Imma Vitelli, Vanity Fair 22/5/2013, 22 maggio 2013
VOI ITALIANI CI AVETE LASCIATO UNA COSA: LA GUERRA
Il villaggio di Chinolak è appollaiato su una piccola altura, degradante in dolci colline coltivate a grano e meloni, nel Nord della valle del fiume Murghab. La vita è biblica nella sua semplicità: i grandi lavorano nei campi, i bambini pascolano gli animali. Lo spazio è misurato dal tempo che impiega un uomo, o un somaro, ad arrivare a destinazione; il tempo è scandito dall’arco del sole. Non c’è luce, non c’è acqua, non c’è scuola a Chinolak, soltanto la mezzaluna di una moschea senza nome, e una cinquantina di case storte e basse, come tante, in Afghanistan.
Del governo nessuno aveva mai sentito parlare, e del progresso nemmeno, ma quando si manifestarono per la prima volta i kharijian – gli stranieri – dalla terra e dal cielo, si lasciarono dietro odio e macerie.
Il massacro, finora segreto, nascosto, occultato, avvenne alle due del pomeriggio di venerdì 4 febbraio 2011. A quell’ora Mohamed Jan, il patriarca, pregava il dhuhr, la terza preghiera islamica della giornata, il volto rivolto a Ovest, verso la Mecca.
Sarebbe stata la sua ultima preghiera.
La sua dimora era al limite esterno del villaggio, dalla finestra si vedevano i campi e, in lontananza, un noto santuario, Chinolak Ba Ba.
Mentre era lì, a chieder clemenza a Dio, fuori ci fu un’imboscata; partì un’orchestra di fuoco; i bianchi avevano saputo che i talebani il venerdì scendevano in moschea, e avevano teso loro una trappola. Ma questo Mohamed Jan non lo seppe mai. Con lui, nella stanza, c’erano sua figlia Fatima, di sei mesi, e suo nipote, Mohamed Iwaz, di un anno e mezzo.
Il primo missile li uccise sul colpo. Con loro c’era anche un’altra figlia, la piccola Zeinab. Aveva sei anni. Quando tutto tremò corse via, ma una scheggia la raggiunse in corridoio e la decapitò.
La seconda bomba centrò la stanza vicina qualche secondo dopo, e non ci fu nessuno scampo per la moglie del patriarca, Bibi Hura, di 50 anni, per il figlio Gul Gul, di 12, e per le due nuore Spinaka e Mahbuba, entrambe giovani donne di 25.
«Ho perso quasi tutti», mi dice Adam Khan, figlio di Mohamed Jan e Bibi Hura, marito di Spinaka, padre di Mohamed Iwaz.
Ancora in vita, ma feriti, c’erano i suoi tre fratellini di due, sei e nove anni. I vicini li caricarono sugli asinelli, e li portarono al primo e unico posto che gli venne in mente, la base degli italiani nel centro di Bala Murghab.
Impiegarono cinque ore. Il piccolo Qasim arrivò svenuto, la gamba, l’inguine e la testa coperti di terra e sangue. Rukia e Hajira avevano i volti sfigurati.
«Gli stranieri li misero su un elicottero e li mandarono al loro ospedale, a Herat», ricorda Adam Khan.
Lì furono presi in cura a Camp Arena Role II, la clinica gestita dal contingente spagnolo. Un medico americano diagnosticò una menzogna – scrisse che i bambini avevano «ferite da IED», le mine rudimentali usate dai talebani – e li trasferì all’ospedale pubblico provinciale.
Adam Khan è un giovane uomo, scuro, con gli occhi dolci e il turbante bianco. Ha portato i documenti, le prove. È grazie a lui che posso descrivere, nel dettaglio, i meccanismi perversi di questa guerra; grazie a lui che, per la prima volta, lo Stato Maggiore della Difesa ha dovuto ammettere una strage in una valle remota, sotto il suo diretto controllo.
Dal giorno dell’invasione, il 7 ottobre 2001, sono morti almeno 300 mila civili, di cui raramente la Nato si è preoccupata. I «danni collaterali» hanno sempre fatto parte del gioco, un gioco a perdere, poiché è evidente che il modo migliore per perdere una guerra è inimicarsi il popolo. E ora che è quasi finita, vale la pena tirare le somme, capire che cosa è stato.
