Maurizio Molinari, La Stampa 22/5/2013, 22 maggio 2013
L’EFFETTO SERRA ORA PRESENTA IL CONTO
Negli ultimi 24 mesi è il climakiller ad aver causato il più pesante bilancio, in vittime e danni, per gli Stati Uniti, ma la reazione a tale minaccia alla sicurezza collettiva continua ad essere lenta a causa di molteplici carenze e ritardi.
A descrivere la pericolosità dell’«extreme weather», il clima estremo, è uno rapporto della National Oceanic and Atmospheric Administraion (Noaa), l’Ente federale che veglia sul clima, secondo il quale fra il 2011 ed il 2012 i danni causati in 43 Stati su 50 hanno ammontato a 188 miliardi di dollari e 1107 vittime.
Si tratta di una minaccia divenuta costante. Gli episodi di inondazioni, siccità, tempeste, incendi, uragani e tornado classificati di «violenza insolita» sono stati 14 nel 2011 e 11 nel 2012. I due più devastanti, per quanto riguarda entità dei danni e numero di vittime, sono stati nel 2012 la peggiore siccità dell’ultimo mezzo secolo che ha investito due terzi della nazione - con 34.008 record di alte temperatura - è il mega-uragano Sandy che si è scagliato contro il Nord-Est. «QueSte misurazioni sono cominciate nel 1996, se fino al 2010 era possibile considerare il clima estremo come un’eccezione - spiega Kavin Trenberth, scienziato del clima all’Università del Colorado - ora dobbiamo conviverci e ciò comporta adottare le necessarie contromisure». La più grave conseguenza del clima-killer infatti è l’aumento del numero delle vittime. Per il Noaa dall’inizio del 2011 ciò che colpisce è la sovrapposizione fra i numeri esigui delle manifestazioni estreme delle intemperie e quelli alti del bilancio in vite umane: 2 siccità ne hanno fatte perdere 181, 14 tornado e tempeste 628, 4 uragani 200 e una singola tempesta di neve 36. Nell’anno corrente l’impennata è arrivata con la primavera: da gennaio a metà maggio i tornado avevano ucciso 3 persone, nell’ultima settimana sono balzate a 59 e poi è arrivata la tragedia di Moore. «Si tratta di un prezzo di vite umane molto alto che ha più motivazioni» spiega Dennis Feltgen, portavoce del Noaa, «perché per esempio nel caso degli uragani il bilancio più pesante si registra in prossimità dell’acqua a causa del fatto che la maggioranza della poplazione sottovaluta il pericolo delle inondazioni».
Per Peter Gleick, direttore dell’Istituto del Pacifico sugli studi per l’ambiente di Oakland, in California, «siamo abituati da generazioni a convivere con il tempo cattivo, anche aggressivo, ma non con un clima-killer, la cui potenza è superiore alle precauzioni che siamo soliti adottare». Trenberth in proposito prende ad esempio il tornado dell’Oklahoma: «La prima allerta è arrivata 30 minuti prima, l’allarme è scattato 16 minuti prima, la gente è andata nei rifugi, tutto è avvenuto nel rispetto delle procedure ma ciò non ha evitato il peggio perché quando un tornado categoria 4 o 5 si sofferma per più di qualche attimo su uno spazio di terra i rifugi esistenti non bastano, bisogna trovarsi letteralmente sotto terra». Ciò significa dover ripensare «le difese delle nostre zone abitate» osserva Gavin Schmidt, climatologo della Nasa, secondo il quale «all’origine di questi fenomeni c’è una decade più calda di quella precedente a causa della produzione di anidride carbonica» e poiché «non siamo stati in grado di prevenirla oramai non abbiamo scampo, dobbiamo fronteggiare le conseguenze».
A rischiare di più, assicura Daniel Weiss, direttore degli Studi sul Clima del Center for American Progress di Washington, «sono le comunità che vivono lungo le coste, in procinto dell’acqua» perché «mentre nel caso delle comunità flagellate dai tornado si può ricostruire creando rifugi sottoterra» nel caso di metropoli come New York, Los Angeles, Miami, Boston o Filadelfia si pone la necessità di «redistribuire la popolazione» allontanandola da spiagge e coste che possono essere travolte dai flutti come è avvenuto nel caso di Sandy.