Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 22/05/2013, 22 maggio 2013
COME È RICORDATO IL PASSATO IN GERMANIA E IN ITALIA
Sono stato a Berlino e mi ha stupito come la città dia spazio al ricordo del tragico periodo nazista. Tra la porta di Brandeburgo e il Reichstag c’è un memoriale delle vittime dell’Olocausto; dinanzi all’ingresso dei musei ci sono gigantografie dei personaggi deceduti o perseguitati dal regime; un altro memoriale spiega attraverso un dettagliato percorso fotografico, a volte anche duro, come Hitler conquistò il potere fino a scatenare la seconda guerra mondiale; c’è persino un cartello che segnala dove era situato il bunker in cui si consumò la fine del regime. Molte le scolaresche in visita composta, molti i turisti e i tedeschi stessi osservavano in rispettoso silenzio. L’impressione è che la Germania abbia saputo storicizzare il suo passato scomodo, anziché prendere la pericolosa scorciatoia dell’oblio. Mi chiedo perché in Italia non sia ancora possibile un simile atteggiamento nei confronti del fascismo, che invece ancora divide l’opinione pubblica. Sarà mai possibile avere anche a Roma, magari a piazza Venezia, un luogo permanente che ricordi il ventennio, come Berlino ha fatto col nazismo, o la nostra coscienza non sarà mai matura per una tale iniziativa?
Francesco Valsecchi
effeval@tin.it
Caro Valsecchi, alla fine della Seconda guerra mondiale, la Germania scelse risolutamente la democrazia e fece del suo meglio per meritare la fiducia dei Paesi contro i quali aveva combattuto sino al 1945. Ma preferì parlare del suo passato nazista il meno possibile. Il cancelliere Adenauer scelse alcuni dei suoi collaboratori fra persone che avevano servito il regime e vi fu persino l’affare del capo dei servizi di sicurezza (Otto John) che fuggì nella Germania comunista per denunciare la freddezza con cui le autorità della Repubblica federale commemoravano l’eroica congiura contro Hitler del luglio 1944. Il grande processo al passato e il mea culpa collettivo cominciarono con l’ingresso del social-democratico Willy Brandt nel governo (1966) e soprattutto con i moti studenteschi degli anni seguenti. Una nuova classe dirigente e una nuova generazione erano pronte ad affrontare un problema etico e politico che la generazione precedente aveva prudentemente accantonato.
La situazione italiana fu alquanto diversa. L’antifascismo divenne subito l’ideologia ufficiale della Repubblica e fu celebrato con una festa nazionale (il 25 aprile), commemorazioni annuali di particolari ricorrenze, monumenti, targhe, lapidi, modifiche della toponomastica, fondazione di istituti per gli studi sulla Resistenza. Ma fu subito evidente che l’Italia presentava, rispetto alla Germania, parecchie differenze. Il periodo fascista era stato più lungo e il regime non si era macchiato delle colpe imputabili al nazismo (Paolo Mieli ricordò qualche anno fa che i comunisti italiani «giustiziati» in Unione Sovietica furono più numerosi degli oppositori condannati a morte dal regime fascista). Il confino non era il lager, la guerra d’Etiopia era piaciuta agli italiani, la guerra di Spagna era piaciuta alla Chiesa e molte delle istituzioni economiche e sociali create dal regime, dall’Inps all’Iri, erano state adottate dall’Italia repubblicana. Questa contraddizione italiana è ancora più evidente quando constatiamo che alcune città impeccabilmente antifasciste vanno orgogliose delle iniziative urbanistiche, artistiche e architettoniche realizzate dal «ras» fascista che fu il loro protettore negli anni del regime: Italo Balbo a Ferrara, Roberto Farinacci a Cremona, Giuseppe Volpi a Venezia, Araldo di Crollalanza a Bari. Fu questa, caro Valsecchi, la ragione per cui il Guardasigilli Palmiro Togliatti si affrettò a promulgare una generosa amnistia e la classe politica, a dispetto della legge che lo vietava, chiuse gli occhi sulla rinascita di un partito fascista.
Sergio Romano