Gli italiani arrivarono a Kabul nel 2002, in «missione di pace» assieme a una quarantina di Paesi della Nato. A queste variopinte armate diedero il nome di Isaf (International Security Assistance Force). Gli americani suddivisero il Paese in settori; agli italiani fu affidato l’Ovest, un’area enorme, un quarto dell’Afghanistan. Sbarcarono dalle pance degli aerei da trasporto e misero su bottega in un campo piatto e brullo all’aeroporto di Herat: Camp Arena. Sorsero centinaia di avamposti e fortini e punti di osservazione, in zone sperdute, in quattro provincie.
Ma i conti non tornavano. Anno dopo anno, giovani valorosi partivano, lasciandosi dietro famiglie fiere, e in ansia; partivano in buona fede, convinti di portare pace e sollievo a un popolo ostaggio dei «terroristi». In 53 sono rientrati dentro le bare, il numero più alto di caduti dalla seconda guerra mondiale. Dal 1° gennaio 2002 al 1° gennaio 2013, sono stati spesi 4.762.169.699 euro e da questi dati, ottenuti studiando i decreti di finanziamento della missione, mancano le diarie degli ufficiali (fino a 180 euro al giorno).
Per che cosa?
La transizione è quasi ultimata; nel 2014 l’Isaf va a casa. Nel settore italiano, 31 dei 43 distretti sono stati ceduti alle forze di sicurezza locali, negli ultimi 12 il passaggio delle consegne avverrà a settembre.
Ma che cosa è stato?
Che cosa resterà, di noi, in Afghanistan?
Adam Khan siede per terra a gambe incrociate e apre una cartellina gialla. Non sa leggere e scrivere (l’analfabetismo qui è al 75%) e dunque non sa bene quel che ci ha portato. Ma ha la fortuna
di conoscere un leader tribale istruito: è stato lui a occuparsi della pratica.
Nelle carte di Adam Khan c’è la sentenza del tribunale, con le foto dei testimoni, ci sono i certificati dell’ospedale militare di Herat, c’è un decreto del presidente Hamid Karzai. In esso si dice che a Chinolak «le Forze Isaf hanno reso martiri in un bombardamento otto civili innocenti e ferito tre bambini».
Ai superstiti, il governo riconosce un indennizzo di 100 mila rupie a vittima (1.850 euro circa), e 50 mila rupie (925 euro) a ferito. Nero su bianco, su un documento ufficiale, leggo quanto valutano gli Alleati una vita umana, una vita afghana.
«Sono stati gli italiani», dice Adam Khan.
«Sono stati gli italiani», gli fa eco l’Anziano, un leader tribale di Bala Murghab, un signore grande e grosso di nome Hafizullah.
«Sono state le forze Isaf, chi bene non si sa», dice il colonnello Mohamed Zai Shirzai, comandante dell’Ana – l’esercito afghano – nella provincia di Badghis. «A Bala Murghab, però, il comando era degli italiani».
In principio, il portavoce dello Stato Maggiore della difesa, Massimo Fogari, nega tutto.
Questo è lo stesso uomo che prima della mia partenza mi aveva detto «missione compiuta», «la popolazione ci ama», «abbiamo portato pace e progresso».
Oggi mantiene la linea. «Dai nostri rapporti, il 4 febbraio 2011, non risulta niente».
Il generale è un cinquantenne sanguigno, sciolto, un combattente, un alpino. Insisto. Come sono morte queste persone? «Non lo so. Ammesso e non concesso che sia morta questa gente, bisogna vedere chi sono. Magari stavano fabbricando in casa IED».
Ho le prove, dico, tre rapporti ufficiali. Cambia tono. «Era un periodo turbolento. Nelle postazioni c’erano non solo italiani, ma anche afghani e americani. Potrebbero aver chiesto loro l’intervento, ma questo a noi non risulta. Sui rapportini leggo nero su bianco che non abbiamo causato morti civili né danni collaterali. Spesso se c’è un’operazione speciale Isaf, e quindi degli americani, ci viene semplicemente detto non uscite dalla base, non andate in quella zona».
Insisto: Chinolak è un villaggio remoto, nel Nord della valle, presidiata dagli italiani. «D’accordo, però, se arriva l’ordine che dalle ore x di oggi alle ore x di domani tu non devi mettere il naso fuori perché c’è un’attività in corso, il comandante non sa ciò che accade oltre la sua trincea. Succede ovunque, per qualsiasi tipo di operazione speciale».
Ma la responsabilità è di chi ha il comando della zona. «Questa è la parte negativa della storia. Mi dia tempo. Ci possiamo sentire domani?».
Non ci fu niente che andò per il verso giusto, a Bala Murghab. Nella valle, la maggioranza era di etnia pashtun, la stessa che a Sud e a Est animava la rivolta; rivolta che lì non c’era, poiché fino ad allora non c’erano kharijan. I problemi erano altri: siccità, povertà.
