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 2013  maggio 22 Mercoledì calendario

PERCHÉ ALLA SANTA SEDE SERVE IL DENARO


[vedi appunti]

1) Da quando la maggioranza dei cristiani ha deciso di vivere su questa terra, e da quando la Chiesa è potenza fra le potenze, si ha il problema dei mezzi economici. 2) Vista al contrario, se i cristiani non si riproducessero aspettando solo di morire, e se non avessero alcuna organizzazione religiosa, non si avrebbe il problema dei mezzi economici. 3) Oppure ancora, se l’organizzazione religiosa non fosse una potenza fra le potenze, si avrebbe un problema dei mezzi economici di portata minore. Sotto 1) trovate la Chiesa cattolica, sotto 2) trovate il marcionismo, sotto 3) i protestanti e gli ortodossi.

Il denaro per fini di potenza
Se i cristiani nella loro forma cattolica vivono in questo mondo, e se vogliono vivere senza servire solo le potenze terrene, debbono avere dei mezzi economici, del denaro, anzi molto denaro. Denaro per far funzionare la Chiesa e per le opere di carità. La struttura centrale (il Vaticano) e quella decentralizzata (le diocesi eccetera), le organizzazioni di scopo (gesuiti, domenicani eccetera), le opere di carità. Il denaro – da intendere come reddito, ossia l’incasso dei trasferimenti dagli Stati, come l’otto per mille, cedole da obbligazioni, dividendi da azioni, affitti e via dicendo – ha origine dal patrimonio accumulato nel corso del tempo anche grazie alle donazioni, ai lasciti, e dai trasferimenti dagli Stati, quando si abbia un concordato.
Questo denaro si riversa nel funzionamento della Chiesa. Salari per i preti e per le monache, spese di rappresentanza, amministrazione, e manutenzione dei beni strumentali (chiese, cattedrali eccetera). Il denaro serve allo scopo della Chiesa, che è la testimonianza, insomma non ha fini di lucro. Se esso è accumulato (ossia non speso interamente) è per produrre un maggior reddito nel futuro, non per essere distribuito nel corso degli esercizi in parte ai soci come dividendo e interamente, sempre ai soci, quando si arriva allo scioglimento della società. La Chiesa, infatti, non ha soci, e si scioglierà il giorno del Giudizio, quando i beni non varranno nulla.
Il denaro della Chiesa può essere fatto gestire da terzi, oppure in proprio, con l’Istituto per le opere di religione (Ior).
Avendo lavorato per una delle imprese terze posso testimoniare. Il denaro che arrivava alla Chiesa dall’otto per mille veniva investito quasi tutto in obbligazioni. Man mano veniva ritirato per pagare gli stipendi dei preti e delle monache. Finiva quasi tutto nel corso di un anno di esercizio, e tutto ricominciava con l’arrivo del nuovo otto per mille. Il denaro che arrivava da una delle strutture centrali era investito in obbligazioni e azioni e non veniva ritirato, perché doveva crescere per poter avere un reddito maggiore nel futuro. Il sistema per assegnare la gestione alle imprese terze era questo: delle imprese scelte la peggiore – come risultati di rischio rendimento in un arco temporale accettabile – veniva scartata e sostituita da un’altra e via dicendo al giro successivo. Un rapporto finanziario semplice, simile a quello che potrebbe avere una fondazione, oppure un fondo pensione.
Avendo fatto bene un certo anno mi diedero come premio una medaglietta che raffigurava il papa, «piuttosto brutta», mi dissero, «mica abbiamo sempre un Bernini» e l’invito a visitare «con sua moglie» la Cappella Sistina, nientemeno quando era chiusa al pubblico. Divenni rosso – mi sentivo poco rispettoso – e confessai che ero divorziato. Chiesi titubante se potevo portare la fidanzata. Mi guardarono con commiserazione, come se a loro potesse importare.
Lo Ior – la banca del Vaticano – è una storia complessa che scatena le sempiterne fantasie sui misteri della Chiesa. Il Vaticano e le sue diramazioni come luogo misterioso di riciclaggio e di chissà che cosa ancora. Viene in mente il Padrino III, quando la famiglia Corleone «lavava» il proprio denaro, dandolo a qualcuno, a una società immobiliare, nell’orbita del Vaticano. Lo Ior contribuisce ad alimentare il mistero, perché non pubblica i bilanci, e accetta, si dice, i depositi senza fare troppe e imbarazzanti domande. La sua gestione è affidata ai laici, che riportano al consiglio di amministrazione composto da cardinali, che, a loro volta, riportano al papa, che può «fare quello che vuole» degli utili dello Ior.
Si dice che il suo patrimonio (il capitale di rischio) sia di cinque miliardi di euro [1]. Poniamo che il patrimonio netto sia davvero di cinque miliardi di euro, e supponiamo che la leva (il rapporto fra attivo e patrimonio) sia pari allo standard delle banche, ossia circa venti volte. Ne viene fuori che lo Ior potrebbe investire cento miliardi di euro (5x20) in obbligazioni, azioni e «trame». Se fossero cento miliardi, sarebbe poco per tramare con un qualche effetto di tipo sistemico. Si sono però avute delle trame di tipo locale.
Dello Ior ho sentito parlare per la prima volta quando mi fu sussurrato che dietro la misteriosa vicenda di Roberto Calvi – la banca che presiedeva aveva fra gli azionisti lo Ior – ci fosse nientemeno che il finanziamento di Solidarność. Trovai l’uso improprio della banca molto disdicevole, e il finanziamento di Solidarność giusto – in fondo la Chiesa è potenza fra le potenze. Come che sia per il passato, lo Ior ha chiesto di entrare nella white list delle banche dei paesi maggiori, e quindi ha inoltrato richiesta all’Ocse [2]. Insomma, vuole uscire dal cono d’ombra in cui si è trovato e si trova.
Con l’uscita dal cono d’ombra dello Ior e con le altre attività – l’investimento a breve termine per pagare gli stipendi, l’investimento a lungo termine per avere più reddito futuro, che sono già normali, ossia delegate a terzi – il denaro del Vaticano sarà gestito come quello di una fondazione. Una fondazione (= un ente costituito da un patrimonio preordinato al perseguimento di un determinato scopo) ha necessariamente delle entrate (= dei redditi) e delle uscite (= delle spese). Le entrate non sono altro che il frutto dei suoi investimenti e accordi (= azioni, obbligazioni, affitti, trasferimenti statali); le uscite sono gli impieghi per il funzionamento della Chiesa.

