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 2013  maggio 20 Lunedì calendario

ARTE, CIVISMO, PULIZIA A LEZIONE DAGLI OLANDESI

AMSTERDAM DOVREMMO imparare dagli olandesi. Bravissimi nel proporre miti assolutamente universali e full time come Van Gogh e Anne Frank. Con file e code lunghissime organizzate per tutto l’anno. E perfettamente ordinate. Sia per i turisti anziani con sveglia presto e i giri di gruppo, sia per i giovani rock con disco music fino a tardi la notte.
Folle e masse vengono a riversarsi in città, dai centri minori, nei giorni festivi. Il contrario che a Roma o a Milano, dove si tende piuttosto alle spiagge o colline o montagne. E le feste attualmente qui abbondano: fra il nuovo re, la Liberazione, le riaperture sensazionali del Rijksmuseum e del museo Van Gogh, oltre che dello Stedelijk, dopo anni e anni di rifacimenti
e restauri.
Si può così osservare, nella moltitudine dei biondi, che gli alti e le alte due metri e forse più sembrano ormai abituali fra questi e queste giovani, con un ovvio calo delle «culone rubensiane ». Mentre i nostri “morettini” appaiono in media più bassetti, oltre che meno lavati e meno puliti. Evidentemente cambiano poco le magliette, e non fanno shampoo: forse a causa della crisi, o per noncuranza?... Eppure, benché malmessi, bramosi di “fragranze” maschili, secondo certe pubblicità?
Guardando per terra, non si vedono tante pozzanghere sopra i rattoppi: come faranno, qui? Leggendo i giornali nostrani, quanti motti curiali di Andreotti. Ma non era lo stesso spirito di cardinali e monsignori tipo Bertone e Bagnasco e Ruini e Pignedoli o Poggi?
Qui, colossali ristrutturazioni interne o vistose addizioni modernissime per onorevoli musei ottocenteschi ed eclettici, venerandi quali cartoline kitsch. Un immenso atrio ricavato sotto il Rijksmuseum in vista di smisurate masse e file postmoderne. E nelle grandiose gallerie superiori, liberate dai banchetti di vendita, trionfi di Rembrandt e Vermeer e Hals e Steen in ogni dimensione del Secolo d’Oro, dalla maestosa Ronda di notte ai
minuscoli quadri da appartamento, con le lattaie e le stradine e le nature morte di asparagi, cacciagione, formaggi. Si ritrovano care memorie, dal cigno minacciato ai fianchi assolati dei palazzi ai trionfi floreali ai golettoni sempre stirati e puliti. Ma la novità dell’allestimento nuovo consiste nei molti mobili di gran pregio in ogni sala, con ninnoli e suppellettili delle medesime epoche.
Così, trionfali e sfarzose lungo le sequenze di gallerie ristrutturate, si “inanellano” le smisurate collezioni di ricchezze tradizionali, e coloniali. Dunque, non soltanto i paesaggi urbani, e le battaglie navali, e i miracoli dei santi che risanano storpi, ma ben selezionate raccolte di porcellane e maioliche d’ogni provenienza, modelli grandi e piccoli di navi e di fari, ingegnosi armadi per curiosità e rarità e balsami, orologi monumentali, argenterie locali e orientali, stucchi e giapponeserie e cristalli di rocca, fino al Rococò, a Napoleone, alla Shoah, al Duemila.
Al Rinascimento italiano viene dedicata in tutto una notevole sala al pianterreno, con magnifici ritratti dei due Sangallo, Giuliano e Francesco, dovuti a Piero di Cosimo. Altri, meno importanti, di Veronese e Tintoretto, accanto a un San Francesco di un “Carraci”, a pitture italianizzanti di Sustris e Heemskerk, a varie “Cene” non solo ultime e “Natività” tipo della Robbia, presepi dorati. E un Crivelli, coi maliziosi cetrioli che imbarazzavano Gadda, tra frutti e frasche.
Accanto, arte e religione medioevale nelle cattedrali gotiche con episodi per lo più penosi di piangenti e dolenti e gementi fra presepi, crocifissioni, Limoges, Starnina, avori, inferni, limbi, gesti che nel tempo hanno assunto significati magari scurrili. Ritratti borgognoni, asburgici, borbonici, di Nassau. Una sala di strepitose delicatezze, con incisioni di Dürer, Schongauer...
