Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  maggio 10 Venerdì calendario

IL NARCISINDACO DI NAPOLI

NAPOLI. «Non è più tempo di pace. Qui a Napoli siamo in guerra» dice Luigi De Magistris, sindaco di lotta e di governo della più ingovernabile città europea incastonata a Sud di ogni Occidente e che sa sorprenderti sempre, barocca anche nel danno, rabbiosa di malavita, elegante quando vuole, e poi anche dolcissima di tramonti e di caffè. Lo scorso primo maggio i disoccupati hanno assaltato il palco: concerto interrotto, cariche, famiglie in fuga. Bande di vandali distruggono i treni della Circumvesuviana. Le proteste si accavallano. I finanziamenti si dileguano.
Sindaco, è vero che sta pensando alle dimissioni? «Chi lo dice non ha capito niente di me. Ho un rapporto carnale con la mia città, la gente, il popolo, mi piace guardare le persone negli occhi». E quindi? «Alle dimissioni non ci penso proprio». Vuole combattere... «Fino all’ultimo. Chiamando i cittadini al mio fianco. Dicendo la verità, tutta la verità, che sono a rischio le scuole, gli ospedali, gli stipendi. Molte forze vogliono spingerci nel baratro perché siamo il potere dei senza potere. Dobbiamo resistere». Quali forze: politiche, economiche, malavitose? «Tutte quante insieme, se vuole le spiego la storia di questa guerra».
Per raggiungere il suo studio, al secondo piano di Palazzo San Giacomo, molte trincee vanno superate. Intanto le voragini dell’eterna metropolitana in costruzione. Poi quelle che arginano le macerie della palazzina crollata a marzo in Riviera di Ghiaia, dove quel che resta del terzo piano un quadro, una sedia, un tappeto sta ancora appesa in cima al nulla, come un apologo sulla città. Da lì comincia l’inferno di moto e motorini che schizzano ai bordi della barriera di automobili che imprigiona i napoletani, fa friggere di veleni l’aria e il paesaggio che quando sta per esasperarti, dopo la curva, si apre nel grande blu del Golfo e nell’improvviso tripudio di un glicine fiorito.
Napoli è la terza città italiana. La più giovane. La più disoccupata. Quella con gli stucchi più belli e con la periferia più orrenda. La città con più chiese e con più santi protettori. Non contando San Gennaro, che fa il miracolo del sangue dal 1389, ne ha la bellezza di cinquantuno. Grazie ai quali è sopravvissuta a tutte le dominazioni, a tutti i Masaniello, all’ultima epidemia di colera d’Europa, ai molti terremoti, compresi quelli politici: una parabola anche tragica che va dalle scarpe elettorali che regalava Achille Lauro, fino al Rinascimento pagato a peso d’oro agli infiniti consulenti di Antonio Bassolino. «Di quella Napoli noi abbiamo ereditato le macerie» dice ora De Magistris, che le governa da quasi ventiquattro mesi. A tanto, o a così poco, risale la notte della sua apoteosi elettorale, 65 per cento dei voti, festeggiata da una quantità di promesse rivoluzionarie lotta al traffico, biciclette elettriche, raccolta differenziata dei rifiuti, cultura diffusa, risanamento edilizio, lavoro, un nuovo stadio per il re Cavani, una moschea per l’integrazione e poi legalità, legalità, legalità tutte riassunte in quella bandana arancione che la fitta schiera dei suoi nemici ha messo agli atti come prova provata di superficialità non solo estetica.
Lui replica alla sua maniera, illuminando un complesso disegno ai suoi danni: «Siamo sotto attacco. Abbiamo rotto gli equilibri di poteri consolidati da un ventennio, intorno al blocco sinistra e destra che voleva dire incarichi, finanziamenti, appalti. E specialmente criminalità e poteri forti che spesso sono la stessa cosa». Dice: «Diamo fastidio perché abbiamo interrotto la mangiatoia. Dando per primi l’esempio: mi sono autoridotto lo stipendio a quattromila euro e i miei assessori non arrivano a tremila». E poi: «Diamo fastidio perché abbiamo iniziato il cambiamento vero. Siamo la prima città con il registro delle unioni di fatto, anche se è Milano quella che fa notizia. Per un anno ci hanno preso le misure. Ora siamo alla vendetta. Per questo chiamo i cittadini alla vigilanza».
