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 2013  maggio 21 Martedì calendario

JACK KEROUAC

L’ARTE DELLA NARRAZIONE

I Kerouac non hanno il telefono. Ted Berrigan aveva contattato Jack Kerouac con qualche mese di anticipo e l’aveva convinto a rilasciare l’intervista. Quando sentì che era giunto il momento, Berrigan si presentò a casa Kerouac. Era accompagnato da due amici, i poeti Aram Saroyan e Duncan McNaughton. Kerouac andò alla porta e Berrigan si presentò rapidamente spiegando il motivo della visita. Kerouac diede il benvenuto ai poeti, ma prima di farli accomodare, sua moglie, una donna molto determinata, lo afferrò da dietro e pregò il gruppetto di andarsene subito. Berrigan ricorda che per cercare di farla ragionare io e Jack, contemporaneamente, le dicemmo: “E la Paris Review!, L’intervista!” eccetera, mentre Duncan e Aram cominciarono ad arretrare verso l’auto. Sembrava tutto inutile, ma io continuavo a parlare in quello che mi auguravo fosse un tono di voce civile, consono, rassicurante e amichevole, e poco dopo la signora Kerouac acconsentì a lasciarci entrare per venti minuti, a patto che non bevessimo.
Una volta dentro, quando fu chiaro che eravamo lì per un motivo serio, la signora Kerouac diventò più socievole e potemmo cominciare l’intervista. Pare ci sia ancora un viavai continuo di persone che vanno a trovare l’autore di Sulla strada e si trattengono per giorni e giorni a bere e a distrarre Kerouac dalle sue occupazioni più serie. Pian piano l’atmosfera della serata cambiò completamente, e Stella, la signora Kerouac, si rivelò un’ospite deliziosa e cortese.
La cosa più incredibile di Jack Kerouac è la sua voce magica che suona esattamente come le sue parole. In men che non si dica è capace di cambiamenti stupefacenti e sconcertanti. Detta qualunque cosa, intervista compresa.
A conversazione conclusa Kerouac, che era stato seduto su una sedia a dondolo tipo quella del presidente J.F. Kennedy, si spostò su una grande poltrona e disse: “E così voi ragazzi sareste dei poeti, eh? Allora sentiamone qualcuna di queste vostre poesie’. Restammo un’altra oretta, e io e Aram leggemmo delle nostre cose. Poi, lui diede a ognuno una copia firmata di una sua poesia recente e ce ne andammo”.

Ted Berrigan, 1968

Possiamo mettere lo sgabello qui per appoggiarci sopra questo?
Stella: «Sì».
Jack Kerouac: «Dio, quanto è fuori posto lì, Berrigan!»
Vede, Jack, io e questi marchingegni non andiamo d’accordo. Io sono solo un gran comunicatore, proprio come lei. Ok, ci siamo.
Jack Kerouac: «Ok? (Fischi) Ok?».
Ora vorrei cominciare... Il suo primo libro che ho letto, stranamente, visto che in genere tutti leggono prima Sulla strada... il primo che ho letto è stato La città e la metropoli...
Jack Kerouac: «Perbacco!».
L’avevo preso in prestito in biblioteca...
Jack Kerouac: «Perbacco! Ha letto il dottor Sax? Tristessa?»
Ci può scommettere! Ho persino letto Rimbaud. Ho una copia di Le visioni di Cody che era stata acquistata da Ron Padgett a Tulsa, in Oklahoma.
Jack Kerouac: «’Fanculo Ron Padgett! Sa una cosa? Aveva fondato una piccola rivista che si chiamava White Dove Review, a Kansas City — o era Tulsa? — Oklahoma... sì. Mi scrisse: “Perché non lancia la nostra rivista con una sua bella poesia lunga?”. E gli inviai “The Thrashing Doves”. Poi gliene spedii un’altra e lui la rifiutò perché la rivista era già ben avviata. Questo per farle capire come i buoni a nulla cerchino di farsi strada scambiandosi favori a vicenda. Lui non è un poeta. Sa chi è un grande poeta? Io sì che so quali sono i grandi poeti».
Quali per esempio?
Jack Kerouac: «Vediamo... William Bissett di Vancouver. Un ragazzo indiano. Bill Bissett, o Bissonnette».
Aram Saroyan: «Parliamo di Jack Kerouac».
Jack Kerouac: «Kerouac non è meglio di Bill Bissett, ma è molto originale».
Perché non cominciamo dagli editor? Come...
Jack Kerouac: «Ok. Tutti i miei editor a partire da Malcolm Cowley hanno avuto istruzioni di lasciare la mia prosa esattamente come l’avevo scritta. Ai tempi di Malcolm Cowley, con Sulla strada e I vagabondi del Dharma, non avevo il potere necessario per difendere il mio stile, nel bene e nel male, quando, ad esempio, Malcolm Cowley fece un numero infinito di revisioni e inserì migliaia di virgole inutili come “Cheyenne, Wyoming” (perché non mettere semplicemente “Cheyenne Wyoming” e lasciarlo così?). Allora mi toccò pagare cinquecento dollari per riavere il manoscritto completo dei Vagabondi e poi mi arrivò la fattura della Viking Press per “revisioni”. Ah, ah, ah! E dunque mi chiedeva come lavoro con l’editor... Beh, oggi non posso che essergli grato per assistermi nella correzione delle bozze e individuare gli errori logici come date, nomi di luoghi. Per farle un esempio, nel mio ultimo libro avevo scritto che salpavo dal “Firth of Forth”, poi, su suggerimento del mio editor andai a verificare e scoprii che in realtà avrebbe dovuto essere il Firth of Clyde. Cose così. Oppure avevo scritto “Alisteir” Crowley invece di Aleister, o ancora piccole sviste sulle misure in iarde delle partite di football e via dicendo. Il fatto è che non revisionando ciò che hai scritto, offri al lettore la dinamica dei tuoi processi mentali durante la scrittura, confessi i tuoi pensieri in quella tua maniera che non può essere cambiata... Per dire, ha mai sentito qualcuno fare un racconto lungo e animato a un gruppo di uomini al bar e tutti che ascoltano e sorridono? L’ha mai sentito fermarsi e correggersi, tornare alla frase precedente per migliorarla, per sistemarne l’impatto ritmico?... Se fa una pausa per soffiarsi il naso, non è forse per prepararsi la frase seguente? E quando lascia in sospeso la frase successiva, non è proprio perché la voleva dire così e basta? Non è perché si stacchi dal pensiero di quella frase e, come dice Shakespeare, “taccia per sempre” sulla questione, essendo andato oltre come il tratto di un fiume che scorre sopra una roccia una volta sola, e non ritorna mai indietro, e non potrà mai scorrere altrimenti? Tra l’altro, a proposito della mia idiosincrasia nei confronti dei punti, c’è la prosa molto sperimentale di October in the Railroad Earth, scritto con l’intento di riprodurre per tutto il libro il rumore di un treno a vapore che trasporta un centinaio di automobili e un vagone del personale parlante in coda. Era quello il mio modo di scrivere all’epoca e può esserlo ancora se, quando scrivo spedito, il pensiero è confessionale e puro ed entusiasta della vita che si porta dentro. E mi creda, ho passato tutta la mia gioventù a scrivere lentamente, fra revisioni, infinite rielaborazioni, e cancellature, al punto che riuscivo a scrivere al massimo una frase al giorno ed era una frase priva di sentimento. Dannazione, se c’è una cosa che amo dell’arte è proprio il sentimento, non l’astuzia e la dissimulazione dei sentimenti!»
Che cosa la spinse ad adottare lo stile “spontaneo” di Sulla strada?
Jack Kerouac: «Per lo stile spontaneo di Sulla strada fui ispirato dalle lettere che mi scriveva il buon vecchio Neal Cassady — tutte in prima persona, dirompenti, folli, confessionali, profondissime, particolareggiate — nel suo caso con nomi autentici, trattandosi di lettere. E mi ricordai anche dell’avvertimento di Goethe, o meglio della sua profezia, secondo il quale la futura, letteratura dell’Occidente avrebbe avuto una natura confessionale. Anche Dostoevskij la pensava così e avrebbe potuto mettere in pratica la cosa se fosse vissuto abbastanza a lungo da realizzare il capolavoro che aveva in cantiere, La vita di un grande peccatore. Anche Cassady da giovane si era cimentato con la scrittura lenta, accurata e tutte quelle stronzate sul mestiere dello scrittore, ma se ne stancò come me, vedendo che non riusciva a esprimere ciò che provava dentro nel modo in cui lo sentiva. Però il suo stile mi illuminò. E una cattiveria bella e buona da parte di quei mammalucchi della West Coast dire che gli avrei rubato l’idea per Sulla strada. Tutte quelle lettere che mi scriveva parlavano della sua gioventù prima che ci conoscessimo, di un bambino e di suo padre e cose del genere, e delle sue successive esperienze adolescenziali. Si dice che la lettera che mi mandò fosse lunga tredicimila parole ma non è vero... no, il pezzo di tredicimila parole era il suo romanzo intitolato The First Third che rimase inedito. La lettera, intendo la lettera principale, era lunga quarantamila parole, badi bene, in pratica un romanzo breve. E il miglior pezzo che abbia mai letto, migliore di qualsiasi altro autore americano o comunque talmente bello da far rivoltare nella tomba Melville, Twain, Dreiser, Wolfe e non so chi altri. Allen Ginsberg mi chiese di prestargli quella lettera fiume per leggerla e poi, nel 1955, la prestò a un tipo di nome Gerd Stern che viveva su una casa galleggiante a Sausalito, in California, e Stern la perse: in mare, immagino. Io e Neal la chiamavamo, per comodità, “la lettera Joan Anderson”... Parlava di un fine settimana sotto Natale, fra sale da biliardo, camere d’albergo e il carcere di Denver, con episodi comici ma anche tragici; c’era persino il disegno di una finestra, con tanto di misure perché il lettore capisse, tutta questa roba. Ora mi stia a sentire: se riuscissimo a trovarla, quella lettera verrebbe pubblicata con il copyright di Neal, ma come lei sa, essendo indirizzata a me, era di mia proprietà, perciò Allen non avrebbe dovuto essere così sconsiderato, e nemmeno quel tizio della casa galleggiante. Se riusciamo a trovare quella lettera integrale di quarantamila parole, renderemo giustizia a Neal. Nel lontano 1952 registrammo anche diverse conversazioni veloci fra noi, e le ascoltammo così tante volte, avevamo entrambi un linguaggio segreto per raccontare una storia e pensavamo che fosse l’unico modo per esprimere la velocità, la tensione e l’estatica scemenza dell’età... È abbastanza?»
