Marco Onado, Il Sole 24 Ore 21/5/2013, 21 maggio 2013
PER GLI AZIONISTI UN BENE, MENO PER IL MERCATO
In Borsa arrivano i dividendi, ma è una buona notizia per gli azionisti, non per il mercato, perché da tempo (e non solo in Italia) le risorse raccolte dalle imprese sono sistematicamente inferiori a quelle restituite, principalmente attraverso le cedole. In altre parole, il flusso va in direzione opposta (ostinata e contraria, direbbe De André) rispetto ai manuali di finanza, dove la Borsa viene descritta come un luogo in cui le imprese raccolgono risorse per finanziare investimenti a lungo termine e rendere più robusta la loro struttura finanziaria. La Consob calcola un indicatore di de-equitisation per il mercato italiano, dato dalla somma algebrica di flussi positivi per il mercato (emissione di nuovi titoli) e flussi negativi (dividendi, riacquisto di azioni, Opa). Questo indicatore dal 2009 si mantiene intorno ai 10 miliardi di euro, dopo aver toccato i 40 nel 2007 e nel 2008, quando appunto i dividendi, soprattutto nelle banche, erano ben più consistenti di quelli di oggi. È un’altra misura della stagione critica della nostra Borsa, che continua ad avere un numero estremamente ridotto di società quotate (253: la metà della Francia e un terzo della Germania) e un rapporto fra capitalizzazione di borsa e pil del 22,5 per cento, un terzo di quella (67,8) di fine 2000. Il problema è generale ed è in qualche modo la conseguenza naturale di un periodo, che abbraccia ormai molti decenni, in cui i tassi di interesse sono rimasti bassi, favorendo così ulteriormente il debito sul capitale di rischio, mentre i profitti erano elevati e gli investimenti fissi in declino. Non sorprende che il flusso di nuove quotazioni si sia ovunque contratto. E le non molte che arrivano, sono spesso dominate da logiche opportunistiche dei vecchi azionisti, ovviamente a scapito dei nuovi investitori. Facebook, che ha perso un terzo del suo valore in un anno, è solo il più clamoroso di casi molto frequenti anche in Italia. Molti rapporti ufficiali hanno analizzato il problema e hanno proposto soluzioni. In particolare, la commissione nominata dal governo britannico e presieduta da John Kay ha indicato una serie di misure per rivitalizzare il mercato di borsa, partendo dal presupposto che l’ostacolo maggiore non sono costi e rischi delle procedure di quotazione (e dunque della relativa regolamentazione) ma la catena di "relazioni di fiducia che va dagli emittenti agli investitori di lungo periodo. Il problema, nota la commissione, è che i mercati sono sempre più dominati da operazioni di brevissimo termine e quindi dal dominio degli speculatori sugli investitori di lungo periodo. In queste condizioni, come dar torto a un’impresa che vede la quotazione come una minaccia da evitare accuratamente? Le proposte della Commissione mirano quindi a creare incentivi per gli investitori di lungo termine attraverso una serie di interventi che vanno dall’efficienza della corporate governance agli incentivi per gli investitori istituzionali. Quanto ai regolatori, il rapporto nota che si sono preoccupati di emanare norme sempre più dettagliate di trasparenza e comportamento, ma hanno lasciato carta bianca a società che gestiscono la borsa portate sempre di più a privilegiare quantità e rapidità degli scambi ad altri aspetti più sostanziali. L’effetto, è che oggi i luoghi dello scambio sono vere e proprie "trading machines" ossessionate dall’idea di guadagnare qualche centesimo di secondo nell’esecuzione degli ordini e che di fatto hanno frammentato la liquidità dei titoli. È un’analisi interessante e che porta a raccomandazioni che possono essere più efficaci della pura semplificazione delle procedure di ammissione, ancora considerata da taluni come la strada maestra da percorrere, nonostante che decenni di tentativi in questa direzione non abbiano mai dato risultati degni di nota. Ma se il rapporto Kay ha ragione, non sarà così facile usare il mercato finanziario per sciogliere il cappio che sta soffocando le imprese, aprendo nuove fonti di finanziamento. E d’altra parte, la situazione è così drammatica che ormai manca il tempo per aspettare che abbiano effetto misure strutturali come quelle proposte dal rapporto. Può sorgere lo sconfortante sospetto che quando arriveranno i nostri, sotto forma di investitori istituzionali finalmente orientati al valore di lungo periodo delle imprese, gli assediati avranno perso da un pezzo la battaglia. Fortunatamente, non è così. Tutte le proposte sulle nuove forme di finanza per le imprese puntano alla creazione di titoli con nuove caratteristiche rispetto a quelli già esistenti. Il vero insegnamento da trarre è che bisogna preoccuparsi di offrire alle imprese non solo un veicolo finanziario adeguato, cioè di costruire il mercato primario, ma anche (per non dire soprattutto) di costruire un efficiente e trasparente mercato secondario, che risponda alle esigenze di lungo periodo degli emittenti ed investitori, che non si misurano in millisecondi nell’esecuzione degli scambi. Ad esempio, un brillante economista di Deutsche Bank, Marco Stringa, propone di costruire un mercato di obbligazioni legati a prestiti per piccole e medie imprese convertibili in azioni. Uno strumento molto interessante perché potrebbe contribuire nell’immediato a fornire risorse finanziare alle imprese e nel medio termine ad irrobustire una struttura finanziaria troppo sbilanciata sul debito. Ma perché l’iniziativa abbia successo occorre concentrare gli sforzi innovativi non solo sullo strumento, ma anche sui luoghi degli scambi e probabilmente costruire piattaforme di negoziazione ad hoc, centrate sulle esigenze di lungo termine di emittenti e investitori. Si può mettere in pratica tutto ciò anche in tempi brevi: l’importante è capire che dobbiamo vedere nuovamente il fiume del mercato finanziario fluire dalla sorgente (i risparmiatori) alla foce (le imprese) e che i dividendi non possono sempre rappresentare un drenaggio di risorse dal sistema produttivo. Anche in economia, alla fine la legge di gravità prevale.