All’ultimo piano, un imbarazzante confronto. Eccellente pianificazione territoriale olandese, nell’ultimo dopoguerra. E pessimi oggetti o ninnoli – seggioline, tovagliette, rilievi e segmenti più o meno simmetrici,
sferettine grottesche – tristi e deprimenti come quella pittura dei gruppi “Cobra” così alla moda allora. Tornano lontani ricordi dal 1958, quando si andò all’Expo di Bruxelles, da giovani. E descrivevo sul Mondo il padiglione olandese d’avanguardia che esponeva «poemi industriali » a cura di Le Corbusier ed Edgar Varèse, con sponsorizzazioni Philips. Mesti raffronti col padiglione italiano: ritratti di scrittrici sopra scalette malferme, tabelloni leonardeschi con grafica d’anteguerra...
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Lì accanto, il museo di Van Gogh riapre con gran fulgore: tutto uno “spolvero”, e una colossale minuziosissima esposizione su «Van Gogh at Work», e cioè come lavorava concretamente il grande pittore. Inaugurazione, addirittura, con discomusic e dj e frotte di fan stravaccati con le loro birre per terra, fra le bacheche con tavolozze e tubetti di colori. Sui vari piani, analisi dei viraggi del blu cobalto e degli altri pigmenti, indagini sul riuso dei canovacci già adoperati, scanning di microscopia elettronica, cromatografia liquida, fluorescenza spectrometrica, radiografie e reflettografie agli infrarossi e ai raggi X. Eccetera.
Su e giù per i vari piani, quantità di fiori di melo, pero, pesco, mandorlo. Povere e umili patate, cipolle, verze. Limoni, cavoli. Mulini a vento a Montmartre, con aggiustamenti di prospettive. Astri, gladioli, scampi e calamari. Campi e giardini stupendi, importantissimi, indimenticabili. Girasoli!!!... Ordinazioni di materiali per disegno e pittura. Autoritratti. Zoccoli. Cappelli. Scarponi. Tetti di paglia. Cipressi, ulivi, sottobosco. Marine.
Questioni: un treno sullo sfondo, sarà il medesimo che poi ripassa in De Chirico? E a St-Rémy, proprio davanti alla clinica dove fu ricoverato, ecco il Mausoleo romano sempre evitato da Van Gogh ma tanto studiato dal Bianchi Bandinelli. Così, l’attiguo campanile medioevale (St-Paul-de-Mausole) è lo stesso di un dipinto già appartenuto a Elizabeth Taylor, secondo il catalogo di una retrospettiva a New York.
Sempre giù e su, quali virtuosismi con i colori, giocando sui contrasti, o col ton-sur-ton, da parte di Van Gogh. Anche invadendo i margini piatti delle cornici, come si è ben visto proprio qui alla mostra «In Perfect Harmony » (una ventina d’anni fa) confrontando le pompose dorature tradizionali tedesche e austriache o convenzionali francesi e i listelli omologati nei musei d’arte moderna, e quelle incorniciature dei falegnametti pre-raffaelliti ove l’artista può occupare ogni limite. (C’era la storia di una principessa molto «von und zu» che desiderava un bel ritratto dal celebre von Stuck, autore anche di un tremendo «Peccato». E volle un «niente peccato» – «ohne Sünde » – sul contratto. Veniva anche dileggiata, perché prendendo lezioni di guida, a Vienna, quando l’istruttore chiedeva come andava il cambio, lei sollecita domandava come andava il suo, e quello di sua moglie, e come stavano i piccini...).
Quante ispirazioni o imitazioni geniali, da Millet, Doré, Monet, Monticelli, Delacroix, e naturalmente Gauguin. Ma come appaiono smunti certi contemporanei di Van Gogh qui esposti all’ultimo piano: Pissarro, Daubigny, Signac, Émile Bernard... E allora, avanti e indietro fra le nevicate, le giapponeserie, i notturni, i crani, i prigionieri, le ciminiere, le lettere al fratello Theo, la casa gialla, il letto giallo, le patate, le sigarette, i crepuscoli... Fino a un terminale praticamente commovente: un mucchietto di radici incompiute.