Come crede sia cambiato questo stile dopo Sulla strada?
Jack Kerouac: «Quale stile? Oh, lo stile di Sulla strada. Beh, come le dicevo, Cowley passò al setaccio lo stile originale del manoscritto senza che potessi dire niente, e da allora i miei libri vengono tutti pubblicati così come sono stati scritti, come dico io, e lo stile è passato dalla scrittura serrata e ultrasperimentale di October in the Railroad Earth allo stile mistico, compatto come un’unghia incarnita, di Tristessa, alla follia confessionale delle Memorie del sottosuolo (di Dostoevskij) nei Sotterranei, alla perfezione dei tre in uno di Big Sur che racconta una storia come un’altra in uno stile liscio e scorrevole, fino a Satori a Parigi, il primo libro che ho scritto con un drink accanto (cognac e liquore al malto)... senza dimenticare Il libro dei sogni, lo stile di una persona semisveglia che lo scrive di getto, a letto, con una matita... sì, una matita... che impresa! Occhi annebbiati, menti malate, confuse e stordite dal sonno, dettagli che saltano fuori anche se mentre li scrivi non sai cosa significhino fino a quando non ti svegli, prendi il caffè, guardi il tutto e vedi la logica dei sogni nel linguaggio stesso del sogno, capisce? E infine, alla mia stanca mezz’età, decisi di rallentare e scrissi Vanità di Duluoz in uno stile più moderato cosicché, dopo essere stato tanto esoterico per tutti quegli anni, qualche vecchio lettore avrebbe potuto tornare e vedere cosa avevano fatto quei dieci anni alla mia vita e al mio pensiero... che poi in fin dei conti è l’unica cosa che ho da offrire, la vera storia di ciò che ho visto e di come l’ho visto».
Lei ha dettato alcune parti delle Visioni di Cody. Ha utilizzato questo sistema altre volte?
Jack Kerouac: «Non ho dettato parti di Visioni di Cody. Ho battuto a macchina un brano di una conversazione registrata con Neal Cassady, o Cody, in cui si parlava delle sue prime avventure a Los Angeles. Sono quattro capitoli. Poi non ho più adottato questo sistema; per Neal e per me non viene fuori bene quando è tutto trascritto, con quegli ah e oh e ummm e l’ansia che quel dannato aggeggio sta girando e tu non puoi sprecare elettricità o nastro... Poi non si sa mai, potrebbe capitarmi di usarlo ancora; comincio a essere stanco e sto diventando cieco. Questa domanda mi mette in crisi.Ad ogni modo, da quel che sento lo fanno tutti, io però continuo a scribacchiare. McLuhan dice che stiamo diventando più orali e dunque suppongo che impareremo tutti a parlare a un registratore, sempre meglio».
Quale quello stato di “semi trance yeatsiano” che crea l’ atmosfera ideale per la scrittura spontanea?
Jack Kerouac: «Beh, il fatto è questo: come si fa a starsene in trance quando la bocca è sempre lì a ciarlare... Scrivere è come minimo una meditazione silenziosa anche se stai andando a cento chilometri all’ora. Si ricorda quella scena della Dolce vita in cui il vecchio prete s’indigna davanti alla folla di fanatici venuta a vedere l’albero dove i bambini hanno visto apparire la Madonna? Dice così: “I miracoli nascono nel raccoglimento, nel silenzio, non in questa confusione!”. Ecco. E proprio questo».
Lei ha detto che l’haiku non è scritto di getto, ma viene rilavorato e rivisto. Vale anche per la sua poesia? Perché ci deve essere un metodo per scrivere poesia e uno per scrivere prosa?
Jack Kerouac: «No, innanzitutto è meglio se l’haiku viene rilavorato e rivisto. Lo so, ci ho provato. Deve essere completamente sobrio, niente foglie e fiori e ritmo, deve essere un’immagine semplice e contenuta, in tre brevi versi. O almeno era così che facevano i vecchi maestri, che passavano mesi su tre versi per arrivare a qualcosa come:Sulla barca abbandonata,la grandine cade e rimbalza. Questo è Shiki. Ma per tornare al mio verso regolare, io lo buttavo giù con la stessa velocità con cui scrivevo in prosa,seguendo — stia a sentire questa — il formato di una pagina di taccuino per determinarne forma e lunghezza, proprio come un musicista, un musicista jazz, deve ricavare la sua idea da un certo numero di battute racchiuse all’internodi un chorus, che ricorre nel brano ma che deve stare in una pagina. E poi, c’è anche da dire che nella poesia si può essere completamente liberi di dire ciò che si vuole, non bisogna per forza avere una storia da raccontare, puoi usare giochi di parole segreti, ed è per questo che quando scrivo prosa dico sempre: “Adesso non c’è tempo per la poesia, scrivi la tua storia e basta”».
[Vengono serviti i drink.)
Come scrive gli haiku?
Jack Kerouac: «Haiku? Vuole sentire qualche haiku? Vede, si tratta di condensare una gran bella storia in tre righe. Per prima cosa bisogna partire da una situazione haiku: dunque, vede una foglia, come dicevo a lei l’altra sera, che cade sulla schiena di un passerotto durante una fortissima tempesta di vento ottobrina. Una grande foglia che cade sulla schiena di un passerotto. Come condensare tutto questo in soli tre versi? In giapponese quelle tre righe vanno condensate in diciassette sillabe, ma in americano — o in inglese — è diverso perché non abbiamo le stesse cazzate sillabiche della lingua giapponese. Così lei dice: “Piccolo passerotto” — ma si può anche omettere piccolo, lo sanno tutti che un passerotto è piccolo perché i passerotti cadono, e allora dirà:
Un passerotto
con una grande foglia sulla schiena
una tempesta di vento.
No, così non va, non funziona, bocciata.
Un passerotto
quando d’un tratto una foglia d’autunno trasportata dal vento
gli si posa sulla schiena.
Ah ah! Questa funziona! No, è un po’ troppo lunga. Vede? E già un po’ troppo lunga, capisce cosa intendo Berrigan?»
E come se ci fosse una parola di troppo o qualcosa del genere, quel quando, per esempio. E se togliessimo quel quando e dicessimo:
Un passerotto
d’un tratto una foglia d’autunno trasportata dal vento
gli si posa sulla schiena!
Jack Kerouac: «Ehi, così va bene! Penso che la parola di troppo fosse proprio quel quando. Ottima osservazione O’Hara! “Un passerotto, d’un tratto una foglia d’autunno”, non serve nemmeno che diciamo d’un tratto, non crede?
Un passerotto
una foglia d’autunno trasportata dal vento
gli si posa sulla schiena!»
[Kerouac annota la versione finale su uno di quei blocchetti per appunti con la spirale]
D’un tratto è esattamente il tipo di parola che qui non serve.Quando lo pubblicherà metterà una nota a pie di pagina in cui dice di avermi chiesto un paio di cose?
Jack Kerouac[scrive]: Berrigan mi ha fatto notare. «Così?»
Lei scrive tanta poesia?A parte haiku, cosa scrive?
Jack Kerouac: «È difficile scrivere haiku. Io scrivo lunghe poesie indiane sciocche. Vuole sentire una mia lunga poesia indiana sciocca?»
Indiana di che tipo?
Jack Kerouac: «Irochese. Come può intuire guardandomi. [Legge dal suo blocchetto.] Sul prato per andare al negozio quarantaquattro anni che i vicini hanno dovuto sentire ehi, guarda, mamma mi sono fatto male. Specialmente con quello schizzo. Cosa significa?»
Me la ripete?
Jack Kerouac: «Ehi, guarda mamma, mi sono fatto male, mentre andavo al negozio mi sono fatto male sono caduto sul prato grido a mia madre ehi, mamma, guarda mi sono fatto male. E aggiungo, specialmente con quello schizzo.»
E caduto sopra un irrigatore?
Jack Kerouac: «No, mio padre ha schizzato dentro mia madre.»
Da quella distanza?
Jack Kerouac: «Oh, lasciamo perdere. No, so che non si capisce. Ho dovuto spiegarla. [Riapre il taccuino e legge.] Goi significa gioia».
Questa la mandi a Ginsberg.
Jack Kerouac[Legge] Le persone per così dire felici sono ipocrite — ovvero la lunghezza d’onda della felicità non può funzionare senza il necessario inganno, senza certe trame, bugie e sotterfugi. Ipocrisia e inganno, niente indiani. Niente sorrisi».
Niente indiani?
