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 2013  maggio 20 Lunedì calendario

SI, IL PALAZZO E’ EVACUATO E NOI SIAMO APERTI

Non so se ho capito, ma quel che ho capito, ci ho messo del tempo. Il primo, per dire, non l’ho neanche sentito. Io sono così, non li sento. Dormivo. Io sono così. Davvero. Io ho vissuto per un po’ in Iraq, nell’ottantasette, ero andato là a lavorare, a far delle strade, c’era la guerra con l’Iran, e dal confine tiravan le bombe che cercavano di prendere una centrale elettrica che era lì, a Baghdad, io stavo a Baghdad, e di notte, quasi tutte le notti, arrivava una bomba si svegliavano tutti. Era bella, Baghdad, con le bande di scotch sopra i vetri. C’era un senso, come se le cose che facevamo lì erano vere. Non volevo dir quello. Volevo dire che la prima notte che sono arrivato, sono andato a letto, quando mi sono svegliato al mattino mi han chiesto: “L’hai sentita la bomba?”. “No, – ho detto io, – non l’ho sentita”. E poi sono andato a lavorare, ero lì per quello, poi son tornato ho cenato sono andato a letto, quando mi sono svegliato al mattino mi han chiesto “L’hai sentita la bomba?”. “No, – ho detto io, – non l’ho sentita”. E poi son andato a lavorare, son tornato ho cenato sono andato a letto, quando mi sono svegliato al mattino mi han chiesto “L’hai sentita, stanotte?”. “No, – ho detto io, – non l’ho sentita”. Loro, cominciavano a guardarmi un po’ male; io, avevo pensato che mi prendevano in giro. Invece no. Invece ero io, che non le sentivo. Io non le sento. Se dormo. L’ho sentita quando l’han tirata di giorno, saran state le otto di sera, avevo appena smesso di lavorare. E, da quella volta lì, mi succedeva che mi svegliavo alle tre alle quattro di notte pensavo “Adesso arriva”. Ma è successo tanti anni fa. Adesso dormo. E ho dormito anche il 20 di maggio. Mi ricordo la data, il 20 di maggio, ma mica per quello, perché è il mio compleanno. Ci sono, delle date così. Anche l’11 settembre, io me la ricordo perché è morto mio babbo. Nel ‘99. Son cose piccole, uno nasce, uno muore, son cose piccole, ma per me sono quelle, le cose che me le ricordo perché fanno male. Che io subito, il 20 di maggio, quasi non ci credevo. Dormivo. Per me non era successo niente. Io non li sento. Era anche un periodo che non ero tanto per la quale, che avevo l’impressione, non so, io quando sono andato a lavorare all’estero, a metà degli anni ottanta, io forse mi sbaglio ma ho sempre pensato che se non andavo a lavorare all’estero mi sarei ammazzato. E dopo, quando mi sono iscritto all’università, all’inizio degli anni novanta, io, c’è il caso che mi sbaglio, ma ho l’impressione che se non mi iscrivevo all’università mi sarei ammazzato. E dopo, quando mi son messo a scrivere, a metà degli anni novanta, io magari mi sbaglio, ma a me mi vien da pensare che se non mi mettevo a scrivere mi sarei ammazzato. Ecco, non lo dico per giustificarmi, giustificarmi poi di cosa? di non aver sentito la scossa, non è mica una colpa, quello lì era un periodo, l’inizio degli anni dieci, che avevo come l’impressione che dovevo trovare qualcosa da fare che se no mi ammazzavo. Dopo poi l’ho trovato. Mi è successa una cosa. Che, in senso stretto, non è una cosa bella, ho picchiato la testa. Ho picchiato la testa ho fatto quasi un mese d’ospedale quando son venuto fuori ero d’un contento che di ammazzarmi per un po’ non ci penso, secondo me. Ma non volevo dir quello. Volevo dire che poi, adesso io, quello che è tirato poi dopo, al mattino, ma dopo un po’ di giorni, anche quello, io non l’ho sentito. Che ero lì a lavorare, in cucina, io lavoro in cucina, a me le cucine son sempre piaciute, che poi la mia non è neanche una cucina, è un angolo cottura, cioè un salotto con angolo cottura, ma non stavo dicendo quello, stavo dicendo che quello che è tirato al mattino, alle nove, io, non so come dire, non l’ho sentito. Ero lì, non l’ho mica sentito. Io, la mia casa, tra Bologna e Casalecchio di Reno (ho dei colleghi che vivono tra Milano e Parigi, io mi compiaccio di abitare tra Bologna e Casalecchio di Reno), la mia casa dà su una strada che passano un sacco di autobus, io secondo me devo aver pensato che eran stati degli autobus. Ogni tanto traballa, il mio appartamento, ci sono abituato, non mi sono accorto e allora poi dopo, quando si son messi che mi scrivevano mi telefonavano per chiedermi se stavo bene, a me, come non stavo bene?, certo che stavo bene.
