Sergio Rubin, Limes: L’atlante di Papa Francesco, Gruppo Editoriale L’Espresso, n. 3, 2013, 22 maggio 2013
RITRATTO DEL BERGOGLIO CHE CONOSCO
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[Conversazione con Sergio RUBIN, giornalista del Clarín e coautore del libro intervista El Jesuita]
LIMES Chi è Jorge Mario Bergoglio?
RUBIN È quel che appare. Lo conosco dal 1992, da quando fu nominato vescovo; ho assistito alla sua ascesa nella gerarchia ecclesiastica e in tutto questo tempo è rimasto una persona semplice, dai modi schietti. Quando, al termine della sua prima udienza alla stampa da papa, l’ho salutato, ho ritrovato il Bergoglio di sempre: un abbraccio, qualche parola calma e misurata, lo sguardo penetrante, negli occhi una leggera nota di sarcasmo. Gli piace il contatto con la gente, ne ha bisogno. Era così anche a Buenos Aires: si spostava in metro, parlava in continuazione con tutti e viveva in una residenza estranea al lusso che ti aspetteresti dal prelato più importante d’Argentina. Però i modi umili, la socievolezza e il trasporto spirituale non devono ingannare: c’è anche un Bergoglio politico, che ha attitudine al comando e non esita a esercitarlo in modo fermo, come ha dimostrato da presidente dell’episcopato argentino.
LIMES Il "papa del dialogo", insomma, è tale solo tra la gente, fuori dalle stanze dei bottoni?
RUBIN No. Anche nell’esercizio del potere Bergoglio predilige il confronto e la partecipazione. Direi che il tratto caratterizzante del suo stile di governo è la libertà: ne ha sempre lasciata molta, non solo ai prelati, ma anche ai laici, il cui apporto considera fondamentale. Gli ho sentito spesso ripetere: «Preferisco che la gente chieda scusa e non permesso.» Come dire: meglio un errore commesso in libertà – e in buona fede – che impedire alla gente di esprimere il proprio talento e di metterlo al servizio della Chiesa. Il fatto che non sia un dirigista, però, non implica che rinunci a dirigere. Al contrario: ha il piglio del leader e se gli si dà il potere, lo usa, com’è logico che sia.
LIMES C’è un ambito in cui il Bergoglio «politico» ha dato prova di particolare fermezza?
RUBIN Il burrascoso rapporto con i Kirchner. Quello che l’allora cardinale ha sempre criticato della coppia presidenziale – specialmente di Néstor – è l’autoritarismo, la mancanza di dialogo e di ricerca del consenso, la costante inclinazione allo scontro. Li ha criticati a modo suo, senza fare nomi e cognomi, come suole fare la Chiesa. Eppure, è stata una critica implacabile: ancora lo scorso dicembre, un documento dell’episcopato argentino avvertiva del rischio che il paese si dividesse in due fazioni inconciliabili – sottinteso: pro e anti-Kirchner. È stata inoltre una critica tempestiva: Néstor è diventato presidente il 25 maggio 2003 ed esattamente un anno dopo, il 25 maggio 2004, in occasione del Te Deum officiato nella cattedrale di Buenos Aires, Bergoglio mise in guardia contro i rischi dell’autoritarismo. I Kirchner sedevano in prima fila e l’allora presidente si sentì attaccato a tal punto da non presenziare più ad alcuna funzione officiata da Bergoglio. Anzi, fino alla sua morte, nel 2007, i due non si parlarono più. Questa frattura si è parzialmente ricomposta con Cristina, che appare intenzionata a recuperare il rapporto, specialmente ora che Bergoglio è papa. Eppure, le prime reazioni del governo alla sua elezione non sono state positive: svariati esponenti dell’esecutivo lo hanno criticato. Che sia un riflesso condizionato o una scelta meditata, lo vedremo col tempo.
LIMES Le origini italiane esercitano un’influenza sul modo di essere di questo papa?
RUBIN Sì, soprattutto nelle relazioni interpersonali. Ho accennato ai due volti del Bergoglio pubblico, quello pastorale e quello istituzionale: più empatico il primo, più fermo il secondo, entrambi dialoganti. Nel privato emerge invece un lato più affettuoso: la premura, l’informarsi sulle condizioni di salute dei tuoi cari, il trasporto per gli amici. Tutto ciò gli conferisce un calore particolare, in cui ritrovo dei tratti molto italiani.
LIMES E la sua formazione gesuitica?