Jack Kerouac: «Il motivo della sua celata avversione nei miei confronti, Berrigan, è la Guerra franco-indiana».
Può darsi.
Aram Saroyan: «Ho visto una sua foto di quando giocava a football, si trovava negli scantinati della Horace Mann. Era davvero grasso in quel periodo».
Stella: «Tuffy! Vieni Tuffy! Vieni qui, micio...»
Jack Kerouac: «Stella, portaci un altra bottiglia... anche due. Oh, trattenetemi o potrei uccidere qualcuno! Già, ero grasso. I sundae! Bum! Prima di ogni partita mi mangiavo due o tre di quelle coppe gelato con la cioccolata calda sopra. Lou Little...»
Era il suo allenatore alla Columbio?
Jack Kerouac: «Lou Little era il mio allenatore alla Columbia. Mio padre andò da lui e gli disse: “Perché non lasci entrare mio figlio Ti Jean, Jack, nella partita dell’Esercito, razza di strisciante mascalzone nasuto che non sei altro, così può restituirle al suo grande nemico di Lowell?”. E Lou Little gli rispose:“Perché non è pronto”. “E chi dice che non è pronto?” “Lo dico io che non è pronto!” E mio padre: “Perché non sparisci dalla mia vista brutto nasone a banana, razza di lestofante che non sei altro?”. E se ne uscì con passi pesanti dall’ufficio di Lou fumandosi un grande sigaro. “Vieni Jack, andiamocene da questo posto!” E fu così che lasciammo la Columbia. E anche quando ero in marina durante la guerra, nel 1942, lui arrivò e disse, davanti agli ammiragli: “Jack, hai ragione! I tedeschi non dovrebbero essere nostri nemici, ma nostri alleati. Il tempo lo dimostrerà”. E gli ammiragli basiti. Mio padre non prendeva merda da nessuno. Lui non aveva niente, a parte un panzone grosso così [e porta le broccia in avanti per gonfiare la pancia] e partiva, pum! [Kerouac si alza e fa una dimostrazione, spingendo la pancia infuori con forza prorompente ed esclama pum!]. Una volta stava passeggiando per strada con mia madre a braccetto, giù per Lower East Side. Ai vecchi tempi, sa, negli anni Quaranta. E incrociano un gruppo di rabbini che avanzano a braccetto... tatatatà... e non avrebbero mai fatto passare quel cristiano e sua moglie. Allora mio padre avanzò e pum! Atterrò uno dei rabbini. Dopodiché riprese il braccio di mia madre e proseguì.Ora, che le piaccia o meno, questa è la storia della mia famiglia. Loro non prendono merda da nessuno. Verrà il momento che neanche io prenderò merda da nessuno. Lo registri pure. E il mio bicchiere?»
La città e la metropoli l’ha scritto secondo i principi della composizione spontanea?
Jack Kerouac: «Una parte. Ne scrissi anche un’altra versione che è nascosta sotto le assi del pavimento, insieme a Burroughs».
Sì, ho sentito parlare di quel libro. Vogliono tutti metterci le mani sopra.
Jack Kerouac: «S’intitola E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche. Gli ippopotami. Perché una sera, io e Burroughs ce ne stavamo seduti al bar e sentimmo l’annunciatore che diceva:“...e così gli egiziani hanno attaccato bla-bla-bla... e nel frattempo è scoppiato un vasto incendio allo zoo di Londra e le fiamme si sono propagate nei recinti e gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche! Buona serata a tutti!”. Fu Bill a notare la cosa, lui notava sempre quel genere di cose».
È vero che ha battuto a macchina il manoscritto del Pasto nudo a Tangeri?
Jack Kerouac: «No... solo la prima parte, i primi due capitoli. Andavo a letto e facevo degli incubi... grandi e lunghe mortadelle che mi uscivano dalla bocca. Battere quel manoscritto mi dava gli incubi... dicevo, “Bill!”. Lui rispondeva, “Vai avanti con la battitura!”. E mi diceva: “Ti ho comprato una maledetta stufa al kerosene, qui nel Nordafrica!”. Fra gli arabi... è difficile trovare una stufa al kerosene. Accendevo la stufa, prendevo delle coperte e un po’ di erba, o kef come la chiamavamo laggiù... o magari dell’hashish... tra l’altro da quelle parti è legale... e mi mettevo lì, e tic-tic-tic-tic, e quando la sera me ne andavo a dormire, quelle cose continuavano a uscire dalla mia bocca. E poi, alla fine, arrivarono gli altri, Alan Ansen e Allen Ginsberg, e rovinarono l’intero manoscritto perché non lo ribatterono come lui lo aveva scritto».
La Grove Press ha fatto uscire i libri di Burroughs col marchio Olympia Press e tantissime modifiche e integrazioni.
Jack Kerouac: «Beh, secondo me Burroughs non ha portato niente di interessante ai nostri cuori infranti dopo il pasto nudo. Adesso fa solo quella roba “di rottura”... scrivere una pagina di prosa, poi scriverne un’altra... dopo la pieghi, la tagli e la ricomponi... e stronzate del genere...»
Però che ne pensa della Scimmia sulla schiena?
Jack Kerouac: «È un classico. È meglio di Hemingway, è allo stesso livello di Hemingway ma anche un tantino meglio. Bill dice: “Una sera Danny passa a casa mia e mi fa: ‘Ehi Bill, mi presti il tuo randello?’”. Il tuo randello — sa cos’è un randello?»
Un manganello?
Jack Kerouac: «È un manganello. Bill dice: “Ho aperto il cassetto e ho tirato fuori il manganello che avevo messo sotto le mie belle camicie. L’ho dato a Danny e gli ho detto: ‘Non perderlo, Danny!’, e lui mi ha risposto: ‘Non ti preoccupare, non lo perderò’. Se ne va e lo perde”. Randello... manganello... sono io. Randello... manganello».
Questo è un haiku: Randello, manganello, sono io. Farebbe meglio a scriverlo.
Jack Kerouac: «No».
Allora magari lo farò io. Le spiace se lo uso?
Jack Kerouac: «Sparati la Mobil su per il culo!»
Non crede nelle collaborazioni? Ne ha mai avute al di fuori dell’editoria?
Jack Kerouac: «Ne feci un paio a letto con Bill Cannastra, nei loft. Con delle bionde».
Era quel ragazzo che aveva cercato di buttarsi dalla metropolitana ad Astor Piace, nel romanzo Go di Holmes?
Jack Kerouac: «Sì. Lui mi fa: “Togliamoci i vestiti e facciamo il giro dell’isolato!”. Pioveva. Dalla Sedicesima Strada alla Settima Avenue.“Mi tengo i pantaloncini”, dissi io, e lui: “No, niente pantaloncini”. “Io mi tengo pantaloncini!”, gli ripetei. “Ok, però io me li tolgo.” E via di corsa, facemmo il giro dell’isolato. Dalla Sedicesima alla Diciassettesima... poi tornammo indietro e salimmo le scale, nessuno ci aveva visto».
Che ora era?
Jack Kerouac: «Ma lui era completamente nudo... saranno state le tre o le quattro del mattino. Pioveva. Ed era pieno di gente. Ballava sui vetri rotti e suonava Bach. Bill era il tipo che si metteva a camminare sul cornicione, dal sesto piano, si rende conto? E ci chiedeva: “Volete che mi butti?”. E noi:“No, Bill, no!”. Era italiano, sa com’è, gli italiani sono un po’ fuori di testa».
Scriveva? Cosa faceva?
Jack Kerouac: «Mi fa: “Jack, vieni con me e guarda un po’ dentro questo buco della serratura!”. Guardammo nel buco della serratura, vedemmo un sacco di cose... nel suo bagno. Gli dissi: “Bill, non mi interessa”. E lui: “A te non interessa un bei niente”. Il giorno dopo, nel pomeriggio, sarebbe arrivato Auden per i cocktail. Mi pare con Chester Kallman. Tennessee Williams».
C’era già Neal Cassady? Lo conosceva quando frequentava Bill Cannastra?
Jack Kerouac: «Oh, sì, sì, ehm... Era ben fornito di ottima erba. È sempre stato un gran fumatore».
Perché pensa che Neal non scriva?
Jack Kerouac: «Lui ha scritto... e magnificamente! Meglio di me. Neal è un tipo molto buffo, un vero californiano. Ce la siamo spassata più noi due insieme di cinquemila benzinai della Socony Gasoline Station. Per me è l’uomo più intelligente che abbia mai conosciuto. Neal Cassady. È gesuita, lo sa? Cantava in un coro. Era uno dei coristi delle chiese cattoliche di Denver. E mi insegnò tutto quello in cui credo su tutto quello che c’è da credere sulla divinità».
Su Edgar Cayce?
Jack Kerouac: «No, prima che scoprisse Edgar Cayce, mi raccontò tutte quelle cose nel periodo in cui era on the road con me. Mi chiese: “Noi conosciamo Dio, vero Jack?”. Io gli risposi: “Sissignore”. E lui: “Sappiamo che non accadrà niente di sbagliato, vero?”. “Sissignore.” “E noi andremo avanti e avanti... e uhmmm... ja-bmmmmmmm.” Era unico. E lo è ancora. Ogni volta che viene a trovarmi non riesco a infilare una sola parola».
Nelle Visioni di Cody ha scritto di Neal, che giocava a football.
