dell’aymag di Arkhangai, dove giace distrutta Kharkhorin. Nomadi e pastori svendono tutto per un’auto giapponese, un vestito europeo, un computer coreano, una notte al karaoke e il sogno di una vita americana: xenofobi ed esterofili nello stesso tempo, in realtà vittime di consumi di cui non tengono il passo».
I giovani si laureano nelle 180 autodichiarate «università» private e fuggono all’estero. I loro genitori lasciano i pascoli e spariscono in miniera per pagare le rate della tivù al plasma, ormai esclusi da ogni scelta. Regioni immense abbandonate, imbevute di arsenico e desertificate, da offrire allo sfruttamento delle materie prime e al business delle necessarie infrastrutture. Cina e Corea del Sud stanno per cominciare le strada asfaltata più lunga della storia nazionale. Gli azionisti delle compagnie minerarie occidentali, con 5,2 miliardi di dollari, annunciano 1900 chilometri di nuove ferrovie per i vagoni del carbone. Pechino ha donato un imponente palazzetto dello sport. Il Giappone, entro il 2016, consegnerà il nuovo aeroporto della capitale, costato 500 milioni di dollari, e promette un sistema di bombardamento delle nuvole per non lasciar morire di sete la popolazione. La stampa di Tokyo lancia anche l’allarme- atomico: l’ex base militare sovietica di Bayantal offerta segretamente ad americani e giapponesi per essere trasformata nella più grande discarica nucleare del pianeta e la francese Areva concentrata sull’accaparramento dell’uranio.
«Per la Mongolia impegnata in un titanico slancio di modernizzazione – dice l’ex ministro degli Esteri, Tserendash Tsolmon - è l’occasione per una crescita straordinaria». Distribuendo equamente le royalties delle materie prime, anche senza sforzarsi di creare imprese e occupazione, lo Stato potrebbe garantire ad ogni individuo una rendita sufficiente, tutelare l’ambiente, far rinascere villaggi e città in tutte le regioni, salvare agricoltura e allevamento, assicurare ai giovani l’istruzione e un lavoro dignitoso. «Invece – dice l’ingegnere-cuoco di un chiosco di spiedini fuori dal tempio distrutto di Mandshir Khiid, tra i monti di Zuunmod – siamo una massa di ereditieri tenuti in miseria». A fine giugno si terranno le presidenziali e si è
aperta la campagna elettorale. Sfidanti: il favorito presidente uscente Ts. Elbegdorj, filo-occidentale, l’ex campione di lotta B. Bat-Erdene, più aperto a Cina e Russia, e la ministra della sanità N. Udval, dell’ex partito comunista sovietico, prima donna candidata al vertice del potere. Tutti promettono di «restituire la Mongolia ai mongoli», le multinazionali per un mese si fingono preoccupate per investimenti e concessioni, ma a Ulan Bator e nelle campagne si rischia una rivolta. «Anni di promesse – dice Tsagaan Sanjdori, ultimo pastore di Tsetserleg – poi i ricchi della capitale votano con la scheda elettronica made in Usa, i garanti degli interessi stranieri vengono eletti, il malloppo viene spartito e la gente si scopre più povera e privata di ogni opportunità ». A Oyu Tolgoy è scattato anche l’allarme eco-terrorismo contro un movimento di pastori rimasti senz’acqua per le capre, che promette blocchi alla miniera e al rame già pagato da Pechino. Nel Gobi, come nel resto della Mongolia, in Cina e nell’Asia condannata a crescere per salvare il consumismo occidentale, chi chiede il rispetto della vita e un po’ di misura, pur nell’ingordigia, è accusato di sovversione. La “collina turchese” non esiste più. Il sole non raggiunge il fondo nero dell’abisso in cui il mondo spinge un nuovo sogno. Una famiglia nomade, stretta tra le gobbe piegate di un cammello, guarda la processione dei primi camion di rame che risalgono i tornanti della miniera, appena visibili laggiù, come chicchi di riso, e se ne va. Nel deserto non sono stati mai così soli.