Walter Galbiati, Affari & Finanza, la Repubblica 20/5/2013, 20 maggio 2013
MATERIE PRIME, UNA TORTA DIVISA TRA POCHI
Milano Un decennio d’oro. Mai come in questo caso, possono essere così definiti gli anni che dal 2000 ad oggi hanno accompagnato l’exploit delle materie prime. E manco a dirlo la regina delle commodities è stato il prezioso metallo giallo. Il boom delle quotazioni è andato di pari passo con lo sviluppo dei Paesi emergenti, come la Cina, l’India o il Brasile, ma i veri beneficiari della corsa dei prezzi sarebbero state, secondo un’inchiesta del Financial Times, un pugno di società, quotate e non, che si sarebbero intascate dal trading sulle materie prime qualcosa come 250 miliardi di dollari. Il condizionale è d’obbligo perché mentre per alcuni di questi big i dati di bilancio sono pubblici, per altri si è dovuto ricorrere a visure camerali in Paesi offshore. I nomi snocciolati uno dietro l’altro non dicono molto alla grande platea, anche perché si tratta di società che molto spesso, oltre a nascondere i bilanci, non amano la grande pubblicità. Il panorama comprende aziende con modelli di business differenti che vanno dai puri trader di materie prime a società che oltre alla compravendita finanziaria si occupano anche delle attività minerarie e per questo godono di un a maggiore visibilità. Si tratta di Glencore, Vitol, Trafigura, Mercuria, Gunvor, Cargill, Bunge, Archer Daniels Midland, Louis Dreyfus, Wilmar, Noble, Chs, Mitsubishi, Mitsui, Itochu, Sumitomo Marubeni, Graicorp, Olam e Traxys. Sono le venti top del settore che
insieme lo scorso anno avrebbero realizzato 33,5 miliardi di dollari e in dieci anni circa 250 miliardi di dollari di utili. Nella speciale classifica non sono stati inclusi i guadagni delle operazioni di trading effettuate dai grandi gruppi specializzati in petrolio, gas o in servizi alle municipalità, come le inglesi British Petroleum e Royal Dutch Shell, o come la francese Edf, le tedesche Eon e Rwe, nonché le russe Lukoil e Gazprom. Altre grandi escluse sono le big della finanza mondiale, le banche d’affari Goldman Sachs, Morgan Stanley e JpMorgan, attive soprattutto nel mercato dei derivati. Tutte però hanno lucrato per anni sulla compravendita delle materie prime, grazie soprattutto al rincaro costante dei prezzi, alimentato dalla sete di crescita e di industria delle economie emergenti. Dopo gli anni di gloria, però, ora il vento sembra essere cambiato. Gli utili non sono più quelli di una volta, anche se non tutte le società hanno registrato andamenti negativi. L’anno scorso l’utile netto di Glencore, uno dei più grandi gruppi mondiali di materie prime con al suo attivo circa 150 siti minerari e metallurgici, è sceso a 3,06 miliardi di dollari dal record di 5,2 miliardi del 2007, mentre quello di Vitol, il più grande trader mondiale di petrolio, è sceso a 1,05 miliardi dollari, il suo livello più basso dal 2004, e più o meno la metà del record di 2,28 miliardi realizzato nel 2009. Louis Dreyfus Commodities, nonostante le peggiori condizioni di mercato e le maggiori difficoltà economiche legate alla crisi finanziaria, ha realizzato una delle sue performance migliori con un utile di 1,1 miliardi dollari in crescita rispetto agli 875 milioni del 2011. Sebbene poi sia difficile scovare nei bilanci i guadagni da trading dei grandi gruppi attivi nel petrolio e nel gas e delle utility, le stime degli analisti finanziari tuttavia parlano di circa 5 miliardi di dollari, un bel gruzzolo, ma lontano dai picchi del 2008 e del 2009, quando viaggiavano intorno ai 10 miliardi di dollari. Per capire come si siano erosi i guadagni del settore, è utile un dato, il ritorno sul capitale (Return on equity, conosciuto come Roe dai trader), in quanto indica il rendimento sull’investimento. Mentre alcuni operatori avevano a metà degli Anni 2000 un Roe che si aggirava tra il 50 e il 60%, ora si parla di un ritorno tra il 20 e il 30% che pur essendo di gran lunga più elevato rispetto a quello di altri settori, risulta tuttavia dimezzato.