Jack Kerouac: «Sì, era un grande giocatore. Una volta agganciò due beatnik in blue-jeans, a North Beach, Prisco. E disse: “Devo andare, bang bang, devo proprio andare?”. Lavorava alla ferrovia... guardò l’ora... “Due e un quarto, accidenti! Devo essere lì per le due e venti. Ragazzi, datemi uno strappo voi così riesco ad arrivare in tempo per prendere il mio treno per... così posso prendere il mio treno per — com’è che si chiama quel posto? — San Jose?” E loro, “Certo amico!”, e Neal dice: “Ecco l’erba”. E loro: “Beh, con la barba lunga potremmo anche passare per dei beatnik in piena regola... peccato che siamo poliziotti e tu sei in arresto!”. E poi un tipo del New York Post è andato alla prigione e l’ha intervistato: “Dica a Kerouac che, se crede ancora in me, mi mandi una macchina da scrivere”. E allora mandai ad Allen Ginsberg cento dollari perché gliela comprasse. E Neal ebbe la sua macchina da scrivere. E ci scrisse anche, solo che non gli permettevano di far uscire le sue annotazioni. Non so dove sia quella macchina da scrivere. Genet scrisse Notre-Dames-des-Fleurs rinchiuso in quel merdaio... in prigione. Jean Genet, quello era un grande scrittore! Continuò a scrivere e a scrivere fino a quando non arrivò al punto che per venire doveva scriverlo... al punto di venire a letto, in gattabuia. La gattabuia francese. Il carcere francese. La prigione. Ed era la fine del capitolo. A ogni capitolo c’è Genet che viene, cosa che devo riconoscere non sfuggì a Sartre».
Crede che quello sia un tipo diverso di scrittura spontanea?
Jack Kerouac: «Beh, potrei andare in prigione e scrivere ogni sera un capitolo su Magee, Magoo e Molly. È bello. Genet è veramente lo scrittore più sincero che abbiamo avuto da Kerouac e Burroughs, ma è venuto prima di noi, è più vecchio. A dire il vero ha la stessa età di Burroughs. Però non credo di essere stato disonesto. Cribbio, se me la sono passata bene! Perdio! Me ne andavo in giro per il paese libero come l’aria. Però Genet è uno scrittore straordinario, e molto tragico. Si meritano tanto di corona. E di alloro. Io non do certo la corona d’alloro a Richard Wilbur! O a Robert Lowell. La do a Jean Genet e a William Seward Burroughs. E ad Allen Ginsberg e Gregory Corso, in particolare».
Jack, cosa mi dice degli scritti di Poter Orlovsky?Le piacciono?
Jack Kerouac: «Peter Orlovsky è un idiota! Un idiota russo. Neanche russo, polacco».
Ha scritto delle belle poesie.
Jack Kerouac: «Oh sì! Certo... quali poesie?»
C’è una sua bella poesia che s’intitola “Second Poem”.
Jack Kerouac: «Mio fratello piscia nel letto... e io vado nella metropolitana e vedo due che si baciano...»
No, quella che dice: “È più creativo dipingere il pavimento che spazzarlo“.
Jack Kerouac: «Un mucchio di stronzate! È lo stesso tipo di poesia di un altro idiota polacco che era un polacco svitato detto Apollinaire. Sa, Apollinaire non è il suo vero nome. Qualcuno a San Francisco mi ha detto che Peter era un idiota, ma a me piacciono gli idioti, e mi piace la sua poesia. Ci pensi Berrigan. Ma per i miei gusti quello è Gregory. Me ne dia una».
Una di queste pillole?
Jack Kerouac: «Sì. Cosa sono? Clarinetti biforcuti?»
Si chiamano Obetrol. È stato Neal a parlarmene.
Jack Kerouac: «Anfetamine? Anfetamine? No, vitamine».
Aram Saroyan: «Cosa aveva scritto sulla quarta della Grove Anthology? Che lei lasciava il verso un po’ più lungo per riempirlo di immagini segrete che arrivavano alla fine della frase?»
Jack Kerouac: «Ecco un vero armeno! Sedimento. Delta. Fango. Quando cominci una poesia...
Un giorno, camminavo per la strada
e vidi un lago dove la gente mi tagliava il deretano,
17.000 preti a cantare come George Burns
e poi continui...
E mi prendo gioco di me stesso
e mi spacco le ossa nella terra
ed eccomi, sono il grande Giovanni l’Armeno
tornato alla terra
e poi ti ricordi dov’eri all’inizio e dici...
Ah ah! Tatatatà... maledetta Turchia!
Vede? Ti ricordi il verso alla fine... a metà ero partito perla tangente».
Aram Saroyan: «Chiaro».
Jack Kerouac: «Questo vale tanto per la prosa che per la poesia».
Ma nella prosa si racconta una storia...
Jack Kerouac: «Nella prosa si scrivono paragrafi. Ogni paragrafo è una poesia».
È così che lei scrive un paragrafo?
Jack Kerouac: «Stavo andando in città a piedi, e stavo per fare quella cosa là, e me ne stavo sdraiato lì, con quella ragazza laggiù, e un tipo ha tirato fuori le forbici e io l’ho portato là dentro, lui mi ha mostrato qualche foto lurida. E me ne sono uscito e sono caduto di sotto con i sacchi di patate».
Le è mai piaciuta l’opera di Gertrude Stein?
Jack Kerouac: «Non mi ha mai interessato granché. “Melanctha” mi piaceva abbastanza. Dovrei veramente andare a scuola e insegnare a quei ragazzi. Potrei farci duemila verdoni a settimana. Queste cose non s’imparano. E lo sa il perché? Perché devi esserci nato con dei padri tragici».
Lo puoi fare solo se sei nato nel New England.
Jack Kerouac: «Tra parentesi, mio padre ha detto che suo padre, William Saroyan, non era tragico».
Aram Saroyan: «Io non credo che mio padre sia tragico».
Jack Kerouac: «Mio padre mi disse che Saroyan, William Saroyan, non era per niente tragico... è solo una grande stronzata. E facemmo una gran litigata. Il trapezio volante e altri racconti è alquanto tragico, direi».
Aram Saroyan: «C’è da dire che era molto giovane all’epoca...»
Jack Kerouac: «Certo, ma aveva fame e stava a Times Square. Volante. Un giovane sul trapezio volante. Quella sì che era una bella storia! Mi faceva morire dal ridere quando ero bambino».
Si ricorda di un racconto di William Saroyan su quell’indiano che venne in città per comprarsi un auto e la fece guidare a un bambino?
Jack Kerouac: «Una Cadillac».
Che città era?
Aram Saroyan: «Fresno. Era Fresno».
Jack Kerouac: «Beh, ricordi quella notte in cui stavo dormendo di brutto e tu sei venuto alla finestra in groppa a un cavallo bianco...»
Aram Saroyan: «l’estate del bel cavallo bianco.»
Jack Kerouac: «E guardai fuori e dissi: “Cos’è?”. E tu rispondesti: “II mio nome è Aram. E sono in groppa a un cavallo bianco”».
Aram Saroyan: «Mourad».
Jack Kerouac: «Il mio nome è Mourad, scusa. No, il mio nome è... Io ero Aram, tu eri Mourad. Tu hai detto: “Sveglia!”. Io non volevo svegliarmi. Volevo dormire. “Il mio nome è Aram” è il titolo del libro. Tu hai rubato un cavallo bianco da una fattoria e mi hai svegliato, Aram, perché venissi a cavalcare con te».
Aram Saroyan: «Mourad era il pazzo che aveva rubato il cavallo».
Jack Kerouac: «Ehi, cos’è questa roba che mi ha dato?»
«Obetrol».
Jack Kerouac: «Oh, obi».
E cosa mi dice di influenze come il jazz e il be-bop invece di... Saroyan, Hemingway e Wolfe?
Jack Kerouac: «Sì, jazz e be-bop, nel senso di un tenore che fa un respiro profondo e soffia una frase nel suo sassofono fino a quando non gli resta più fiato, e a quel punto, la sua frase, la sua affermazione è stata fatta... Ecco dunque come divido le mie frasi, come pause nel respiro della mente... Formulai la teoria del respiro come misura, in prosa e in versi, indipendentemente da cosa dice Olson, Charles Olson, la formulai nel 1953 su richiesta di Burroughs e Ginsberg. E poi c’è il brio e la libertà e lo humour del jazz, invece di tutte quelle noiose analisi e frasi del tipo, James entrò nella stanza e si accese una sigaretta. Pensò che Jane avrebbe pensato che fosse un gesto troppo vago... Conosce la solfa. Quanto a Saroyan, sì, l’ho amato da ragazzo, lui è riuscito davvero a farmi uscire dallo schema ottocentesco che stavo cercando di studiare, e non solo con il suo piglio divertente ma anche con quella sua bella poetica armena, non saprei dire, mi conquistò e basta... Hemingway era affascinante, perle di parole sulla pagina bianca che ti restituivano un’immagine precisa... ma Wolfe era un torrente di quell’inferno e di quel paradiso americano che mi aprirono gli occhi sull’America come soggetto in sé e per sé».
E del cinema?
Jack Kerouac: «Sì, siamo stati tutti influenzati dal cinema. Malcom Cowley tra l’altro ne ha parlato diverse volte. Spesso riesce a essere molto sagace. Aveva notato che nel Dottor Sax la parola urina saltava fuori di continuo, ed è naturale dico io,perché l’ho dovuto scrivere seduto sul water di un piccolo gabinetto con le piastrelle, a Città del Messico, per scappare dagli ospiti che avevamo in casa. Per inciso, l’ho scritto in uno stile veramente allucinante, visto che ero perennemente fumato. Il gioco di parole non era voluto. Ah,ah, ah!»
In che modo lo zen ha influenzato il suo lavoro?
