Paolo Sorrentino, D Repubblica 18/5/2013, 18 maggio 2013
COME SEI BELLA ROMA
Contro il parere di chiunque, mi misi in testa di fare il cinema e cominciai ad accumulare puntate sempre più frequenti a Roma. Avevo diciannove anni.
Un giorno entrai in un famoso bar di Prati e presi a spiare un modesto funzionario della tv che millantava con una sontuosa, gelida ragazza dell’Est, entrature e conoscenze assai importanti che avrebbero garantito alla giovane un radiosissimo futuro in tutti i palinsesti per i successivi quarant’anni. Cercava di corromperla a forza di gelatinate tartine al salmone che lei non toccava per non sporcare i denti immacolati. Lui, invece, fagocitava le celebri tartine e si accoccolava attorno alla beltà con un atteggiamento che pendolava ritmicamente tra la strategia consolidata e la speranza taumaturgica. Intanto, aveva finito tutte le tartine e, con la mano, si tastava ansiosamente la tasca della giacca. Pensavo: sta controllando se ha dimenticato il portafogli o le sigarette. Feci una leggera circumnavigazione, per guardare meglio quella tasca e avere delle conferme, quando, invece, vidi qualcosa di significativamente diverso. Dalla tasca della giacca spuntavano uno spazzolino e un dentifricio. La miserabile, immortale premeditazione di certi uomini italiani. Un’altra, ennesima declinazione di quello squallore lieve, patetico, da eterni vacanzieri che è stato l’humus dominante dell’ispirazione del grande cinema nostrano.
Penso che sia nata quel giorno, inconsciamente, l’idea di fare non un film su Roma, ma un film che la comprendesse. Da quella volta sono trascorsi più di vent’anni. Con grandissimo stupore, uno stupore che non mi abbandona in nessun giorno, il cinema poi l’ho fatto davvero.
Negli anni successivi, a Roma venivo per lavorarci, erano terminate le lunghissime giornate trascorse a osservare, a non far niente, a perdersi nelle polverose librerie religiose intorno al Vaticano. L’osservazione del grande, misterioso universo gravitante intorno al Vaticano, era un’altra delle mie passioni. In seguito, sono venuto a viverci, a Roma. Però è una città che non conosco per davvero. Anzi, è una città che non voglio conoscere in profondità, perché come tutte le cose che si comprendono a fondo, il rischio della delusione è sempre in agguato. Dunque, mi limito a intuirla, a trapassarla tutti i giorni come un turista senza biglietto di ritorno, e sono contento così. Faccio finta di non sentire tutte le critiche che, incessantemente, i suoi abitanti le muovono. Mi sforzo di non credere alle furibonde invettive degli altri contro la pochezza, l’inefficienza, il pressappochismo, la povertà culturale e morale di questa capitale. Vigliaccamente, mi tappo le orecchie. Perché non voglio che mi rovinino il sogno. E allora preferisco concentrarmi sulla dolcezza di certi tramonti che sfiancano gli occhi, su un’inspiegabile, sospesa mitezza del clima e dello stato d’animo che solo Roma ti consente, sulle lente passeggiate senza meta che ti promettono sempre di condurti in luoghi inediti e irripetibili. E a volte mantengono le promesse. Il più grande luogo di villeggiatura del mondo. Questo per me è Roma.