Dopo, ero curioso, avevo acceso la radio, per radio dicevano che in Emilia i negozi eran chiusi, e la gente era ammassata nei parchi e le scuole eran chiuse e si faceva fatica a immaginare un ritorno alla vita normale. Che io, mi ricordo, mi ero alzato, avevo aperto la finestra, avevo guardato per strada, mi era sembrato che sotto casa mia i negozi fossero aperti, la gente non fosse ammassata nei parchi, i bambini fossero a scuola, mi era sembrato un giorno normale? E mi era venuto in mente quando, nel 1993, ero a Mosca, son stato poi anche a Mosca, mi era suonato il telefono, avevo risposto era mio fratello che mi aveva detto “Paolo, guarda che lì a Mosca c’è la rivoluzione”. E io gli avevo detto “Aspetta un attimo”, e avevo appoggiato il telefono sul tavolino, ero uscito sul balcone, avevo guardato a destra, avevo guardato a sinistra, ero rientrato, avevo preso il telefono avevo detto “Guarda che ti sbagli. Non c’è mica, la rivoluzione”? Dopo la rivoluzione, in un certo senso, c’era, ma lontana, in centro; quando c’ero andato, il giorno successivo, avevo visto che delle stazioni centrali della metropolitana erano chiuse “Per motivi tecnici” e, “Per motivi tecnici”, era chiuso anche il telegrafo centrale? Allora, non so, forse è stato per quello, che quel giorno lì, quando è tirato il secondo, sono stato in centro a Bologna, avevo un libro da restituire in biblioteca, ho trovato che la biblioteca era chiusa “Per motivi di sicurezza”. E Palazzo d’Accursio, il palazzo dove c’è la biblioteca e anche il comune, era stato sfollato “Per motivi di sicurezza”. Anche se c’erano una cinquantina di persone, quasi tutti immigrati, sembravano, che si riparavan dal sole e fumavano delle sigarette con la schiena appoggiata al muro del palazzo che se dava giù morivano tutti e morivo anch’io, ero lì che li guardavo. Ma sembrava impossibile, quel giorno lì, che desse giù Palazzo d’Accursio. E anche la gente, che c’era lì in piazza, passeggiavano, fumavano, mangiavano, ridevano, leggevano, come un giorno normale. L’unico che aveva l’aria un po’ stralunata era un immigrato che girava con un pacco di copie di un’edizione straordinaria del Resto del Carlino con un titolo cubitale “Paura e morte”. Che, mi ricordo, ero stato a guardarlo per cinque minuti, non ne aveva venduta neanche una.? Era una cosa stranissima: sopra ai giornali c’era il terremoto, fuori dai giornali non c’era? Poi ero tornato a casa. E, a casa, uguale: a guardare le mail, e le pagine dei quotidiani sopra al computer, la stessa cosa succedeva anche con il computer: fuori dal computer non c’era il terremoto, dentro al computer, non c’era altro che del terremoto.? Dopo, quel giorno lì’, mi era venuto in mente che a Palazzo d’Accursio c’è anche la farmacia comunale. Allora avevo telefonato e mi aveva risposto un signore e io gli avevo chiesto “Ma siete aperti?”. E lui mi aveva detto “Sì, siamo aperti”. “Ma il palazzo non è evacuato?” gli avevo chiesto io. E lui mi aveva risposto “Sì, il palazzo è evacuato e noi siamo aperti”. E, non so, forse è una cosa che non è molto normale, e forse non è neanche tanto sana, ma a me era piaciuto moltissimo, il modo in cui quel farmacista mi aveva detto “Sì, il palazzo è evacuato e noi siamo aperti”. Aveva un tono che, non so perché, mi ero immaginato che fosse vestito bene, con il gilet, e un po’ spettinato, e che fosse uno che fumava delle sigarette, nel suo tempo libero, nella mia immaginazione che mi era venuta in mente quel giorno lì. Dopo poi, ma dopo due mesi, ero andato a Novi di Modena a fare una lettura per i terremotati, e il paese era pieno di cartelli e di case sbarrate, e di tetti crollati, e a guardarle veniva da piangere, e i negozi eran tutti spostati, le parrucchiere che avevan riaperto nel loro giardino, i bottegai che vendevano i salumi in casa, una pizzeria che aveva aperto dentro un garage, e tutti, ma tutti, che parlavano del terremoto e ne parlavano continuamente, era della gente che gli era successa una cosa, come noi a Baghdad nell’ottantasette, c’era un’aria che, io non lo so, dev’esser stato così, il dopoguerra. E, lo so che è brutto da dire, ma a me mi piaceva, tanto che dopo, ma dopo dei mesi, son tonato lì a Novi, a guardare il paese, e ho fatto un giro, ho trovato un palazzo, l’ex sede dell’Anpi, che non c’era più: c’eran solo, per terra, delle piastrelle, a camminarci sopra si sbriciolavano tutte. E a vedere il municipio, con ancora le bandiere sul balcone, con davanti una lapide di marmo, frantumata, che parlava dei novesi, per terra, e a vedere l’albergo di Novi, cioè a non vederlo, che non c’era più neanche lui, come la sede dell’Anpi, ecco quella volta lì, a me era venuta paura, e quando ero stato poi nella baraccopoli, con un container che faceva da fornaio, un container da calzolaio, un container da ufficio postale, quando poi mi avevano detto, uno che abitava lì, “A noi ci chiamano il campo di concentramento, ma noi siamo normali, siamo solo terremotati”, a me era venuto da pensare a Lev Tolstoj, che nel 1884, quando aveva 56 anni, e aveva già avuto tredici figli, aveva scritto: “Se c’è qualcuno che dirige le cose della vita, vorrei rimproverarlo. È troppo difficile e spietata”.