Jack Kerouac: «Ciò che ha davvero influenzato il mio lavoro è stato il buddismo mahāyāna, il buddismo originale di Gautama Śākyamuni, il Buddha, dell’antica India... Lo zen è ciò che rimane del suo buddismo, o Bodhi, dopo che arrivò in Cina e poi in Giappone. La parte di zen che ha influenzato la mia scrittura è quella contenuta negli haiku, come ho detto prima, quelle poesie di tre versi, diciassette sillabe, scritte centinaia di anni or sono da gente come Bashō, Issa, Shiki, e ci sono stati anche maestri recenti. Una frase breve e soave con un improvviso salto di pensiero è una specie di haiku; si prova un gran senso libertà e divertimento a lasciarsene sorprendere, a lasciare che la mente, volente o nolente, salti dal ramo all’uccello. Ma il mio vero buddismo, quello dell’antica India, ha influenzato quella parte di scrittura che si porrebbe definire religiosa, o fervente, o pia, almeno tanto quanto il cattolicesimo. Il buddismo originale si rifaceva a una costante, consapevole compassione, alla fratellanza, alla dana paramita (ovvero la perfezione della generosità), non calpestare un insetto, cose così, umiltà, mendicità, il volto dolce e triste del Buddha (che tra l’altro era di origine ariana, voglio dire della casta di guerriero persiano, e non orientale come viene dipinto)... Nel buddismo originale nessun bambino che arrivava al monastero si sentiva dire: “Qui li seppelliamo vivi”, ma veniva semplicemente incoraggiato dolcemente a meditare e a essere buono. L’inizio dello zen fu quando il Buddha riunì rutti i monaci per annunciare un sermone e scegliere il primo patriarca della chiesa mahāyāna: anziché parlare, lui alzò un fiore. Rimasero tutti a bocca aperta, tutti tranne Kāśyapīya, che sorrise. Kāśyapīya fu nominato primo patriarca. L’idea piacque ai cinesi, in particolare al sesto patriarca Huìnéng che disse: “In principio era il nulla”, e volle cancellare le tracce degli aforismi del Buddha conservati nei sutra – i sutra sono “i fili del discorso”. In un certo senso dunque, lo zen è una forma di eresia, benevola ma stramba, anche se devono esserci vecchi monaci veramente buoni, come sappiamo che ce ne sono anche di svitati. Io non sono mai stato in Giappone. Il vostro Maha Roshi Yoshi non è altro che un seguace di tutto questo, lui non ha fondato niente di nuovo. Alla trasmissione di Johnny Carson non ha neanche menzionato il Buddha. Forse il suo Buddha è Mia».
Come mai non ha scritto nulla su Gesù?L’ha fatto per il Buddha. Non era Gesù un grande anche lui?
Jack Kerouac: «Non ho mai scritto di Gesù? In altre parole, lei è un pazzo ciarlatano che ha bussato a casa mia... e... Tutto quello cheho scritto è Gesù! Io sono Everardo Mercuriano, generale dell’Esercito gesuita».
Qual è la differenza fra Gesù e Buddha?
Jack Kerouac: «È un ottima domanda. Non c’è differenza».
Non c’è differenza?
Jack Kerouac: «C’è solo differenza fra il Buddha originale dell’India e il Buddha del Vietnam che si taglia i capelli a zero e indossa una tunica gialla ed è un agente sovversivo comunista. Il Buddha originale non calpesterebbe mai l’erba appena spuntata per non rovinarla. Nacque a Gorakhpur, figlio del console delle orde di invasori persiani. Fu chiamato il Guerriero saggio. Aveva diciassettemila figliole che ballavano tutta la notte per lui, porgendogli fiori e dicendogli:“Vuole annusarli, mio Signore?”. E lui: “Levati dai piedi sgualdrina!”. Se n’è scopate parecchie, sa... Ma arrivato a trentun anni non ne poteva più... Suo padre lo stava proteggendo da quanto accadeva fuori città. Così partì a cavallo, contravvenendo agli ordini paterni, e vide una donna che stava morendo, un uomo bruciato su un ghat, e chiese: “Cos’è tutta questa morte e questa decadenza?”. Il servo gli rispose: “Ecco come stanno le cose. Vostro padre voleva tenervelo nascosto”. E lui dice: “Cosa? Mio padre? Sellami il cavallo! Conducimi nella foresta”. E cavalcano fino alla foresta. Al ché lui gli ordina: “Adesso togli la sella dal mio cavallo e appendila al tuo... prendi il mio cavallo per le briglie, torna al castello e dì a mio padre che non lo rivedrò più!”. E il servo Channa pianse e disse: “Non vi vedrò più!”. “Non mi importa! Vai! Sciò! Via!”
Rimase sette anni nella foresta. A battere i denti. Non succedeva niente. Si torturava a patire la fame. E pensò, continuerò a battere i denti fino a quando non troverò cosa provoca la morte. Poi, un giorno, mentre stava attraversando il fiume Rapti, svenne e cadde in acqua. Arrivò una fanciulla con una ciotola di latte e gli disse: “Mio signore, prenda una ciotola di latte”. [Slurppp] Lui la ringraziò: “Mi ha dato molta energia, grazie cara”. Dopodich é andò a sedersi sotto l’albero di Bodhi. Figuerosa, l’albero del fico. E disse: “Adesso... incrocerò le gambe [e mima la posizione]... e digrignerò i denti fino a quando non troverò qual è la causa della morte”. Alle due del mattino venne assalito da centomila fantasmi. Non si mosse. Alle tre, dai grandi fantasmi blu! Argh! Lo avvicinarono tutti (si vede che sono un vero scozzese). Alle quattro i diabolici maniaci dell’inferno... uscirono dalle botole... di New York. Ha presente Wall Street? Sa da dove esce il vapore? Wall Street? Dove dalle botole... esce fuori il vapore? Si alzano le botole, seehh! Alle sei del mattino era tutto tranquillo. Gli uccelli cominciarono a cinguettare, e lui esclamò: “Ahah! La causa della morte... la causa della morte è la nascita!”.
Semplice? Così cominciò a camminare lungo la strada che porta a Benares, in India... con i capelli lunghi come lei. Dunque, tre tipi. Uno dice: “Ehi, ecco che arriva il Buddha che, uh, è morto di fame con noi nella foresta. Quando si siede su quel secchio non lavargli i piedi”. Il Buddha si siede sul secchio. Il tipo corre a lavargli i piedi. “Per quale cagione gli lavate i piedi?”. E Buddha dice: “Perché vado a Benares per battere il tamburo della vita”. “E cosa significa?” “Che la causa della morte è la nascita!” “Cosa vuoi dire?” “Te lo mostrerò.”
Si avvicina una donna con un bambino morto fra le braccia che lo implora: “Riporta in vita il mio bambino se sei il Signore”. Lui le risponde: “Certo che lo farò. Tu mettiti alla ricerca di una famiglia di Śrāvastī che non abbia avuto lutti negli ultimi cinque anni. Fatti dare un seme di senape da loro e portamelo. Io riporterò in vita tuo figlio”. La donna girò tutta la città, due milioni di abitanti, Śrāvastī era più grande di Benares, e infine tornò da lui e gli riferì: “Non riesco a trovare la famiglia che dici. Tutti hanno avuto i loro morti negli ultimi cinque anni”. E lui:“Allora, seppellisci tuo figlio”. Poi, il suo invidioso cugino Devadatta (che è Ginsberg...io sono Buddha e Ginsberg è Devadatta), fa ubriacare quest’elefante... un enorme, gigantesco elefante ubriaco di whisky. L’elefante si alza [barrisce come un elefante che si alza] con una grande proboscide, e Buddha arriva sulla strada, vede l’elefante e si mette così [in ginocchio]. E l’elefante s’inginocchia. Sei sepolto dal fango del dolore! Non agitare la proboscide! Resta dove sei! È un ammaestratore di elefanti. Dopodiché Devadatta fa rotolare un grande masso giù da una rupe e per un pelo non colpisce la testa del Buddha. Poco ci manca. Bum! E lui commenta: “Di nuovo Devadatta”. Poi Buddha comincia a camminare [va avanti e indietro] davanti ai suoi ragazzi, vedete. Dietro di lui c’è suo cugino, quello che gli vuole bene... Ananda... che in sanscrito significa amore [e continua ad andare avanti e indietro). È così che ci si tiene in forma in prigione. Conosco parecchie storie sul Buddha, non so esattamente quali parole usò ogni volta, però so cosa disse al ragazzo che gli sputò addosso, gli disse: “Non potendo usare la tua offesa, puoi anche riprendertela”. Grandioso». [Kerouac suona il piano. Viene servito da bere.]
Aram Saroyan: «Però. Niente male».
La suonava sempre mia madre. Non so come faremo a riportare nella trascrizione queste note. Potremmo allegare un disco di lei che suona il piano. La suonerebbe di nuovo per il disco,Signor Paderewski? Conosce “Alouette”?
Jack Kerouac: «No, solo musica afro-germanica. Dopo tutto sono una testa quadra. Chissà che effetto farà il whisky con tutti quegli obi...»
E rituali e superstizioni ne ha, quando si mette al lavoro?.