RUBIN Bergoglio si è sempre detto contento di essere un gesuita. Innanzitutto per la preparazione spirituale e culturale, che l’ha aiutato a formarsi una visione globale del mondo e del ruolo della Chiesa in esso. Una visione che si ritrova nei suoi scritti sulla globalizzazione e sulle sfide da questa poste alla Chiesa, quando finii di scrivere con la mia collega Francesca Ambrogetti il libro intervista, mi rimase la sensazione di aver parlato con una persona che pensa alla Chiesa nei prossimi cinquant’anni. In secondo luogo, Bergoglio considera i gesuiti un’avanguardia in seno alla Chiesa ed è fiero di farne parte. Ancora, l’austerità – mai abbandonata, anzi sovente ostentata come segno di moderazione – è una palese eredità gesuitica. Del gesuita, infine, Bergoglio ha una certa enigmaticità, accentuata da una spiccata tendenza alla discrezione, al basso profilo. Quando, nei primi anni Novanta, da vescovo ausiliario assisteva alle lezioni dell’allora arcivescovo di Buenos Aires Antonio Quarracino, arrivava sempre a discorso appena iniziato e si sedeva puntualmente in ultima fila. Tanto che Quarracino aveva preso gusto a sottolinearlo, con frasi del tipo: «Non vedo Bergoglio, ma so che c’è: è seduto là in fondo!»
LIMES Dunque il bagaglio culturale di questo papa non lo porta a farsi illusioni circa il compito che lo attende.
RUBIN Bergoglio ha un’acuta coscienza degli enormi limiti che la Chiesa sconta nel mondo attuale. Secondo una recente inchiesta, il 76% degli argentini si definisce cattolico. Eppure, Bergoglio insiste sul fatto che in Argentina la Chiesa cattolica è in minoranza. Questa non sta tanto nei numeri, quanto nei fatti: la declinante influenza intellettuale, lo scarso peso nel dibattito pubblico, l’avversione della cultura dominante. Parlo del laicismo e del secolarismo, che sono tratti sì occidentali, ancorché preminentemente europei. Ma anche delle teologie della liberazione, che sono un fenomeno prettamente latinoamericano. E delle Chiese pentecostali, anch’esse assai diffuse in Sudamerica. Fin qui, tuttavia, niente di nuovo. Queste considerazioni sono probabilmente condivise dal 99% dei preti e delle suore.
LIMES Dov’è, allora, la novità rappresentata da papa Francesco?
RUBIN Nello strumento con cui, se lo conosco bene, intende affrontare queste sfide. Nessun segreto, l’abbiamo già sotto gli occhi: è la socialità, la comunicazione, il dialogo, anche interreligioso e interculturale. Per formazione, carattere e vicenda biografica, Bergoglio ha compreso che una Chiesa dogmatica, che ai dubbi e alla disaffezione dei fedeli oppone una dottrina rigida e unilaterale, è votata all’autismo. Il punto è che tale convinzione Bergoglio non l’ha maturata attraverso la riflessione teologica, ma grazie al tratto che forse più lo distingue dal grosso delle gerarchie cattoliche: il senso comune.
LIMES Un tratto innato, o il frutto dell’assiduità con la gente?
RUBIN Credo vi sia una predisposizione caratteriale, ma il contatto con le persone svolge un ruolo cruciale. Per lui non è solo un’esigenza umana, è anche un prezioso strumento di governo, perché gli consente di mantenere aperto un canale con il mondo reale, quello in cui vivono i fedeli cui la Chiesa si rivolge. I simboli contano e questa impostazione la ritroviamo nel motto scelto da Bergoglio per il suo papato: Miserando atque eligendo. È un motto tratto dalle omelie di san Beda il Venerabile, che, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo, scrive: «Vide Gesù un pubblicano e siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: seguimi». Si tratta di un richiamo alla vocazione sperimentata dallo stesso Bergoglio nel 1953, all’età di 17 anni. Ma è anche un’istigazione alla Chiesa, affinché si sforzi di comprendere i fedeli, di entrare in sintonia con essi. Qualche anno fa Bergoglio disse testualmente che «la Chiesa non deve regolamentare la fede, la deve agevolare». Non so quante e quali riforme Francesco realizzerà durante il suo pontificato. Ciò che però sta già cambiando è il modo in cui la Chiesa si pone di fronte alla società. Il che non è poco: si tenga presente che il successo di molte comunità evangeliche si deve proprio al loro modo di relazionarsi con la gente. In questo, dunque, Bergoglio la sua rivoluzione la sta già facendo.
a cura di Fabrizio Maronta