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Una trentina d’anni fa, «La Grande Parade» esibiva con orgoglio una scelta superba del meglio fra le tante opere d’arte acquistate o donate per tempo allo Stedelijk Museum, dalle varianti su Van Gogh di Francis Bacon ai crudi segni di Max Beckmann all nude soft che si crogiolano in bagno di Bonnard ai fiori e tubi di Léger sui biliardi ai paesaggi piatti di Braque... Fino ai delicati impasti intestinali di Frank Stella, ai segni duri di Antoni Tàpies, ai lievi graffi “goethiani” di Cy Twombly.
Lungo le sale, il meglio possibile nelle varie epoche. Tra il cubismo, il surrealismo, la patafisica, l’art brut... Insomma, Dibbets e Dubuffet, Gorki e Guston, Kelly, Kiefer, Klein, de Kooning, Léger, LeWitt, Matisse, Mirò,
Mondriaan, Picasso, Polke, Pollock, Rothko, fino a Ryman, a Schnabel... Mentre allo stesso Stedelijk, una dozzina d’anni fa, in veste d’organizzatrice e sponsor, la recente regina Beatrix ha assortito un cospicuo numero di olandesi evidentemente meritevoli, con opere sovente «senza titolo». Ecco dunque Peter Struycken, Kees Fransens, Anton Heyboer, Gerard Verdijk, Henk Visch, Jan Schoonhoven, Frank Van den Broeck, Shinkichi Tajiri, Floor van der Pol, Peer Veneman, Rob van Koningsbruggen, Pieter Holstein, Avery Preesman, Marlene Dumas... Nomi che risentiremo presto? O non si rivedranno mai più?
Ora, nella vastità allucinante degli interni ristrutturati, con un colossale frontespizio odierno come al vicino Concertgebouw, qui allo Stedelijk tutto parrebbe ridursi a un accorato «come eravamo». Sedie, ganci, orologi, paralumi, pentolini, radio, neon, tovagliette, piastrelle, tendine, bidoni senza titolo, rifiuti urbani, rottami arrugginiti, monocromi sempre senza titoli, foto di parenti, vittime, sventurati, disordini, topi... Orrori delle guerre, anche civili, preferibilmente con arte infantile e naïf. Antologie riassuntive di manifesti sia maxi sia mini. Suburbi, stilismi, ferramenta, disastri, tendenze, trends.
Trionfi e squallori delle maioliche
e delle plastiche. Tv in bianco e nero, design, Philishave, Olivetti, Brionvega, Alessi, Memphis. Malevich e Lissitzky nostri contemporanei come Gilbert & George, Tinguely, Thonet, Spoerri, Oldenburg, Rauschenberg, Baselitz a testa in giù. Installazioni, armadi, cellule. Strategie concettuali. Kandinskij, Duchamp, strisce vivaci di Sol Lewitt, numeri illuminati in serie di Fibonacci e Kosuth. A terra, Land Art.
Nei sotterranei, poco frequentati poiché la camminata lunghissima costa quindici euro, una vasta serie di ambientini con filmati vecchi e nuovi, senza sonoro per evitare i disturbi. Antiche pellicole con tristi guerre e funerali, cariche di cavallerie e fanterie in vallate squallidissime. Braghe bianche e cilindri neri. Marce, carrozze, tabernacoli, applausi, regine, danzatori in rivolta, missionari fra bimbi esotici. Cerimonie con ombrellini e ombrelloni e indigeni. Giava? Nudi biondi con cagnoni scuri: nazi? O ancora prima? Però, perquisizioni di zainetti attuali con su «protest» fra scatafasci e cortili attigui a cimiteri d’automobili. Sfaceli sudafricani? Periferie mongole? Indignati assonnati all’Università di Varsavia, finalmente.
Sono i molti allestimenti con trittici muti di Aernout Mik, sull’idea di una rivolta sociale che capovolge i ruoli, fra poliziotti e migranti, preferibilmente, in un mix fra Realtà e Fiction che produce effetti “disturbanti” sui mass media in trance o estasi. Ed eccone uno con un sosia di Berlusconi processato da un tribunale di donne delle pulizie con velo islamico in un’architettura ideologicamente fascista, fra carabinieri e poliziotte senza berretto e una vistosa pubblicità d’acqua minerale. Dev’essere girato con attori francesi, perché somigliano molto alle foto dei ministri di Hollande sui quotidiani: Ayrault, Borloo, Fabius, Girard... Ma il sosia ha un po’ troppi capelli; e i trittici recano titoli come Behavior, Communitas, Trance, piuttosto che i rischi della Tétanie nonché Impopularité paventati dalla stampa francese.