Jack Kerouac: «Una volta avevo l’abitudine di accendere una candela, di scrivere al lume della fiamma e poi di spegnerla la sera, quando smettevo... E anche quello di inginocchiarmi a pregare prima di cominciare (un rituale che presi da un film francese su George Friedrich Händel) ... ma adesso odio scrivere. La mia superstizione? Ho iniziato a diffidare della luna piena. E sono anche fissato con il numero nove, anche se mi hanno detto che il numero del segno dei Pesci dovrebbe essere il sette; però cerco di fare nove piegamenti al giorno, nel senso che mi metto a testa in giù nel bagno, con la testa appoggiata su una pantofola, e tocco il pavimento con le dita dei piedi, per nove volte, restando in equilibrio. Tra l’altro questo è meglio dello yoga, è una prova atletica. Voglio dire, provi a darmi dello “squilibrato” dopo un esercizio come quello! Davvero, sento che la mia mente lavora. Poi un altro “rituale”, come lo chiama lei, è quello di pregare Gesù perché mi mantenga in salute ed energia, in modo da poter aiutare la mia famiglia: mia madre, che è paralizzata, e mia moglie, con tutti i gattini che abbiamo, che sono onnipresenti. Le basta?»
Lei ha scritto Sulla strada in tre settimane, I sotterranei in tre giorni e tre notti. Scrive ancora con questo ritmo straordinario? Può dire qualcosa della genesi di un libro, prima di mettersi a sedere e dare inizio a quell’incredibile battitura, quanto è già nella sua testa per esempio?
Jack Kerouac: «Pensi a cosa è successo, ne fai lunghi racconti agli amici, ci rimugini sopra, piano piano lo metti insieme, per cui quando viene il momento di pagare l’affitto mensile ti costringi a sederti davanti alla macchina da scrivere, o al taccuino degli appunti, e ti togli il pensiero prima che puoi... e non c’è niente di male in questo, perché così hai tutta la storia davanti. Ora, il come farlo dipende da che tipo di trappola d’acciaio hai in quella vecchia testolina. Sembrerà presuntuoso ma una volta una ragazza mi ha detto che il mio cervello era come una trappola d’acciaio, nel senso che l’avevo lasciata di stucco per averle riportato una frase che mi aveva detto un’ora prima, nonostante la nostra conversazione si fosse ormai allontanata un milione di anni luce da quell’argomento... Capisce cosa voglio dire? Un po’come la testa di un avvocato. È tutto nella mia testa, ovviamente, tranne il linguaggio utilizzato nel momento in cui viene utilizzato... E per tornare a Sulla strada e a I sotterranei, no, non riesco più a scrivere così rapidamente... Scrivere I sotterranei in tre notti è stata un’impresa atletica, oltre che mentale, davvero eccezionale, avreste dovuto vedermi dopo... ero bianco come un cencio, avevo perso sette chili e non mi riconoscevo allo specchio. Adesso, quando mi metto alla macchina da scrivere, nel cuore della notte, scrivo in media ottomila parole, e altrettante dopo circa una settimana, e nel frattempo mi riposo e sospiro. Davvero, detesto scrivere. Non ci provo gusto perché non posso alzarmi e dire che sto lavorando, chiudere la porta, farmi portare il caffè, e restarmene lì seduto come un “uomo di lettere” che fa le sue otto ore al giorno per andare così a rimpolpare il mondo della carta stampata con un mucchio di banalità, paroloni noiosi e autoimposti. Le sarà capitato di sentire un politico usare quindicimila parole per dire qualcosa che poteva essere detto in tre? Così evito il problema, per non rischiare di annoiarmi».
Aram Saroyan: «Di solito cerca di vedere tutto in modo limpido, chiaro, senza pensare alle parole, solo per vedere le cose nel modo più limpido possibile, e poi scriverne a partire dalle emozioni? Con Tristessa, per esempio».
Jack Kerouac: «Suona tanto come un seminario di scrittura dell’Università dell’Indiana».
Aram Saroyan: «Lo so, ma...».
Jack Kerouac: «Non ho fatto altro che soffrire con quella povera ragazza, e poi quando è caduta battendo la testa e si è quasi ammazzata... si ricorda quando è caduta battendo la testa? Era tutta pesta. Era l’India più giovane e bella che si fosse mai vista. E dico india, india doc. Esperanza Villanueva. Villanueva è un nome spagnolo, non so da dove venga... dalla Castiglia. Ma lei è india. Mezza india e mezza spagnola... una bellezza. Una bellezza assoluta. Era tutta ossa, solo ossa, pelle e ossa. E nel libro non ho scritto come alla fine me la sono scopata. Lo sapeva? Già, alla fine me la sono scopata. Lei mi fece:“Sssh! Il padrone di casa non deve sentire”. Mi disse: “Ricordati che sono molto debole e malata”. E io: “Lo so, sto scrivendo un libro su quanto sei debole e malata”».
Perché non l’ha messo nel libro?
Jack Kerouac: «Perché la moglie di Claude mi disse di non farlo. Disse che avrebbe rovinato il libro. Ma non fu una conquista. Era fuori come un cammello. Sotto l’effetto della M. M sta per morfina. Tanto che avevo attraversato di corsa tutta la città per lei, fino alle bidonville... e gliela portai: “Ecco la tua roba”. Lei mi fece “Sssh!”. Se la iniettò e io dissi, “Ahh... adesso”. E ho combinato la mia piccola malefatta. Però... ero giustificato, stavo in Messico!».
Stella: «Vieni micio! È uscito di nuovo».
Jack Kerouac: «Era bella, le sarebbe piaciuta. Il suo vero nome era Esperanza. Sa cosa significa?».
No.
Jack Kerouac: «In spagnolo significa “speranza”. Trìstessa in spagnolo significa “tristezza”, ma il suo vero nome era Speranza. E adesso è sposata con il capo della polizia di Città del Messico».
Stella: «Non esattamente».
Jack Kerouac: «Beh, tu non sei Esperanza, te lo posso assicurare».
Stella: «No, questo lo so, caro».
Jack Kerouac: «Lei era magrissima... e timida... come una gallinella d’acqua».
Stella: «Si è sposata un luogotenente, non il capo della polizia. Sei stato tu a dirmelo».
Jack Kerouac: «Esperanza sta bene. Un giorno di questi la rivedrò».
Stella: «Dovrai passare sul mio cadavere».
Stava veramente scrivendo Tristessa quando era in Messico?Non l’ha scritto dopo?
Jack Kerouac: «La prima parte l’ho scritta in Messico, la seconda... in Messico. Proprio così. Nel ’55 la prima parte, nel ’56 la seconda. Che importanza ha? Non sono mica Charles Olson, il grande artista!».
È solo per ricostruire i fatti.
Jack Kerouac: «Charles Olson le darà tutte le date, sa. Su come ha trovato il bracco sulla spiaggia di Gloucester. Ha visto uno che si faceva una sega sulla spiaggia a... come si chiama? Vancouver Beach? Dig Dog River? ...Dogtown. Ecco, trovato,“Dogtown”. Beh, questa è Shittown sul Merrimack. Lowell viene chiamata “la città di merda sul Merrimack”. Non ho intenzione di scrivere una poesia intitolata “Shittown” e insultare la mia città. Ma se fossi alto due metri potrei scrivere qualsiasi cosa, giusto?».
Come va adesso con gli altri scrittori? Vi scrivete?
Jack Kerouac: «Mi scrivo con John Clellon Holmes, ma sempre meno ogni anno che passa. Sto diventando pigro. Non riesco a rispondere alle lettere dei miei fan perché non ho una segretaria alla quale dettare e far battere a macchina quello che vorrei, che va a comprare i francobolli, le buste e tutto quanto... e poi non ho niente da rispondere. Non voglio passare il resto della mia vita fra sorrisi e strette di mano e scambi di banalità come un candidato in politica, perché sono uno scrittore, la mia mente ha bisogno di solitudine,come Greta Garbo. Però quando esco o ricevo visite inaspettate, ci divertiamo tutti come dei matti!».
Chi sono i predoni del lavoro?
Jack Kerouac: «I predoni del lavoro, dice? I predoni del tempo, forse? Direi soprattutto le attenzioni che vengono riservate a un autore di “successo” (noti bene che non ho detto “famoso”) da parte di aspiranti scrittori segretamente ambiziosi e che rivengono intorno, o ti scrivono o ti telefonano, in cerca di favori che invece spetterebbero a un agente letterario della malora. Quando ero un giovane autore sconosciuto in cerca di editore, come si dice, ho lasciato il solco a furia di sgambettare su e giù per Madison Avenue, per anni, editore dopo editore, agente dopo agente, e non ho mai scritto una lettera a un autore famoso per chiedergli consiglio, o aiuto, o il cielo sa cosa, non ho mai avuto la faccia tosta di spedire i miei manoscritti a qualche povero scrittore che poi avrebbe dovuto precipitarsi a rispedirmelo per non essere accusato di plagio. Il consiglio che do ai giovani scrittori è di trovarsi un agente, magari tramite i loro professori dell’università (come me che ho trovato i miei primi editori grazie al professore Mark Van Doren), e di farsi le loro sgambettate o la classica trafila dell’esordiente... A impedirmi di lavorare non sono altro che certe persone. A difendere il mio lavoro sono le solitudini notturne,“quando dormono tutti”».
Qual è il luogo e il momento che preferisce per scrivere?
Jack Kerouac: «La scrivania in camera, vicino al letto, con una buona lampada, da mezzanotte all’alba, qualcosa da bere quando comincio a sentirmi stanco, di preferenza a casa, ma se non sono a casa, anche una camera d’albergo o di un motel può diventarlo. Pace. [Prende l’armonica e suona.] Caspita, posso suonare!».
E come scrivere sotto l’effetto di droghe?
Jack Kerouac: «La poesia 230 di Mexico City Blues è stata scritta sotto morfina. Ogni verso di quella poesia è stato scritto a un’ora di distanza l’uno dall’altro... sotto una dose massiccia di morfina. [Trova il libro e legge.]
