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 2013  maggio 22 Mercoledì calendario

JOVANOTTI – MA IO SONO SCOPERCHIATO


Non so perché, ma cominciamo parlando delle nuove tecnologie per riprodurre la realtà in 3D. «Tra dieci anni tutti saremo dentro un film. Entreremo in una stanza e l’attore sarà lì dentro con noi. Figata, eh?».
In quale film le piacerebbe entrare?
«Django? Qualunque film di Tarantino. Lui non è solo il più bravo di tutti: li sta doppiando. Oppure Lincoln. Non so, ho visto moltissimi bei film quest’anno».

Me lo vedo Lorenzo Cherubini, un tempo e ancora Jovanotti, in versione killer in un film alla Pulp Fiction. Del resto un killer lo è già: il suo ottimismo è come un virus, attacca le molecole del cinismo e le distrugge. Se gli chiedi sè è contento, ti risponde: «Più contento di quanto avrei mai creduto di poter essere». E poi: «Mi piacciono i super eroi “normali”. Quelli senza mantello». Il suo super potere è il super ottimismo, che più volte ha descritto come la sua forma di «resistenza». Spiega che sul palco di Backup Tour - Lorenzo negli Stadi 2013 arriverà vestito da rockstar, cita David Bowie e Bob Dylan, Vasco Rossi e Mick Jagger.
Racconta del suo dottore di Perugia che gli ha detto: «La salute è un continuum: il nostro corpo o si sta ammalando o sta guarendo». Trasla le regole del dentista – «il collutorio mai che uccide la flora batterica» – alla musica che ha bisogno di «germi» per nascere e svilupparsi.
Tutto si mescola e tutto ha un senso. Lorenzo non è un uomo: è un microcosmo, ci entri dentro e non ne esci più.
Parla a ruota libera di musica, cinema, libri, vita. Seduto in un bar nel Village di New York, dove si è trasferito a vivere circa un anno fa, cita i neuroni specchio («Il concetto è che se io sbadiglio, sbadigli anche tu») e i riflessi pavloviani. Riflessi di cui è stato accusato di «soffrire» dopo che su Twitter aveva scritto che gli era piaciuto Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro.
«Quando è morta la mia mamma, mia sorella mi ha detto: “Lo sai che era uno dei suoi libri preferiti?”. Così l’ho letto. È pieno di sentimento, è scritto molto bene. Come si fa a dire che è brutto? Eppure, quando mi hanno accusato di essere “pavloviano”, credo intendendo ecumenico, il problema me lo sono posto. È vero che se dico mi piace l’Odissea, poi mi viene da aggiungere: ma mi piace anche Dylan Dog. E se dico che Miles Davis è un genio, aggiungo: però anche Occhi di ragazza cantata da Gianni Morandi è una canzone pazzesca».

Del resto, è stato lei a mettere nella stessa strofa Che Guevara e Madre Teresa.
«È così. E sa che cosa mi sono detto dopo averci riflettuto su? Che chi mi dà dell’ecumenico ha ragione, ma contemporaneamente sbaglia: perché io quella roba lì la penso davvero. Quando scrissi quella strofa su Che Guevara e Madre Teresa (la canzone era Penso positivo, ndr), mi resi subito conto che poteva sembrare uno stratagemma per piacere a tutti. Ma non lo era: quella frase sono io, non come voglio essere, ma proprio come sono, e perché il mio pensiero passi devo essere onesto».
Ma qualcosa che non le piace dev’esserci per forza.
«I libri erotici. Di Cinquanta sfumature di grigio ho letto le prime quattro righe e mi sono rotto. E non mi piacciono le storie che associano cibo ed erotismo tipo Chocolat (il romanzo di Joanne Harris da cui nel 2000 fu tratto il film con Juliette Binoche e Johnny Depp, ndr). Ma non è meglio parlare di quello che ci piace, invece del contrario?».
Allora parliamo della sua energia. Sembra inesauribile.
«Ieri mi sono fermato. Mi sono detto: oggi non faccio niente, e m’è venuta l’influenza. In questa fase sono come una bicicletta: se mi fermo, cado. Questo tour qui è una cosa grossa. Se sono molto carico è anche perché mi fa paura».
In che senso?
«Non sono strafottente, non penso: vado e spacco. E neppure mi va di fare un tour negli stadi tanto per farlo. È il frutto di un percorso durato tanti anni, e voglio che venga bene. Andiamo negli stadi per rimanerci».
Andiamo? Plurale?
«Si chiama show business, no? Io faccio lo show, al resto devono pensare altri. Ma per fare in modo che ognuno dia il massimo, io devo essere il primo a farlo. E poi, è chiaro: ci sarà tutta la mia gente».
Eppure ci sarà stato un momento all’inizio della sua carriera in cui le è toccato fare il manager di se stesso.
«Per la parte economica mai. Non so contrattare. Quando si tratta di soldi, chiunque se vuole mi frega».
Quest’anno compirà 47 anni. Immagino che le persone con cui lavora siano più giovani di lei. Che impressione le fa?
