Andrea Secchi, ItaliaOggi 23/5/2013, 23 maggio 2013
UN TWEET NON SALVERÀ I GIORNALISTI
C’è scoop e scoop. Ci sono quelli ottenuti grazie alla tenacia del giornalista, quelli fatti grazie a una fonte preziosa, quelli in cui la fortuna ha giocato un ruolo fondamentale. Ma tutti, secondo il vicedirettore del Corriere della Sera, Giangiacomo Schiavi, stanno lì a indicare la strada del giornalismo soprattutto in un’epoca in cui il frastuono informativo sembra minacciare il senso di questo mestiere e dei giornali stessi.
E non si parla soltanto dei vari Montanelli, Bocca, Biagi. Nel suo libro intitolato Scoop (Carte Scoperte, 393 pagine), Schiavi ha raccolto articoli e storie di chi è riuscito a far segnare goal ai propri giornali, anche partendo dai quotidiani di provincia o trovandosi davanti alla notizia per caso.
Domanda. Testardi? Rompiscatole? Temerari? chi sono i giornalisti di cui ha raccolto gli scoop?
Risposta. Il primo aggettivo è appassionati. Hanno avuto una grande curiosità, la voglia di raccogliere il più possibile notizie particolari, dettagli per avere poi nel pezzo «una riga-una notizia». Hanno avuto una curiosità fuori del comune e una passione straordinaria per il mestiere. Un elemento fondamentale, perché sei giornalista sempre, anche in viaggio di nozze. Poi bravura, abilità, furbizia, astuzia. In queste storie non c’è il cinismo spietato di chi bara o trucca le carte.
Spesso si è trattato di una sfida leale e corretta. Scoop è un po’ una sorta di omaggio alla memoria di questo mestiere.
D. Questo perché sta morendo?
R. Molti dicono che è declinante, che morirà. Ma il giornalismo fatto come si racconta nel libro è sempre più necessario. Non sarà un tweet a salvare questo mestiere. Fare domande, correre sul posto, cercare un particolare, essere rompiscatole, mettere in discussione è il vero giornalismo di cui si ha bisogno anche oggi in un’epoca di frastuono informativo.
D. Ma come nasce questa antologia ragionata degli scoop?
R. Nasce dai miei corsi alla scuola di giornalismo dell’Università Cattolica a Milano. Dal 2008 tenevo un corso di tecnica e scrittura della cronaca. A un certo punto mi sono reso conto che tutta questa tecnica artigianale spesso veniva ignorata nei giornali. Così, anziché fare semplicemente esercizi di scrittura, ho proposto agli allievi di andare a rileggere alcuni scoop fatti dai giornalisti. Loro ricordavano quasi esclusivamente quelli televisivi, di Striscia, delle Iene, non dei giornali.
D. Sintomatico...
R. Già, era necessario fare il ripasso e li ho inviati negli archivi a cercare gli articoli di quei giornalisti che per me avevano fatto la storia del mestiere, oltre i Biagi, Montanelli, Bocca che anche loro ricordavano. È un elenco monco perché ci sono tanti altri esempi di scoop che non ho inserito, però è una sorta di sillabario, con un elogio anche della casualità, perché lo scoop si fa anche così, come quello del giornalista che si trova a testimoniare un evento mentre è in viaggio di nozze e della cronista del Corriere che ascolta una telefonata sulla spartizione di poltrone da un vivavoce lasciato aperto per caso.
D. Nel libro ricorre spesso uno dei comandamenti del mestiere: chiedere sempre (presentarsi al sindaco e chiedere, al manager e chiedere, ai sindacati, al padrone, all’operaio e chiedere).
R. Quando ho cominciato in provincia, il mio primo maestro mi ha insegnato che bisogna sempre bussare e chiedere. Arriveranno tante porte in faccia, ma poi se ne aprirà una che potrà darti quello che cerchi.
D. Il che fa il paio con il secondo comandamento, consumare le scarpe, oggi criticato spesso su internet da chi afferma che le tecnologie non lo rendono più necessario.
R. Scarpinare sui marciapiedi è un po’ una metafora. Oggi anche se consumiamo le suole c’è sempre qualcuno che è arrivato prima di noi: un comune cittadino, un passante, che con una foto e un tweet dà per primo la notizia. Il nostro problema è sempre quello che dovremmo essere in grado di arrivare prima, ma se non ci possiamo più riuscire abbiamo comunque il dovere di andare a vedere e di rifare quello che diceva Corradi: «Se non vedo non riesco a scrivere». Oggi più che mai bisogna documentare le cose. La vicenda di Domenico Quirico (l’inviato della Stampa in Siria di cui non si hanno notizie da 40 giorni, ndr), mostra questo tentativo di vedere, di andare oltre, purtroppo giunto all’estremo. Se non vogliamo fare gli impiegati della notizia, dobbiamo vedere e raccontare trovando strumenti nuovi di narrazione.