L’amore è un ossario affollato di decadenza,
Un’ora dopo:
Il latte versato degli eroi,
Un’ora dopo:Distruzione di fazzoletti di seta provocata da tempeste di sabbia,
Un’ora dopo: Carezza di eroi bendati ai pali,
Un’ora dopo:Vittime di omicidi ammesse a questa vita,
Un’ora dopo:Scheletri che si scambiano dita e giunture,
Un’ora dopo:La carne tremula degli elefanti della gentilezza dilaniata dagli avvoltoi, (Capisce dove Ginsberg ha preso da me?)
Un’ora dopo:Concezioni di rotule delicate.
Lo ripeta, Saroyan».
Aram Saroyan: «Concezioni di rotule delicate».
Jack Kerouac: «Molto bene.
Paura di topi che trasudano batteri.
Un’ora dopo:
Fredda Speranza del Golgota per la Speranza d’oro.
Ripeta».
Aram Saroyan: «Fredda Speranza del Golgota per la Speranza d’oro».
Jack Kerouac: «Un po’ freddino. Un’ora dopo:
Foglie d’autunno umide contro il legno delle barche,
Un’ora dopo:
Delicate immagini collose di cavallucci marini.
Ha mai visto un cavalluccio marino nell’oceano? Sono fatti di colla... Mai sniffato un cavalluccio marino? No, lo ripeta».
Aram Saroyan: «Delicate immagini collose di cavallucci marini».
Jack Keronac: «Prego, Saroyan».
Morte da lunga esposizione alla contaminazione».
Aram Saroyan: «Morte da lunga esposizione alla contaminazione».
Jack Kerouac: «Misteriosi esseri affascinanti spaventosi che nascondono il loro sesso».
Aram Saroyan: «Misteriosi esseri affascinanti spaventosi che nascondono il loro sesso».
Jack Kerouac: «Microscopici pezzi di materia di Buddha congelati e affettati negli obitori del Nord».
Aram Saroyan: «Ehi, questo non lo posso dire. Microscopici pezzi di materia di Buddha congelati e affettati negli obitori del Nord».
Jack Kerouac: «Mele peni che stanno per guastarsi».
Aram Saroyan: «Mele peni che stanno per guastarsi».
Jack Kerouac: «Gole recise più numerose di granelli di sabbia».
Aram Saroyan: «Gole recise più numerose di granelli di sabbia».
Jack Kerouac: «Come baciare il mio gattino sulla pancia».
Aram Saroyan: «Come baciare il mio gattino sulla pancia».
Jack Kerouac: «La dolcezza della nostra ricompensa».
Aram Saroyan: «La dolcezza della nostra ricompensa».
Jack Kerouac: «È veramente il figlio di William Saroyan? Straordinario! Le dispiacerebbe ripetere?»
Avremmo parecchie domande importanti da farle, domande dirette intendo. Quando ha conosciuto Allen Ginsberg!
Jack Kerouac: «Prima ho conosciuto Claude. Poi Allen e dopo Burroughs. Claude entrò dalla scala antincendio... Udimmo degli spari giù nel vialetto — pum pum — e stava piovendo, e mia moglie dice: “Arriva Claude”. Ed ecco che dalla scala antincendio spunta questo ragazzo biondo, bagnato fradicio. Io domandai: “Cosa sta succedendo, che diavolo succede?”. E lui: “Mi stanno inseguendo”. Il giorno dopo entra Allen Ginsberg con dei libri in mano. Sedici anni e certe orecchie a sventola. Dice: “La discrezione è la virtù migliore!”. E io: “Taci razza di isterico!”. Poi il giorno dopo arriva Burroughs con un abito di seersucker, accompagnato da quell’altro ragazzo».
Quale altro ragazzo?
Jack Kerouac: «Il ragazzo che finì dentro il fiume. Quello di New Orleans che Claude uccise e gettò nel fiume. Dodici pugnalate al cuore con un coltello da boyscout. Quando Claude aveva quattordici anni era il biondo più bello di tutta New Orleans. Ed entrò negli scout... e il capo degli scout era una checca con i capelli rossi che aveva studiato all’Università di Saint Louis, se non ricordo male. A Parigi si era già innamorato di un ragazzo identico a Claude. E questo tizio si mise a tallonare Claude per tutto il paese; lo fece cacciare da Baldwin, Tulane e Andover... È una storia di gay, ma Claude non era gay».
E cosa mi dice dell’influenza di Ginsberg e Burroughs? Si è mai reso conto del segno che poi voi tre avreste lasciato nella letteratura americana?
Jack Kerouac: «Ero determinato, volevo diventare un “grande scrittore”, fra virgolette, come Thomas Wolfe... Allen non faceva altro che leggere e scrivere poesie... Burroughs leggeva molto e se ne andava in giro a osservare il mondo. Sull’influenza che esercitammo gli uni sugli altri sono stati versati fiumi di inchiostro... noi non eravamo altro che personaggi curiosi, in una metropoli interessante come New York, in giro per campus, biblioteche, caffetterie. Molti particolari si possono ritrovare in Vanità... in Sulla strada, dove Burroughs è Bull Lee e Ginsberg è Carlo Marx, e nei Sotterranei, dove sono rispettivamente Frank Carmody e Adam Moorad. In altre parole, senza volerle sembrare scortese, sono talmente occupato a intervistarmi nei miei romanzi, e sono stato così occupato a scrivere quelle auto interviste, che non vedo perché avrei dovuto sforzarmi ogni anno, negli ultimi dieci, a ripetere fino allo sfinimento a tutti i miei intervistatori (centinaia di giornalisti, migliaia di studenti) quanto ho già spiegato nei miei libri. E già tutto lì. E poi non è così importante. È il nostro lavoro che conta— se può contare qualcosa — e non vado troppo fiero del mio, o del loro, o di quello di chiunque altro da Thoreau ad altri come lui, forse perché è un territorio ancora troppo familiare per essere rassicurante. La notorietà e la confessione pubblica in letteratura sono logoranti per il cuore con cui siamo nati, mi creda».
Allen una volta ha eletto di aver imparato a leggere Shakespeare, che non lo aveva mai capito, finché non glielo ha letto lei.
Jack Kerouac: «Perché ecco chi ero in una vita precedente!
Come un inverno è stata la mia assenza
da te, delizia dell’anno fuggente:
che geli ho patito, che giorni bui ho visto!
Eppure l’estate, con la sua provvidenziale tregua, ha portato un grosso stronzo nel mio frutteto.
E uno dopo l’altro i maiali vengono a cibarsi
e rompono la mia trappola di montagna rotta,
e anche la mia trappola per topi!
E qui per chiudere il sonetto, ci vuole un bei tara-tatara-tatà!».
È una composizione improvvisata?
Jack Kerouac: «Beh, la prima parte era Shakespeare... e la seconda...».
Ha mai scritto sonetti?
Jack Kerouac: «Le regalerò un sonetto improvvisato. Quanto deve essere lungo?»
Quattordici versi.
Jack Kerouac: «Ecco i dodici versi più due versi strascicati. È lì che si tira fuori l’artiglieria pesante.
Qui il pesce di Scozia ha visto il tuo occhio
e tutte le mie reti si sono rotte...
Deve essere in rima?».
No.
Jack Kerouac: «Le mie povere mani screpolate sono dolenti e hanno visto il Papa, i suoi occhi diabolici. E i fanatici con i capelli scompigliati che mi girano per la stanza e ascoltano la mia tomba che non fa rima
Sette versi?».
Questo era di otto.
Jack Kerouac: «E tutti gli orgoni della terra strisceranno come cani sulle tombe del Perù e anche di Scozia.
E sono dieci.
Ma non preoccuparti, angelo mio che mi porto dentro la tua eredità».
Notevole Jack. Come ha fatto?
Jack Kerouac: «Senza aver studiato i dattili... come Ginsberg... Ho conosciuto Ginsberg... facevo l’autostop per tornare a Berkeley da Città del Messico, una bella distanza, caro mio, bella lunga. Città del Messico, Durango, Chihuahua, Texas. Ma per tornare a Ginsberg, arrivo a questo cottage e dico: “Ehi, noi vogliamo suonare”. E lui: “Sai che cosa faccio domani? Lancerò sulla cattedra di Mark Schorer una nuova teoria di prosodia! Sulle combinazioni dattiliche di Ovidio!”. [Risata.]Gli dissi: “Falla finita. Vieni a sederti sotto un albero e dimenticatene, vieni a bere del vino con me... e Phil Whalen e Gary Snyder e tutti i vagabondi di San Francisco. Non provare a fare il professorone di Berkeley! Sii solo un poeta sotto gli alberi... e faremo la lotta e romperemo le regole”. E lui seguì il mio consiglio. Se lo ricordò. Disse:“Cosa insegnerai... hai le labbra secche!”. E io: “Per forza, sono appena arrivato da Chihuahua! Fa molto caldo laggiù, puah! Tu esci e i maialini ti si sfregano contro le gambe. Puah!”. E poi arriva Snyder con una bottiglia di vino... e poi Whalen, e poi, come si chiama? Rexroth, e tutti quanti e avevamo il rinascimento della poesia di San Francisco al completo».
E cosa mi dice di Allen sbattuto fuori dalla Columbia? Lei c’entrava qualcosa?
