Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  maggio 22 Mercoledì calendario

«APPLE HA ELUSO DECINE DI MILIARDI»

NEW YORK. Dal nostro corrispondente
Apple nega: nessuna evasione fiscale. E neanche elusione fiscale. Per bocca del suo amministratore delegato, Tim Cook, il gruppo che con i suoi prodotti ha fatto sognare tre generazioni nel mondo intero, passa al contrattacco. In nome di tutte le multinazionali americane. «La verità è che il sistema fiscale Usa è antiquato, non è adatto a gestire le esigenze di un’azienda globale che opera nel settore hi tech», afferma Cook.
Il Ceo di Apple ha fatto ieri le sue dichiarazioni, fiere, sempre al rilancio, davanti alla commissione di inchiesta del Senato, presieduta dal Senatore democratico Carl Levin, con il repubblicano John McCain come numero due. Ha parlato per quasi sei ore con la sicurezza di chi sa di non poter essere in alcun modo accusato di evasione o elusione fiscale. Con lui c’erano Peter Oppenheimer, il direttore finanziario e Philip Bullock, il responsabile degli affari fiscali, preparatissimi sul piano tecnico e pronti a coprirgli le spalle, a dimostrare che la Apple ha fatto i suoi interessi operando nei contorni della legalità.
Un confronto che per molti ha una valenza storica. In gioco ci sono una filosofia che si è diffusa un po’ dappertutto nel mondo e nelle istituzioni multilaterali: occorre combattere i vantaggi che le grandi aziende ottengono grazie ai paradisi fiscali, occorre stringere il torchio del prelievo grazie a controlli incrociati sempre più serrati e alla collaborazione fra le agenzie per le entrate dei vari paesi. Stato contro aziende? Ma fino a che punto gli stati nazionali capiscono quali siano le esigenze di una multinazionale?
È in questo contesto che parte ieri l’audizione della Apple. Carl Levin ha scoperto che dalle dichiarazione fiscali di Apple mancano forse 75 miliardi di dollari in quattro anni. Di più, ha scoperto che la Apple, grazie a una rete di controllate irlandesi (quattro tra cui la Apple Operations international) che ricevono royalties da ogni parte del mondo per lo sfruttamento di proprietà intellettuali, non paga tasse né in Irlanda né negli Stati Uniti. Le società risultano “apolidi”, non residenti in nessuna parte del mondo, sembrano entità astratte e ricevono fiumi di denaro su cui non pagano tasse. Cook insiste: «Non teniamo i quattrini in qualche isola dei Caraibi». Ma grazie a questa situazione, la Apple ha già accumulato quasi 100 miliardi di dollari in cassa all’estero. Soldi che non vengono rimpatriati perché sarebbero sottoposti a una tassazione del 35%.
Le argomentazioni a vantaggio delle aziende sono venute proprio da alcuni senatori, come quella del repubblicano McCain: «Samsung è un suo concorrente». «Sì, senatore, è un concorrente diretto» risponde Cook. «E Samsung paga un’aliquota del 14% in patria in Corea del Sud, non è forse un vantaggio competitivo?» gongola Cook. Certo che si tratta di un «vantaggio competitivo. Hanno più risorse per fare ricerca». Il vero capo d’accusa che Cook trasferice al Senato americano è quello di non tener conto del ruolo che certe aziende americane svolgono per il Paese: «Abbiamo creato la App Economy - dice Cook – abbiamo creato occupazione in America per 600mila persone, aumentato l’efficienza produttiva, contribuito all’immagine del nostro Paese e un giro d’affari di 9 miliardi di dollari. Abbiamo anche pagato tasse in America per 6 miliardi di dollari, la cifra più alta mai pagato da nessuna azienda».
Il messaggio di Cook ai politici americani è semplice: riformate il sistema, riducete le aliquote per il rimpatrio dei profitti e alcuni miliardi di dollari torneranno in America. Dov’è il vero interesse del Paese? Il Senato rifletterà sul da farsi.