Le macerie ereditate sono pesanti: 1,5 miliardi di euro di debito; 850 milioni di disavanzo. Finanziamenti europei fermi. Bilancio appena dichiarato in «pre dissesto». Casse comunali vuote. Mense scolastiche a rischio: «Sto pagando i debiti del 2008. Vivo assediato dai creditori. Gradisce un caffè?». Luigi De Magistris, 45 anni, ha gentilezze da guerriero che riposa. Il lavoro lo ha reso più asciutto. Quando scende in strada non si sottrae: parla, litiga, abbraccia. Di notte manda tweet filosofici tipo: «Nella corsa tra il sogno e il denaro, vince sempre il sogno». Oppure: «La bicicletta è politica». Stravaganze che irritano oppure che incantano. Ora che si siede sul divano di broccato si liscia la cravatte e accavalla le gambe. Si piace. Non per nulla lo hanno battezzato il narcisindaco. Il soprannome di prima era peggio Giggino a’manetta. Perché da sostituto procuratore a Catanzaro ha inquisito politici, magistrati, poliziotti con un fervore che era diventato metodo. Le sue due inchieste anti corruzione più clamorose Poseidone e Why Not, coinvolti Prodi, Mastella, Bisignani, CI, logge massoniche, eccetera sono finite nel nulla. Ma il clamore ha comunque favorito la sua seconda vita e la sua nuova carriera: prima europarlamentare con l’Idv di Di Pietro, 430 mila preferenza, poi la cavalcata su Napoli, dove ha frantumato i litigiosi candidati della sinistra, per poi battere Gianni Lettieri, detto il Richard Gere di piazza Garibaldi, imprenditore di centro destra, pupillo di Montezemolo.
Da quei trionfi le cose hanno cominciato a peggiorare. Prima che il Csm lo sanzionasse, si è dimesso dalla magistratura, puntando tutto sulla politica. Peccato che subito dopo Di Pietro si sia liquefatto a causa dell’inchiesta giornalistica di Milena Gabanelli sul patrimonio immobiliare dell’Idv. E che il suo nuovo alleato, Antonio Ingroia, a forza di maneggiare epocali inchieste mafiapolitica e buffe interviste dal Guatemala, si sia rivelato una meteora. Nel suo racconto napoletano «Stiamo cercando di semplificare la macchina burocratica che ci soffoca. Abbiamo introdotto nuove procedure di trasparenza per gli appalti. Non abbiamo tolto un euro alle politiche sociali» segnali del disastro lampeggiano. E in ognuno De Magistris intravede il tassello del complotto che lo circonda. Il 29 gennaio gli autobus non escono dalle rimesse: manca il gasolio. La notizia fa il giro del mondo anche se l’emergenza dura un solo giorno: «Come mai nessuno dell’azienda trasporti ha avvertito prima?».
Poi arriva il lunedì nero del 4 marzo, quando le fiamme divorano la Città della Scienza, costruita davanti al mare, fiore all’occhiello di Napoli, orgoglio pedagogico, a nessuno importando che fosse pure abusiva. Incendio certamente doloso, visti i sei inneschi trovati dai vigili del fuoco: «Per rappresaglia o per gli appalti». Poi tocca al traffico. I commercianti protestano per la Ztl che blocca 4,5 chilometri di lungomare, via Caracciolo e via Partenome, interrompendo l’asse Est Ovest della città e ingolfando tutto il resto. La serrata del 10 aprile finisce con un paio di bombe carta davanti al Comune, cariche, lacrimogeni, qualche malore, una valanga di polemiche: «Chi erano, cittadini esasperati o soldati di camorra?». Aggiunge: «La critica è legittima, ci mancherebbe. Ma qui c’è molto di più. Per esempio mi risulta che pattuglie di brutti ceffi siano andati a minacciare i negozianti obbligandoli alla serrata». E se ci fossero ancora dubbi sul complotto in atto, Luigi De Magistris cita lettere minatorie, minacce telefoniche, due allarme bomba in Comune: «Ogni rivoluzione è assediata dai controrivoluzionari».