Jack Kerouac: «Oh no... mi fece dormire in camera sua. Ma non fu mandato via per quello. La prima volta che mi fece dormire incamera sua, — l’altro ragazzo che dormiva con noi era Lancaster, un discendente dei White Roses o Red Roses di Inghilterra — arrivò un tizio... il tizio che controllava il piano e pensò che stavo cercando di farmi Allen, e Allen aveva già scritto su un foglio che non dormivo lì perché stavo cercando di farmelo, ma che era lui che ci stava provando con me. Ma di fatto stavamo proprio dormendo. Poi dopo lo ripulirono... gli rubarono delle cose, vennero i ladri ed erano Vicky e Huncke. E furono beccati, e si sentì un’auto che si allontanava, e Allen si ruppe gli occhiali. È tutto descritto in Go di John Holmes.
Quando aveva diciannove anni Allen Ginsberg mi domandò: “Dovrei cambiarmi il nome in Allen Renard?”. “Se tu ti cambi il nome in Allen Renard ti prendo a calci nelle palle! Tieniti il tuo Ginsberg”, gli risposi. E così fece. Ecco una cosa che mi piace di Allen. Allen Renard!».
Cose che vi ha tenuto insieme negli anni Cinquanta? Cos’è che ha unito la Beat Generation?
Jack Kerouac: «Oh, Beat Generation era soltanto un’espressione che utilizzai nel manoscritto di Sulla Strada del 1951 per descrivere tipi come Moriarty che se ne andavano in giro per il paese in auto, in cerca di strani lavori, ragazze, divertimento. Poi i gruppi di sinistra della West Coast se ne sono appropriati cambiandone il significato in “ammutinamento Beat” e “insurrezione Beat” e tutte quelle sciocchezze. Non aspettavano altro che un movimento giovanile abboccasse per poter perseguire i loro scopi politici e sociali. Io non avevo niente a che vedere con loro. Ero un giocatore di football, un universitario, un marinaio mercantile, un frenatore di treni merci, uno che scriveva sinossi di sceneggiature, un segretario... E Moriarty-Cassady era un vero cowboy al ranch di Dave Uhl, a New Raymer, Colorado... Che tipo di beatnik è questo?».
C’era un senso della comunità fra il popolo beat?
Jack Kerouac: «Quel senso della comunità fu ispirato soprattutto dagli stessi personaggi che ho nominato, come Ferlinghetti, Ginsberg, socialisti convinti, vogliono che viviamo tutti in una specie di frenetico kibbutz, nella solidarietà e tutta quella roba là. Io ero un solitario. Snyder non è come Whalen, Whalen non è come McClure, io non sono come McClure, McClure non è come Ferlinghetti, Ginsberg non è come Ferlinghetti, eppure insieme ce la siamo spassata a bere vino. Conoscevamo migliaia di poeti e pittori e musicisti jazz. Non esiste un “popolo beat” come ha detto lei...Che ne dice di Scott Fitzgeraid e del suo “popolo perduto”? Le suona bene? O di Goethe e del suo “popolo Wilhelm Meister”? È un argomento talmente noioso. Mi allunghi il bicchiere».
Perché all’inizio degli anni Sessanta si sono divisi?
Jack Kerouac: «Ginsberg cominciò a interessarsi alla politica di estrema sinistra... Come Joyce, dico io, come Joyce disse a Ezra Pound negli anni Venti: “Non scocciarmi con la politica, l’unica cosa che mi interessa è lo stile”. Tra l’altro sono stufo della nuova avanguardia e del sensazionalismo a fuochi d’artificio. Sto leggendo Blaise Pascal e prendo appunti sulla religione. Adesso mi piace andare in giro con i non-intellettuali come si potrebbero definire, e non ho nessuna intenzione di farmi convenire la mente all’infinito! Hanno persino iniziato a crocifiggere le galline agli happening, quale sarà il prossimo passo? La crocifissione di un uomo? Il gruppo Beat si è disperso, come dice lei, all’inizio degli anni Sessanta, ognuno prese la propria strada, e questa è la mia: vita casalinga, come al principio, con una capatina ogni tanto nei bar della zona».
Pensa mai a cosa stanno facendo adesso? Al radicale coinvolgimento politico di Allen?Ai taglia e cuci di Burroughs?
Jack Kerouac: «Sono filoamericano e l’estremismo politico sembra tendere verso un’altra direzione... Questo paese ha dato alla mia famiglia canadese una bella opportunità, diciamo così, e non abbiamo motivo di svilirlo. Quanto ai taglia-e-cuci di Burroughs, mi piacerebbe che tornasse a quelle sue storie stradivertenti e ai siparietti cosi meravigliosamente caustici del Pasto nudo. Il taglia-e-cuci non è niente di nuovo, tanto che il mio cervello, con la sua trappola d’acciaio, di taglia-e-cuci ne fa parecchi mentre lavora... come la mente di chiunque quando parla o pensa o scrive... non è nient’altro che un vecchio trucco dadaista, una specie di collage letterario. Ma lui può produrre grandi cose. Mi piace quando è elegante e logico, ecco perché non mi piace il taglia-e-cuci fatto per dirci che la mente è andata. La mente è andata, sicuramente, come può vedere chiunque quando è completamente fatto, ma perché non dare una spiegazione del suo deterioramento che possa essere compresa in un momento normale?».
Cosa pensa degli hippie e del mondo dell’LSD?
Jack Kerouac: «Stanno già cambiando, non posso esprimere giudizi. E non tutti la pensano allo stesso modo. I Digger sono diversi. Di hippie, comunque, non ne conosco... devono prendermi per un camionista. E lo sono. Quanto all’LSD fa male a chi ha patologie cardiache in famiglia [fa cadere il microfono dal suo piedistallo... lo rimette a posto].C’è una ragione per cui si possa vedere qualcosa di buono in tutta questa mortalità?».
Scusi, può ripetere?
Jack Kerouac: «Lei ha detto che aveva una piccola barba bianca nella pancia. Perché ha una piccola barba bianca nella sua pancia mortale?».
Mi faccia pensare. A dire il vero è una piccola pillola bianca.
Jack Kerouac: «Una piccola pillola bianca?».
È buona.
Jack Kerouac: «Me ne dia una».
Meglio aspettare un attimo che si calmino le acque.
Jack Kerouac: «Giusto. Questa pilloletta è una piccola barba bianca nella sua mortalità che la avvisa e la avverte che le cresceranno delle unghie lunghissime nelle tombe del Perù».
Si sente un uomo di mezza, età?
Jack Kerouac: «No. Senta, stiamo arrivando alla fine del nastro. Vorrei aggiungere una cosa. Mi chieda di nuovo cosa significa Kerouac».
Jack, mi dica di nuovo cosa significa Kerouac.
Jack Kerouac: «Vediamo, kairn. K (o C) A—I—R—N. Che cos’è un cairn? È un mucchio di pietre. E ora Cornwall, cairn—wall, muro di pietre, Cornovaglia. Poi giusto, kern, anche K—E—R—N ha lo stesso significato di cairn. Kern. Cairn. Ouac significa “lingua di”. Così Kerouac vuol dire “la lingua di Cornwall”, di Cornovaglia. Kerr, come Deborah Kerr. Ouack significa lingua d’acqua. Perché Kerr, Carr, eccetera significano acqua. E cairn significa mucchio di pietre. Non c’è lingua in un mucchio di pietre. Kerouac. Ker— (acqua), —ouac (lingua di). Ed è legato al vecchio nome irlandese Kerwick, che è una corruzione. Ed è un nome della Cornovaglia che significa “di Cairnish”. E secondo Sherlock Holmes sarebbe persiano. Ovviamente lei sa perfettamente che non è persiano. Non si ricorda Sherlock Holmes quando arrivò con Watson e risolse quel caso nella vecchia Cornovaglia, e risolse il caso e disse: “Watson, l’ago! Watson l’ago...”. Disse: “Ho risolto questo caso in Cornovaglia. Adesso ho la libertà di sedermi qui e decidere e leggere libri, cosa che mi dimostrerà... perché la gente della Cornovaglia, altrimenti nota come i Kernuacks, o Kerouacs, è di origini persiane. L’impresa che sto per intraprendere”, continuò dopo che si fece l’iniezione, “è irta di grandi pericoli e non è adatta a una signora della sua tenera età”. Se lo ricorda?».
McNaughton: «Me lo ricordo».
Jack Kerouac: «McNaughton se lo ricorda».
McNaughton: «Crede che dimenticherei il nome di uno scozzese?»
Numero 43, 1968
Jack Kerouac (1922—1969) è nato con il nome di Jean Louis Kerouac, a Lowell, Massachusetts, da una famiglia franco-canadese. Cominciò a parlare inglese solo verso i sei anni. Studiò alla Columbia ma abbandonò il corso prima di laurearsi, si arruolò in marina e poi ritornò a New York dove fece amicizia con un folto gruppo di scrittori che divenne poi noto con il nome di Beat Generation. Il suo primo romanzo, La città e la metropoli, fu pubblicato nel 1950. Kerouac passò gran parte degli anni Cinquanta a scrivere e a viaggiare, esperienze che confluirono nel romanzo Sulla strada (1957) e in altri suoi libri. Si trasferì a San Francisco dove si buttò a capofitto nello studio del buddismo zen che ispirò Vagabondi del Dharma (1958). Il suo ultimo libro Vanità di Duluoz (1968) è un romanzo autobiografico ambientato nella città natale. Ted Berrigan (1934—1983) è stato un poeta della New York School, ha scritto numerosi libri di poesia oltre a una raccolta di interviste, diversi saggi sull’arte e un romanzo. The Collected Poems of Ted Berrigan è stato pubblicato di recente dalla University of Califonia Press, e nel 2011 è uscito Selected Poems of Ted Berrigan.