All’origine della finanza [3]
Nel mondo medievale si aveva la tripartizione degli oratores, dei bellatores, e dei laboratores. I primi illuminavano con la parola, i secondi difendevano dai nemici, i terzi lavoravano per alimentare i primi due gruppi e, in minor misura, se stessi. Se i laboratores nutrivano rispetto per i superiori, e i superiori, ossia gli oratores e i bellatores, erano premurosi nei confronti dei sottoposti, ecco che si raggiungeva la comunione dei cuori. L’equilibrio statico, in linguaggio economico moderno. In tale contesto il peccato maggiore era la superbia – il volere un ruolo diverso da quello assegnato dalla provvidenza. E dunque l’ambizione per i laboratores, e l’abuso di potere per gli altri.
Poi l’economia, a partire dall’XI secolo, comincia a fiorire. Mentre prima si produceva poco più di quanto fosse necessario per sopravvivere, ossia, in linguaggio economico, non si aveva un surplus, ora si produceva molto più di quanto servisse per la sopravvivenza. Il peccato in un’economia in surplus non è più superbia, ma avarizia. L’avarizia è il peccato di volere più di quanto serva per «coprirsi e nutrirsi».
Ma perché è un peccato? Perché distoglie dalla ricerca spirituale, cui uno deve dedicarsi una volta che si sia nutrito e coperto. E dunque, una volta che si abbia un surplus, l’avarizia diventa il peccato maggiore, che detronizza la superbia. La superbia è il peccato maggiore delle economie senza surplus, l’avarizia è quello delle economie con surplus.
Sorge un problema «keynesiano». Se, per evitare di peccare, si spendesse meno del proprio reddito, ecco che l’economia, in assenza di una domanda sufficiente, si contrarrebbe e perciò si tornerebbe al punto di partenza, quello dell’economia senza surplus. Come conciliare il surplus che richiede una spesa superiore a quanto strettamente necessario con il perseguimento della virtù?
Secondo san Tommaso, il reddito può essere diviso in due parti. La «sostanza» è quanto necessario per vivere nella ricerca spirituale. L’«abbondanza» è quanto avanza. Segue che l’uomo ricco, se vuole essere virtuoso, deve distribuire l’abbondanza a chi è povero. In questo modo, anche quest’ultimo potrà procedere nella ricerca spirituale. Seguendo san Tommaso, avremmo sia una domanda effettiva sufficiente – i minori consumi dei ricchi sono compensati dai maggiori consumi dei poveri, evitando così che l’economia si contragga – sia il perseguimento della virtù.
L’economia che generava il surplus era molto più complessa di quella dei quattro servi della gleba sdentati che vivacchiavano in un capanno intorno al maniero. Si avevano i commerci. Sono i nuovi problemi che i teologi affrontano. I commerci fanno emergere il problema dell’interesse, che fino a quel momento era confuso con il problema dell’usura. L’usura è un peccato di avarizia, perché, senza lavorare, uno ottiene più di quanto abbia dato. Detto diversamente, se uno riottiene il capitale prestato senza alcun interesse non pecca. In una società molto povera dove si scambiano sementi e attrezzi (prestiti non in denaro) non sorge il problema dell’usura. Esso sorge quando la società diventa più ricca e i prestiti sono in denaro.
Nella società ricca, invece di un rapporto fra un benestante che presta e un indigente che chiede, dove si vede molto bene quale sia il contraente debole, si ha un rapporto fra due mercanti, ossia si ha un rapporto fra pari. Il mercante che riceve il denaro può trovarsi in difficoltà, perché la sua nave è affondata, e quindi chi presta si può trovare ad avere un credito inesigibile. È anche vero l’opposto, la nave può giungere a destinazione e tornare, arricchendo il primo mercante. Nel primo caso il mercante che presta il denaro incorre in perdite, nel secondo non guadagna. È questa un’asimmetria giustificabile? Evidentemente no. Il divieto di prestare denaro in cambio di un interesse diventa un problema in una società ricca.
Resta aperta la questione di come organizzare l’erogazione del credito, e anche quella di ridurre il campo d’intervento dell’usura. I Monti di pietà sono la risposta pratica. I Monti sono promossi dai francescani. Essi hanno una pluralità di versamenti in denaro, ossia non dipendono dall’iniziativa di pochi. Essi possono prestare a una moltitudine, dividendo il rischio, senza praticare perciò tassi da usura. (S’intravede nei Monti la moderna teoria del portafoglio: con un maggior numero di soggetti si riduce il rischio e quindi il tasso di interesse praticabile. Il quale minor interesse retroagisce, perché rende più sicuro il portafoglio, riducendo le insolvenze).
A quei tempi è emesso per la prima volta il debito pubblico. Sorge il quesito. È lecito speculare – ossia comprare e vendere il debito pubblico, contando di guadagnare? Il francescano Francesco da Empoli spiega perché la speculazione non è usura, ossia non è un guadagno cui non corrisponde un contributo. Chi acquista un titolo di Stato compra il diritto di riscuotere un interesse e un capitale alla scadenza. Lo Stato può però ristrutturare o ripudiare il debito e perciò la riscossione è incerta. Lo speculatore alla fine compra un diritto su un evento incerto. Il guadagno (eventuale) dello speculatore è il premio per il rischio che ha corso. Lo speculatore si comporta perciò come un assicuratore. Se l’evento negativo non si manifesta, l’assicuratore guadagna, altrimenti perde. La Chiesa ammetteva il guadagno d’assicurazione e perciò doveva ammettere anche quello da speculazione.