«In realtà, ce ne sono di più giovani, ma anche di più vecchie. Il rock’n’roll non è più una cosa solo da ragazzi. Jimi Hendrix è morto a 27 anni, i Beatles fecero Sgt. Pepper’s che non avevano ancora trent’anni. Adesso c’è Madonna che ha l’età di mia nonna. Ma è normale, considerato che il rock è esploso negli anni Sessanta. Mio padre mica andava ai concerti, questa sera con mia figlia Teresa andiamo a sentire i Vampire Weekend».
Va spesso ai concerti con sua figlia?
«Finora è successo di rado. Ha solo 14 anni».
Si ricorda il suo primo concerto da spettatore?
«Un Giromike (spettacoli itineranti capitanati da Mike Bongiorno, ndr). Fece tappa a Cortona. C’era la Rettore che cantava Splendido splendente. Non aveva ancora avuto successo, però mi ricordo che pensai: questa è forte. Poi, sempre a Cortona, Gianni Morandi. Ma il primo concerto “volontario” fu Pino Daniele a Roma all’inizio degli anni Ottanta».
Bei tempi?
«L’Italia vinse i Mondiali di calcio. Tutti quelli che sono nati dalla metà degli anni ’60 in avanti hanno avuto la fortuna di essere adolescenti dopo la fine delle ideologie, del Sessantotto, degli anni di piombo».
La generazione di sua figlia come la vede?
«Bene. È chiaro che sono preoccupato, come tutti i genitori: sono bambini e vuoi che siano felici. Però mi sembra che le possibilità ci siano... Sto dicendo cose utili?».
Direi di sì. Ma se vuole dire qualcosa che le sembra più utile, faccia pure.
«Lo segue il Papa su Twitter?».
No.
«Lo faccia. Dice un sacco di cose utili. Qualche tempo fa, per esempio, ha scritto: “Ai ragazzi dico: sognate cose grandi”, una frase che qualcuno dovrebbe continuare a dire. Se lo fa il Papa va benissimo».
Papa Francesco le piace più di Benedetto XVI?
«Voglio bene a tutti i pontefici, ma per motivi allegramente familiari e non teologici. Sono stati i datori di lavoro del mio babbo, hanno dato da mangiare ai suoi quattro figli, e oggi gli pagano la pensione».
La tentazione di allargare la famiglia ce l’ha mai avuta?
«No, la nascita di Teresa è accaduta in modo naturale. Non è che ne avessimo parlato prima: lo facciamo, non lo facciamo. E poi, sa cosa? Io di carattere sono monogamo, anche con i figli».
Nel senso che non saprebbe dividere l’affetto?
«Farei fatica. Le famiglie numerose mi piacciono, ma non credo di essere adatto ad averne una. Anche se è vero che, alla fine, i padri fanno poco».
Sono le madri a fare quasi tutto?
«In generale. Anche se nel mio caso forse mi sminuisco, perché a Teresa, soprattutto quando era più piccola, ho dedicato tanto tempo. Ne parlavo con lei proprio ieri. Stavamo guardando un documentario su un famoso disegnatore. C’era lui a casa che disegnava con sua figlia, e Teresa mi ha detto: “Ti ricordi, quante volte lo abbiamo fatto anche noi?”».
Sua figlia le ricorda com’era lei a 14 anni?
«Assomiglia molto di più al maggiore dei miei fratelli (Umberto, morto nel 2007 in un incidente aereo, ndr). Me lo ricorda per la fantasia, la bontà. Del resto, è normale: Teresa è figlia unica, io ero il terzo di quattro».
Quindi più ribelle?
«Semmai anarchico. Umberto era quello che sentiva il peso della responsabilità. Il ribelle è spesso il secondogenito, ovvero Bernardo. Il terzo, io, è quello che svicola. È piuttosto scientifico».
Ha svicolato in che senso?
«Mi sono reso indipendente dai meccanismi della famiglia molto presto. L’ho potuto fare perché al terzo figlio i genitori smollano un po’. Mi considero fortunato. Sono cresciuto senza sentire troppo il controllo, senza pressioni e neppure aspettative. Ho fatto la mia strada senza domandare mai niente. Per non sentirmi dire di no, ho imparato a non chiedere».
Ora che sta dall’altra parte, le pesa dire di no a sua figlia?
«Tanto. Infatti, i no li dice di più la Francesca. Le viene più naturale. È brava a fare la mamma. A volte lo dico anche alla Teresa: ammazza, tua madre che brava. Io non sarei capace di dire: metti a posto la tua camera».
Lo credo. In una precedente intervista su Vanity Fair disse di essere diventato musicista per non dover mettere a posto.
«Esatto».
Ma ha spiegato anche che a spronarla è stato un senso di «carenza». Di soldi?
«Di spazio. Dormivo con i miei fratelli, la colazione la si faceva tutti insieme, a tavola per cena ci si sedeva in sei. Bello, eh, ma affollato. Mi rendo conto di come mia figlia, invece, faccia una vita completamente
diversa: è più rilassata. Mentre per noi, in sei con un solo canale televisivo, era guerra continua».