Persino l’inchiesta sui veleni a Bagnoli sversati da chi doveva bonificare l’ex area industriale, 21 indagati tra cui due vicesindaci dell’era Iervolino, 107 milioni di euro bruciati lo insospettisce per la tempistica: «L’inchiesta è del 2003, le intercettazioni del 2007, ma i provvedimenti scattano lo scorso 11 aprile 2013. Strano, no?». Meglio tardi che mai, verrebbe da dire, visti gli altri segnali che perfezionano l’assedio. Per mancanza di finanziamenti sta per chiudere l’Istituto di Studi filosofici che è una gloria del mondo accademico. E per mancanza di un minimo di legalità è sotto sequestro giudiziario la biblioteca dei Girolamini, 160 mila libri preziosissimi, che il direttore trafugava un po’ alla volta, complico persino il sacerdote conservatore. Chiudono chiese per crolli, come Santa Maria delle Grazie. Altre diventano inagibili per furti, saccheggio, incuria. «Chiese che brillano sui cataloghi d’arte, ma che nella realtà non esistono più, come le stelle morte» scrive Tomaso Montanari, lo storico dell’Arte che ha denunciato per primo il saccheggio al Girolamini. «In tanti speravamo che De Magistris portasse finalmente un po’ di legalità, perché a Napoli la legge non esiste proprio, ed è la prima causa del disastro. Invece anche lui butta soldi in quei cinepanettoni della cultura che sono i Grandi eventi, come l’America’s Cup». Già perché proprio al centro del disastro, sul lungomare delle polemiche, hanno appena sfilato le vele colorate degli ultraricchi che si sfidano nella Coppa America: «Napoli affonda e il sindaco sale in barca», sparano in prima pagina i giornali. L’ospitata pare a tutti costosissima per il Comune, otto milioni di euro, forse dieci. E visti i tempi anche stonata. Ma De Magistris la difende come segnale e come vantaggio, anche se trascura di ricordare che la scogliera artificiale allestita l’anno scorso, ora rischia il sequestro giudiziario perché anche lei è abusiva: «Dall’American’s Cup ci guadagneranno tutti, noi, gli sponsor, e pure la città tornata all’onore del mondo». Aggiunge: «Ho restituito ai napoletani il loro lungomare. Prima era un’autostrada e un parcheggio, ora l’ho riempito di biciclette, di bambini, di famiglie. Si è tornato a sentire il profumo del mare e finalmente i ragazzi si esercitano nell’acchiappanza». Prego? «Lo struscio, il rimorchio, come lo chiamate voi a Roma?». Ride, cita Google: spiega che fino all’anno scorso se digitavi «Napoli» saltava fuori la parola «rifiuti» nei primi dieci link, ora compare sotto quota cento. «Quando sono diventato sindaco c’erano 2500 tonnellate di spazzatura a terra. Oggi mi criticano per la regata, ma si dimenticano che prima di me l’unico sport praticato a Napoli era scalare le montagne di monnezza». A quei tempi promise «di far sparire la spazzatura in cinque giorni», sette mesi dopo c’era ancora l’emergenza. Ora ci si dondola in una strana calma. La Napoli turistica è pulita, ma basta allontanarsi dal centro per avvistare i soliti cumuli che riempiono gli incroci, ma non fanno più notizia. Due volte al mese quattromila tonnellate di rifiuti napoletani salpano sui cargo per fare ricchi due volte gli inceneritori di Rotterdam che incassano il rimborso e intanto producono energia.
De Magistris dice che è comunque conveniente: «Per ogni tonnellata portata nelle discariche a Giuliano o dintorni, la tanna era di 150 euro e incassava la camorra. Imbarcarla per l’Olanda ora ci costa 108 euro a tonnellata, quasi un terzo di meno». Avendo cancellato il nuovo inceneritore a Napoli Est «una fabbrica di inquinamento nel cuore della città, una vera pazzia» De Magistris puntava alla differenziata. Prometteva il 70 per cento in tempi brevi, ma ha appena superato la «quota Iervolino» che stava al 18. «Ci serve l’impiantistica intermedia, le aree di compostaggio. Miglioreremo. E comunque è facile criticare. Specie la buona borghesia che è abituata a guardare dalla finestra e a giudicare. Scendessero pure loro a portare i sacchetti, a dare una mano, visto che si fa più differenziata a Scampia che a Posillipo, non so se mi spiego».
Il pre-dissesto del bilancio che in burocratese significa alzare la bandiera rossa sulla tempesta di debiti è la sua linea di confine. Oltre la quale c’è il baratro o la salvezza. Ora tocca al governo decidere se pompare liquidi, come è successo per Roma Capitale, per Catania, oppure togliere l’ultimo ossigeno e impartire l’estrema unzione. «Il governo Monti ci aveva promesso 300 milioni. Ne hanno sbloccati 70. In realtà me ne aspetto 260 entro giugno, è la condizione minima per ripartire». Pochi giorni fa il presidente Giorgio Napolitano gli ha assicurato che l’indispensabile si farà. Altrimenti? «Non avremo più i soldi per accendere le luci delle strade».0 Ma a una Napoli al buio non crede neppure lui. Tanto è vero che, preparandosi allo scontro finale, si gode i fuochi d’artificio per la partenza del giro d’Italia («Non succedeva a Napoli da cinquant’anni») e annuncia un corposo rimpasto di giunta per il prossimo 10 maggio. «Da lì inizierà la fase due della nostra avventura» dice, «altro che dimissioni».