Il colonnello americano John Bessler fu tra i primi ad arrivare, assieme al contingente italiano. Era l’agosto del 2008. In un lungo saggio (La tragedia di Bala Murghab) descrive un luogo placido, fuori dal tempo, a quattro giorni di macchina da Kabul. Le intenzioni dei militari erano buone: la costruzione della famosa Ring Road, una strada moderna, asfaltata, che avrebbe aperto il Nordovest ai commerci ed esteso il controllo del governo.
Ma fu fatto in modo sbagliato. Nessuno aveva informato i locali. Al primo incontro degli ufficiali Isaf con i leader tribali, questi dissero: «Nessuno ci aveva avvisati che sarebbero tornati i russi».
Gli Anziani non volevano le nostre strade. Chiedevano la moschea. I bianchi non ascoltarono. Costruirono, di fretta, un ponte provvisorio, che avrebbe dovuto deviare il traffico e consentire i lavori per la Ring Road. Crollò, poco dopo, per la neve.
I bianchi occuparono un vecchio cotonificio di fango, nella zona del bazar, e ne
fecero una base. Columbus, la chiamarono. Ma non avevano consultato il catasto e piovvero richieste di risarcimento per la terra usurpata. C’erano, ormai, più di 450 italiani. C’erano anche polizia e militari afghani e i Rambo americani delle Forze speciali. Sulle morbide colline spuntarono blindati e filo spinato e uomini in uniforme kaki.
Gli italiani si dispiegarono soprattutto a Nord, in avamposti remoti chiamati Victor, Mono, Croma, Cavour. Gran parte dei Rambo andarono a Sud a popolare picchi sparuti, cui diedero nomi aggressivi: Diablo, Vigilantes, Stingray. Su un’altura che chiamarono Barracuda, Rambo e italiani operavano assieme.
«La nostra vita diventò un inferno», mi dice Mohamed Qasim, 32 anni, agricoltore a Bala Murghab. Tra febbraio e maggio 2011, in previsione del ritiro, ci furono rastrellamenti, retate, un furibondo movimento di truppe ufficialmente sotto il controllo di Roma. Il 20 maggio, l’allora generale americano David Petraeus, comandante supremo di Isaf, visitò la zona e fece i complimenti agli italiani per aver allargato di venti chilometri, verso Nord, oltre Miranzai, oltre Chinolak, «la bolla di sicurezza», l’area sotto il controllo degli Alleati.
«Sono morte centinaia di persone», mi dice Abdul Majid Hotak, il vice sindaco di Bala Murghab. «Ma nessuno ha mai raccontato le loro storie».
Sono storie di ordinaria violenza, in Afghanistan. A fare la differenza è il nostro coinvolgimento.
Gli italiani, dice Mohamed Qasim, sbucarono all’improvviso, su un’altura tra i villaggi di Miranzai e Sagzi, con i loro veicoli scintillanti, con le loro armi pesanti. In italiano quel piccolo campo, a ridosso di Miranzai, si chiamava Mono. Fatima era la zia di Mohamed Qasim. Era una vedova di quarant’anni, che aveva reagito alla morte del marito imparando a cucire burqa. Viveva con i cinque figli, dai 3 ai 10 anni, nessuno dei quali andava a scuola, ma lì era la norma. Un giorno, era l’alba, percorse come di consueto la mulattiera da Sagzi a Miranzai.
Era il suo territorio. Altro non conosceva. Erano venti minuti a piedi, lungo un basso muretto di fango, che serviva a tenere a bada gli animali. La novità del paesaggio era che, a meno di cento metri, c’erano gli italiani. Tutti sapevano che erano italiani, poiché al loro arrivo si erano presentati agli Anziani. Parlavano una lingua strana. Il nipote, Mohamed Qasim, pensava che l’Italia fosse una provincia dell’America.
Fatima non si rese conto di niente. Era sorda. Non si accorse che i guerriglieri avevano aperto il fuoco sui kharijian, e neppure che questi avevano risposto. Avvolta in uno scialle nero, ignara del frastuono, si ritrovò il petto attraversato da tre proiettili. Barcollò per qualche metro. La trovarono, esanime, dall’altra parte del muro di fango, dal lato opposto della collina con le torrette. Lo scialle nero era rimasto per terra, là dove era stata colpita, assieme alle pallottole.
Gli Anziani andarono dagli italiani, che promisero di riportare la sicurezza. Offrirono anche un indennizzo. Il vecchio Gul Khan Namainda riferì il messaggio a Mohamed Qasim, il nipote, che declinò l’offerta. «I talebani avrebbero pensato che ero una spia».
