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 2013  maggio 22 Mercoledì calendario

PECHINO, LA NUOVA FRONTIERA


[vedi appunti]

1. PER I PAPI I NOMI SONO DICHIARAZIONI programmatiche e dunque non è un caso che il nuovo pontefice massimo della Chiesa cattolica abbia scelto di chiamarsi Francesco, come il santo di Assisi, ma anche come il grande gesuita Francesco Saverio, artefice delle missioni in Asia e Cina nel XVI secolo. Questo pone la continuità del papato di Ratzinger in un’altra luce: la battaglia filosofico-religiosa combattuta da Benedetto XVI contro il relativismo definiva anche i termini cultural-geopolitici della sua missione. Il problema del relativismo infatti è una questione essenziale nell’orizzonte culturale di chi pensa secondo una tradizione impregnata di letteratura greco-latina, tormentata da secoli dal dilemma fede-ragione, essere-verità.
Ma il grosso della comunità dei fedeli (e non) non comprende tali termini, pertanto la Chiesa deve compiere equilibrismi verbali per tradurre il suo vocabolario, specialmente ai suoi interlocutori non occidentali. Col risultato che i relativi concetti spesso perdono il profondo sostrato cultural-sentimentale che hanno in Occidente e rischiano di non toccare l’anima e la vita dei milioni di fedeli effettivi e potenziali che abitano le nuove frontiere del cattolicesimo. Eppure è proprio la battaglia contro il relativismo che ha rimesso al centro della vita ecclesiastica la questione dell’unità e della verità, tra i mille problemi che tormentano il mondo e il cattolicesimo. Dove e come si può trovare l’unità, in un pianeta diviso tanto fuori quanto dentro il mondo dei fedeli?
Forse è proprio per questo che Ratzinger, nel suo ultimo concistoro del 24 novembre scorso, ha scelto di nominare sei cardinali teologi di aree per lo più di confine, dal Libano alla Nigeria, dall’India alle Filippine, dall’America Latina agli Stati Uniti. Nessuno dall’Europa, patria di quelle idee relativiste che sembrano dare a tutto la dignità di vero, facendo dipendere la verità dal contesto. Quel relativismo rinuncia allo sforzo di comprensione e integrazione reciproca, quindi in nome di una specie di falsa tolleranza innalza barricate culturali sentimentali, abbandonando la ricerca di un’unità nella vita che è consustanziale con la fede cattolica. In tutte le aree di provenienza di questi nuovi cardinali la Chiesa è tormentata, ma le chiese sono piene. In Europa, invece, i tormenti sono minori, ma le chiese sono vuote. Quindi, al di là delle difficoltà del momento, se c’è una frontiera per il futuro della Chiesa quella è l’Asia: una regione che ospita il 60% della popolazione mondiale e che sempre di più si presenta come il futuro economico, politico e culturale del pianeta.
Per le aziende è chiaro da oltre un decennio: non avere una forte presenza in Asia significa non avere un futuro. La Chiesa non è un’azienda, ma la sua debolezza attuale nel continente è un’ipoteca sul suo futuro. In questo secolo il cattolicesimo sarà la religione dell’Europa e delle sue ex colonie americane, una specie di marchio culturale di identità di quella parte di mondo, o diventerà un messaggio davvero globale? Questo dipenderà in gran parte da cosa il Vaticano farà in Asia.
La sfida è di quelle da far tremare i polsi. L’unico paese saldamente a maggioranza cattolica sono le Filippine, dove l’evangelizzazione è arrivata nel XVI secolo insieme al dominio spagnolo. In Vietnam, dove i colonialisti francesi del XIX secolo fecero entrare i loro preti, le conversioni non sono state di massa, forse a causa della forte opposizione dei buddhisti locali. Comunque lì i cattolici sono circa il 10%, tre volte la media complessiva di tutta l’Asia. Solo in Corea del Sud sono altrettanto numerosi. Penetrare nel continente asiatico implica dunque per la Santa Sede pensare strategie nuove, che non possono passare per l’appoggio strumentale di governi occidentali interessati a diffondere il cattolicesimo per altri fini. Anzi, la Chiesa deve distanziarsi da quella tradizione e dal marchio di «religione occidentale». Si tratta quasi di un cambio d’identità culturale, che richiede un impegno teologico importante, visto come la Chiesa è impregnata di concetti ispirati alla tradizione ellenistica.
Un secondo aspetto pratico è come procedere con l’evangelizzazione in presenza di una forte opposizione locale, di natura culturale, religiosa e politica. L’Asia, infatti, non è l’Africa, che pur presentando numerose difficoltà locali, è sostanzialmente priva di religioni con forti apparati di difesa. In Asia le culture sono molto strutturate, le religioni dominanti: il buddhismo nelle sue varie forme, l’induismo e l’islam sono culti potenti e organizzati, che non accolgono a braccia aperte l’arrivo di nuova concorrenza.