Lei è il personaggio italiano più seguito su Twitter: come si regola con sua figlia? Facebook sì o no? Il primo cellulare a che età?
«Credo di aver fatto come la maggior parte dei genitori. Teresa ha aperto il suo profilo su Facebook due anni fa per tenere i contatti con le sue amiche di Cortona, con le quali fa lunghe chiacchierate su Skype. Il cellulare a Cortona lo aveva, ma non lo usava mai, qui a New York di più perché va in giro da sola. È davvero una bambina di 14 anni».
Torniamo a lei all’età di sua figlia: com’era a scuola? Un casinista?
«Purtroppo sì. Ero sempre affamato, e ogni tanto fregavo qualche merenda. Avevo una predilezione particolare per la Girella Motta. Non voglio fare l’orfanello, ma in casa nostra merendine alla moda non ce n’erano. Mio padre aveva la tessera per comprare all’ingrosso in Vaticano, il posto dove si rifornivano i conventi».
E che merendine mangiavano i preti?
«Crostatine. Mai piaciute. Troppo secche».
Casa dov’è?
«A Cortona. Perché ci sono le mie radici, perché la mia mamma e mio fratello sono sepolti lì, e perché è il luogo d’origine della famiglia di Francesca. Ma se un giorno mi dicessero: “Adesso non ti muovi più”, di qualunque luogo parlassero, sarebbe un problema. La musica è ovunque, e io lo stesso. Ora sto a New York per un po’, ma ho vissuto in molti posti diversi: a Roma per vent’anni, a Milano, a Forlì, dove è nata mia figlia. Mia moglie dice che io non vedo dove sono. Lei è bravissima ad arredare, io, invece, non mi accorgo neppure se ha ridipinto i muri di un colore diverso».
Non è che le dia una gran sod-disfazione.
«Ma, no, è meglio così. Lei può fare quello che le pare, e io sono felice che qualcuno ci pensi. Anni fa ho vissuto per un’estate con Pier Paolo Peroni, il produttore degli 883. Lavoravamo insieme in discoteca e dividevamo una stanza: un letto di qui, un letto di là. A un certo punto, prese il nastro adesivo e tracciò una linea nel mezzo. Mi disse: “Tu, di qui, non ci puoi passare”».
Troppo casino?
«Avevo cumuli di roba. Mia mamma pensava a tutto lei, così non ho mai avuto bisogno di mettere a posto».
La prima volta che ha lavato i piatti?
«Mi sa che non l’ho mai fatto seriamente».
Insomma, prima pensava a tutto sua madre, adesso tocca a sua moglie.
«La verità è che lei è la mia casa. La Francesca è una donna col tetto. Mentre io sono scoperchiato».
Com’è entrata la musica nella sua vita?
«Grazie ai miei fratelli. Però io mi ci sono appassionato in maniera diversa. A un certo punto mi scattò una vena esibizionistica».
Che cosa intende?
«Che per prima cosa mi sono appassionato all’idea di fare il disc jockey. Mi attirava quello che la musica portava con sé. Guardavo Mister Fantasy, DeeJay Televison, mi piacevano i video, i costumi, l’aspetto televisivo, il divertimento. Se mi avessero chiesto: “Vuoi fare il cantante?”, avrei risposto di no. Ho imparato a suonare la chitarra dopo aver fatto due dischi. Le canzoni mi sembravano un pretesto per mettere in piedi un “circo”. C’è voluto tempo per capire che, invece, il cuore stava lì, proprio nelle canzoni. Ora la mia percezione si è ribaltata completamente».
Quando è sul palco, che cosa vede?
«Tutto. Mi accorgo se c’è uno che si sta divertendo, se un altro si è distratto. Ci sono due modi di fare questo mestiere: c’è chi non vede niente, il cantante con gli occhi chiusi, e poi ci sono quelli come me, il cantante - disc jockey che ha sempre la pista sotto controllo. O almeno, così vuol credere».
Che effetto le fa risentire i suoi primi dischi?
«Come quando ti rivedi in una foto del liceo. Guardi la maglietta che avevi addosso e un po’ ti fa tenerezza, un po’ provi imbarazzo. E credo che tra dieci anni proverò lo stesso per quello che sto facendo adesso. È brutto perché in un certo senso mi piacerebbe essere un classico, è bello perché mi tiene vivo. Del resto mi chiamo Jovanotti. In questo nome c’è anche un destino».
Scriva la sua mini scheda biografica.
«Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti. Ha rinnovato il linguaggio della canzone popolare italiana. Ha avuto successo anche all’estero, non allo stesso livello perché era impossibile. Le sue canzoni, in Italia, le conoscono tutti. Il che non vuol dire che piacciano a tutti. Gli vogliono bene in molti e lui ricambia».
Che cosa la spinge ad andare avanti?
«Il margine di crescita. So che c’è. Mi piacerebbe diventare più bravo a scrivere, imparare a farlo in inglese, comporre il libretto di un’opera. Anche la mia storia con Francesca è un grande work in progress che mi incuriosisce e rende la vita intensa».