L’ascensore sociale
Gli ascensori sociali sono l’esercito, la Chiesa, la scuola, l’intrapresa. La Chiesa per secoli ha miscelato la scuola con la propria struttura di potenza, ed è stata un vero e proprio ascensore sociale. Proprio come avveniva con i mandarini, che diventavano tali solo se superavano degli esami difficilissimi – i quali ultimi non potevano essere alla portata di tutti.
«Secondo Confucio, la scuola non è solamente un sistema educativo, ma anche un sistema elettivo: perciò essa combina politica e istruzione. La sua dottrina politica è democratica e non ammette alcuna aristocrazia. Poiché gli studenti tratti dalla gente comune diventano alti funzionari, le varie istituzioni sono realmente posti a cui vengono eletti i rappresentanti del popolo. L’esame del grado di istruzione prende il posto del suffragio universale» [4]. Il mandarinato e la Chiesa hanno quindi delle caratteristiche comuni.
Si potrebbe obiettare che anche gli ottomani reclutavano i migliori fra tutte le classi sociali, e questi diventavano giannizzeri, che fornivano la classe dirigente. In un sistema poligamico, la classe dirigente è però numerosa, per il gran numero di figli che vengono al mondo, e da qui le perenni lotte di Palazzo [5]. La caratteristica peculiare della Chiesa rispetto a un sistema di reclutamento «per inclusione», ma poligamico, è il celibato.
Appena si esaurisce una generazione, ecco che quella successiva si deve riformare sempre in concorrenza e non attraverso un sistema in qualche modo ereditario. (Il sistema ecclesiastico ha avuto delle caratteristiche ereditarie, più precisamente nepotistiche, ma alla lunga è rientrato nei binari di selezione per merito). Il ruolo della Chiesa come ascensore sociale è dunque stato enorme, ma l’ascensore ha funzionato anche al ribasso, avendo escluso gli eretici per secoli. Esso ha promosso i fedeli sostanzialmente sul merito, e, nel contempo, escluso gli infedeli, con efficacia.


Note:
[1] www.huffingtonpost.it/2013/02/15/ior-ecco-come-funziona-la-banca-di-dio_n_2693161.html
[2] www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-07-18/primo-passo-white-list-163507.shtml?uuid=AbAsir9F
[3] Riassumo l’argomentazione che si trova nel mio libro Né cicale, né formiche, Roma 2012, Dino Audino editore, e che riprende quasi alla lettera quanto si trova in S. ZAMAGNI, Avarizia, Bologna 2009, il Mulino.
[4] Cfr. P. SOKORIN, La mobilità sociale, Milano 1981, Edizioni di Comunità, pp. 165-169.
[5] Ibidem.