2. Su questa situazione generale si inseriscono questioni particolari, di natura politica e sociale. I primi problemi sorgono nel subcontinente indiano, diviso in quattro paesi (Pakistan, India, Sri Lanka e Bangladesh), con circa 1,5 miliardi di persone. Qui una religione locale, il buddhismo, è quasi sparita salvo che in alcune sacche dell’India e dello Sri Lanka, mentre una religione straniera, l’islam, ha spaccato il territorio in due, ritagliando zone a maggioranza musulmana (Pakistan, Bangladesh) in un’area a maggioranza induista. In entrambi i tronconi la religione è diventata una questione profondamente identitaria e sia induisti che musulmani sono molto ostili alla diffusione del cristianesimo nelle sue varie forme. Il cattolicesimo qui si muove con estrema difficoltà: vi sono stati i casi di missionari, preti e suore, torturati e uccisi nello Stato indiano dell’Orissa da induisti locali e l’antica Chiesa cattolica indiana, sorta tra il I e il II secolo d.C., incontra enormi ostacoli nell’opera di evangelizzazione. Anche perché questa è spesso svolta presso i gruppi tribali, ultimo gradino della scala castale (formale) in India e (informale) in Pakistan e Bangladesh.
Eppure il cattolicesimo indiano è estremamente vivace. La percentuale di cattolici in India è tra il 2% e il 4% della popolazione, il che in termini assoluti equivale ad oltre 40 milioni di persone. Dal continente vengono ben cinque cardinali che hanno votato nel conclave. Tra loro c’è il più giovane del consesso, Isaac Cleemis Thottunkal, nato il 15 giugno del 1959, di rito siro-malankarese, già noto come eminente teologo. Ma anche l’ex prefetto di Propaganda fide, Ivan Dias, nonché Telesforo Toppo, che siede nel nuovo consiglio dello Ior. Il peso dell’India nella Chiesa è quindi destinato a crescere, anche per l’originalità della nuova teologia indiana. Tuttavia, il peso della Chiesa in India è destinato a rimanere limitato, almeno fin quando il subcontinente albergherà profondi conflitti identitari. La lotta secolare tra induismo e islam ha schiacciato il buddhismo ed è quindi una specie di miracolo che i cattolici siano sopravvissuti e anzi crescano, anche se di poco. In questo contesto, exploit significativi appaiono estremamente improbabili, come rileva anche Chiaretto Yan nel suo recente Cina oggi.
Il cattolicesimo è in un ridotto identitario anche in Indonesia e Malaysia, due paesi che insieme assommano oltre 250 milioni di abitanti. Qui è cattolica la popolazione della piccola Timor Est e i cristiani sono, tra la minoranza cinese dell’arcipelago, non più del 5%, essendo musulmana la maggioranza. L’ormai anziano gesuita Julius Riyadi Darmaatmadja è appunto di origine cinese. I cattolici sono dunque sparsi ed estremamente minoritari.