Il comandante dell’Ana, Mohamed Zai Shirzai, se la ricorda, la storia di Fatima. «Posso dire senza alcun dubbio che lei fu uccisa dagli italiani».
Il giorno dopo mi richiama il portavoce di Smd, il generale Fogari. «È vera, la storia del 4 febbraio», dice. «Il nostro comandante era stato informato di un’operazione a Chinolak. Premetto però che il battlefield owner, cioè colui che è a capo del territorio, viene messo a conoscenza di ciò che accade, ma non ne è responsabile qualora l’operazione venga condotta da altre forze. C’è stato un combattimento, tre bambini feriti sono stati portati alla base di Bala Murghab, ma non da noi».
E quindi chi è stato?
«Eh, non gli italiani. Quando si tratta di Paesi esteri, adesso io, sinceramente…».
Ieri lei mi ha parlato delle Forze Speciali americane.
«Perché, abbiamo parlato ieri?».
A lungo.
«Erano americani. Erano americani».
Gli italiani sapevano?
«Eh, l’hanno saputo della morte di queste otto persone i cui corpi, però, stando ai rapporti, non sono mai stati fatti vedere».
Il generale non sa, forse, che i cadaveri, nei Paesi islamici, si seppelliscono in fretta: è la tradizione.
Adam Khan, il testimone, l’uomo che a Chinolak ha perso tutti, ora vive in un villaggio remoto nella provincia di Herat; da Bala Murghab è dovuto fuggire. I talebani hanno saputo dell’indennizzo, dei 1.850 euro a morto, e lo hanno minacciato. Fa l’operaio e si occupa dei fratellini sopravvissuti a quella tremenda giornata.
Gli italiani si sono ritirati da Bala Murghab lo scorso settembre, senza lasciarsi dietro neppure un metro di strada asfaltata.
«Nei villaggi abbiamo fatto festa», dice Mohamed Qasim, il nipote della signora sorda, Fatima. «Abbiamo ringraziato Allah, e pregato il doppio. C’è stato chi, dalla gioia, ha perfino ammazzato una pecora. Non ci sono più elicotteri in cielo né mine sui sentieri. Adesso comandano i talebani, e va bene».
In questi otto mesi la «bolla di sicurezza»
è diventata una goccia di pioggia su una foglia. Le forze afghane controllano solo il bazar, due chilometri quadrati. «Su 324 villaggi, meno di 24 sono dalla parte del governo», dice l’Anziano Hafizullah. Il resto è, ormai, territorio dell’opposizione.
Quasi tutti i rappresentati del governo vivono in esilio a Qala i Naw, il capoluogo di provincia, per ragioni di sicurezza. Il precedente sindaco, Mohamed Asham Habibi, è morto in un attentato 26 giorni dopo aver ricevuto l’incarico. Karzai, il presidente, ha nominato come successore il fratello, Asham Habibi, che vive a Kabul e non si fa vivo nei villaggi che dovrebbe, in teoria, governare.
Nel vecchia base Columbus, al posto dei kharijian, ora ci sono le truppe locali. L’esercito ha lì 700 uomini; dovrebbero anche esserci 260 poliziotti, ma al ritiro dell’Isaf in 150 sono passati al nemico. Non è chiaro per quanto tempo saranno in grado di resistere. Senza l’onnipotenza dell’aviazione occidentale, la battaglia è ad armi pari: afghani contro afghani, kalashnikov contro kalashnikov.
Il colonnello Zai Shirzai si chiede perché, dopo dieci anni e tutti questi morti, i kharijian se ne stiano andando senza lasciargli armi pesanti, almeno l’artiglieria, con cui difendersi. È un sessantenne tondo, coi baffi, sopraffatto dalla pena. «Il mio cuore scoppia di dolore», dice. Mi fa l’effetto di un naufrago su un vasto oceano nero. Sa che cosa l’aspetta, e si dispera.
«A Bala Murghab neppure una pietra porta il nome degli italiani. Sa qual è l’eredità dell’Isaf? Un Paese distrutto, instabile, in guerra. Ci hanno portato la guerra e ci lasciano la guerra». Piange ora, non fa nulla per nasconderlo.
«Sappiamo che cosa significa restituire i nostri ragazzi morti ai loro genitori. Sono i nostri figli che seppelliamo. Che senso ha? Che senso ha avuto? Tutti contiamo i secondi che ci separano dalla morte. Tutti: i poliziotti, i soldati, i pastori, i contadini, i mercanti».
Da tanto tempo ormai, in Afghanistan, solo chi muore vede la fine della guerra.