Le lagne disfattiste, i lamentosi, le persone aduse al mugugno, tutta una costellazione di esseri umani che non fa altro che paragonare Roma con Londra, Parigi e New York e vederla eternamente sconfitta. Mai una volta che si ricordino di confrontarla, che so, con certe grigie capitali industriali e scorgerla vittoriosa. Ma ho il sospetto costante che tenere viva, a mo’ di chiacchiericcio salottiero, la pars destruens delle cose, sia un’attività facilona e redditizia. Si rischia anche di passare per intellettuali inesorabili e spregiudicati. A me questo ruolo non è mai piaciuto. Ho sempre frequentato un piccolo, pudico pensiero: che a vedere il male dovunque si rischia di diventare davvero qualcosa che ha a che fare col male, o quantomeno di diventare, agli occhi di noi stessi, inospitali. Insomma, mi sono accanito giorno e notte a fare film non per puntare facilmente il dito contro ciò che non va, ma l’ho fatto per cercare la bellezza e il sentimento dappertutto. Anche nelle cose che, nell’opinione dominante, non vanno bene. A Roma c’è una bellezza oggettiva, sta nelle cose, nelle architetture, nella visibile stratificazione dei secoli, e poi c’è una bellezza nascosta, talora invisibile. Quest’ultima, sosta nelle persone. Ci vuole una certa pazienza per scovarla. Alle volte, la pazienza non è sufficiente, allora vengono in soccorso la fantasia, l’invenzione, l’immaginazione. Questa trasfigurazione non significa tradire la verità, ma solo riproiettarla sotto una luce di bellezza recondita e inedita. In aiuto, arrivano puntuali le parole che Fellini un giorno disse a Mario Verdone (critico, ndr): «Il cinema-verità? Sono piuttosto per il cinema-falsità. La menzogna è l’animo dello spettacolo. Ciò che deve essere autentico è l’emozione che si prova nel vedere e nell’esprimere».
Il cinema, attraverso la fantasia, organizza quel “meraviglioso” che nella vita, molto spesso, si presenta smembrato, ferito, frantumato in tanti piccoli frammenti, che appaiono semplicemente brutti e inutili.
La struttura di una scena, in un film, non tradisce la verità della bellezza, ma, appunto strutturandola, restituisce una forza data dall’unità che, altrimenti, nella vita non si riesce a rintracciare.
Poi, sbirciando nelle parole su Roma di certi uomini che ammiro enormemente, inciampo in Moravia che diceva che a Roma si tenta di far passare per senso dell’eternità una certa atonia morale. O in Flaiano che diceva che vivere a Roma è un modo di perdere la vita. E in Soldati che scrisse che Roma, per ovvie ragioni, meglio di tutti gli altri luoghi della terra, comunica il senso dell’eternità, che poi è solo il senso del nulla. Questi, chiamiamoli “pessimismi massimalisti”, hanno fatto vacillare il mio ingenuo attaccamento al sogno e all’idea della grande villeggiatura, che poi avevo mutuato alla buona, a mio mero vantaggio, dal genio di La Capria.
Le parole di Moravia, Flaiano e Soldati mi sono apparse feroci e tragiche; e, soprattutto, vere. Pensieri diversi che mi sono sembrati confluire dentro una radice comune: la fatica di vivere. Il pericoloso sentimento del nulla, la sensazione di un incommensurabile spreco, una continua dissipazione, la costante indifferenza che appiattisce e rende moribondo qualsiasi slancio, finanche le intenzioni più pie e disinteressate.
A Roma tutto termina velocemente, senza tregua, in una sorta di grandissima discarica della quale non si conosce neanche l’indirizzo. Niente viene trattenuto. Niente diventa decisivo. Tutti arrivano a Roma per parlare e non trovano nessuno disposto ad ascoltare. Questa malvagia dinamica, infine, determina la cattiveria e l’assenza di tenerezza. E la mondanità si rivela un inganno mondano.
In mezzo a queste lancinanti sensazioni, si vive a Roma. Per questa ragione, fare un film che comprende Roma non può non essere un film su qualcuno che aggancia queste difficoltà, che le combatte o le incoraggia a seconda delle circostanze, e degli sforzi che è disposto a fare. È ciò che fa il protagonista di questo film: Jep Gambardella (Toni Servillo). Mentre trascorre il tempo tra i monumenti più belli e le contraffatte serate mondane, tra i drink che restituiscono una socialità stantia e gli stanchi, sbiaditi tentativi letterari, forse destinati a ritrovare un filo conduttore delle cose, in mezzo al sesso per abitudine e alla sensazione di attraversare l’esistenza come se fosse immerso in una perenne villeggiatura, prende corpo, dentro la rappresentazione dello spreco e del nulla, quella che appunto si può rintracciare come l’inaudita fatica di vivere.
Allora, a questo punto, ci si potrebbe domandare: cos’è la “grande bellezza” del titolo? Sarebbe troppo facile e tentatore rispondere Roma. Forse, invece, in ultima analisi, la grande bellezza è esattamente questa gigantesca fatica di vivere che a Roma sembra così occulta, sdrucciolevole e insidiosa, proprio perché, alle volte, la vita qui appare per nulla faticosa.