D. Insomma, il compito è distinguersi da quello che lei chiama il grande rumore.
R. Siamo assediati, chiamati a fare anche cose che non ci competono. Siamo opinionisti, blogger, twittatori, andiamo in tv, però il nostro compito principale è continuare a raccontare i fatti, allinearli, dargli un ordine o trovare quello che l’onda generale non ha visto, andare controvento. Sono tutte abilità nuove chieste al giornalista moderno.
D. Non lo fa nessuno?
R. Alcuni lo fanno, come per esempio Fabrizio Gatti, che ha trovato il modo di andare a fare qualcosa di insolito rispetto a quello che fanno gli altri. Certo non tutti possono avventurarsi in un centro per immigrati o stare due mesi in Africa. Ma comunque bisogna cercare di entrare dove altri non riescono a entrare.
D. Lei critica Wikileaks, perché?
R. Con una mole così impressionante di documenti, e anche una certa confusione, crei polveroni e accuse non completamente dimostrate. Alcune carte sono importanti, sono una rilevante informazione giornalistica. Quello che manca, però, è il rapporto anche umano con la realtà. Riprodurre semplicemente carte e appunti, come a volte accade con certi verbali, non esaurisce l’idea di scoop che ho io. Walter Tobagi diceva che dietro certe carte ci sono manine o manone interessate a qualcosa, noi non dobbiamo essere distributori di merce avariata che serve a qualcuno. Poi è vero che in Italia c’è la necessità di un accesso più libero e trasparente a certe informazioni ancora vincolate da segreto che impedisce la ricerca della verità.
D. Per certi versi è più difficile oggi. Lei scrive che prima il giornalista scriveva quel che nessun altro poteva vedere o controllare. Aveva l’esclusiva delle fonti.
R. Noi dobbiamo cambiare anche le fonti. Una volta c’era il giornalismo che seguiva certe ritualità. Poi qualcuno rompeva lo schema, trovava prima della conferenza qualche elemento, qualcosa di più. Anche oggi seguiamo piste classiche: la conferenza stampa, i giri in questura, in comune, parlamento. Questa però è l’informazione di base. Quello che serve è fare uno sforzo supplementare e cercare quello che è difficile trovare, dare qualcosa di più al tuo lettore.
D. Diffidare sempre?
R. Soprattutto della costruzione pilotata della notizia. Gli uffici stampa sono spesso i nostri nemici, perché cercano di far passare un’informazione pilotata. Oggi più di prima si è scoperto il marketing della notizia. La servono curiosa, con un po’ di pepe, puoi anche fermarti a questo però sarebbe un naufragio.
D. Si torna al futuro del giornalismo. Quello che racconta è un lavoro da remunerare e il cui risultato deve essere remunerato all’editore. È il tema della valorizzazione dell’informazione, anche online.
R. Non si può fermare un’onda diventata gigantesca: avrai informazione aperta in rete, free, non pagata. Però il lavoro giornalistico, il giornale come risultato artigianale e industriale merita una remunerazione. Per dire quello che pensi basta un tweet, ma quello lo potevi fare anche prima al bar, la presenza di piazze virtuali non esaurisce il compito del giornalista. Essere credibile, andare a cercare notizie è l’abc del rapporto leale con il lettore.
D. E oggi come va?
R. Vedo un rimbalzo di responsabilità. I giovani interpretano il mestiere come i grandi giornalisti del passato, solo che non c’è più quella scuola. Bisogna dimostrare di essere necessari. Milena Gabanelli, per esempio, dimostra che si può anche disturbare quello che potenzialmente può sembrare un tuo amico, perché il tuo compito è quello di non guardare in faccia nessuno. La fiamma è sempre la notizia. E vorrei dare anche un pensiero sulla carta.
D. Prego.
R. Oggi dobbiamo far pensare con quello che scriviamo, emozionare e far capire che anche con internet la carta non è morta. Riuscendo a realizzare quello che diceva Hemingway, uno scheletro a cui deve battere il polso. Dobbiamo avere un po’ di palpitazione.
D. C’è uno degli scoop che ha raccontato che vorrebbe aver fatto lei?
R. Sì, lo scoop del catamarano di Florido Borzicchi (nel 1988 per il Resto del Carlino scoprì prima della polizia la barca usata dagli assassini di Annalisa Currina, una skipper massacrata e uccisa al largo di Senigallia, ndr). È uno scoop puro del giornalista che è in branco con gli altri colleghi, segue gli sviluppi dalle Marche, alla Calabria, alla Sicilia. Poi a un certo punto ha l’intuizione giusta: vado a vedere se in Tunisia ci può essere il catamarano assassino. Gli altri nicchiano, lui si avventura, rischia, con una foto batte tutti i porticcioli della zona e trova la barca che cercava. Uno scoop che è una pietra pura, preziosa, frutto di coraggio, passione, rischio, entusiasmo.