3. La vera sfida è la Cina, dove la percentuale dei cattolici si è ridotta rispetto al periodo antecedente il 1949, anno dell’avvento dei comunisti. Allora i cattolici erano l’1% della popolazione, lo stesso numero dei protestanti. Oggi, estremamente divisi al loro interno, sono scesi sotto 1’1% mentre nell’ultimo decennio i protestanti sono aumentati sensibilmente e oggi rappresentano circa il 10% della popolazione. Queste cifre indicano quanto forte sia oggi la domanda di religione in Cina, che il buddhismo tradizionale non riesce a intercettare, al pari del cattolicesimo. Qui sinora la battaglia di Roma si è concentrata sul faticoso tentativo di riconciliare le varie fazioni cattoliche, mentre poca attenzione è stata prestata all’opera di evangelizzazione. A quale dei due compiti dare la priorità? Questo è uno dei grandi interrogativi sul tavolo del nuovo pontefice.
Se fosse una questione economica, la risposta sarebbe semplice: occorre puntare sull’espansione, altrimenti si rischia di sparire. Ma dato che qui si parla di anime, non si possono sacrificare gli antichi fedeli per cercare nuovi proseliti. Forse però Roma potrebbe imparare dalla Cina di Deng, che decise di soprassedere sulla soluzione di Taiwan e di riallacciare i rapporti diplomatici con gli Stati Uniti. Il risultato è stato ottimo: oltre trent’anni dopo, i rapporti Usa-Cina sono cresciuti oltre ogni aspettativa e quelli con Taiwan non sono mai stati migliori.
La questione cinese assume un peso geostrategico particolare alla luce della situazione della Chiesa nel mondo, almeno per come appare da Pechino. In Cina, il soft power della Chiesa è infatti oggetto di particolare attenzione. Il cattolicesimo è la più grande religione unitaria del mondo e quella con l’apparato spirituale di gran lunga più influente. Inoltre, il Vaticano può contare su milioni di volontari, centinaia di migliaia di preti, diaconi e funzionari di varia natura, migliaia di vescovi sparsi in ogni angolo del pianeta. Infine, il papa esercita una certa influenza su centinaia di milioni di protestanti e su un numero minore, ma pur sempre cospicuo, di ortodossi.
Pechino sa che la Chiesa è conscia del proprio potere e si rende anche conto che, con l’elezione di Francesco, essa ha preso atto del fatto che tale potere presenta segni profondi di crisi. Il primo problema, che pone una seria ipoteca sul nuovo papato, è quello delle molestie sessuali. La questione è morale, quindi investe la credibilità complessiva dell’opera di evangelizzazione. Ma è anche questione di denaro: la Chiesa americana, che più di altre è stata investita dalle accuse, ha fornito sinora oltre il 40% alle finanze vaticane, pur rappresentando appena il 5% dei cattolici. L’amministrazione Obama ha in passato minacciato di cancellare la prescrizione per gli abusi contestati: in tal caso, presunte vittime di venti o trent’anni fa potrebbero citare tutte le diocesi americane, obbligandole a sborsare indennizzi tali da far fallire la Chiesa cattolica statunitense. Il che, a sua volta, paleserebbe il rischio di bancarotta per la Chiesa di Roma.
Per sfuggire a questo rischio la Chiesa deve dunque sviluppare «mercati alternativi»: America Latina, Africa e soprattutto Asia.
Tutto ci riporta all’Asia: per una Chiesa sotto assedio da più parti, questo immenso e popoloso continente può fare la differenza tra rilancio e declino. In particolare, l’unico reale spazio di crescita è in Cina, dove al di là dei proclami ufficiali vige di fatto più libertà religiosa che altrove, dove il locale buddhismo è molto debole e vi è forte richiesta di nuove religioni. La Cina è la seconda economia del mondo e le parrocchie locali non hanno subito (almeno sinora) accuse di molestie sessuali. Pechino ha inoltre bisogno di comprendere il mondo e di essere compresa e in questo Roma potrebbe giocare un ruolo prezioso. Se un tempo la Chiesa si difendeva a Lepanto, oggi la battaglia è a Pechino.