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 2013  maggio 19 Domenica calendario

ROMEO CASTELLUCCI

PARIGI
Lo lodano a Berlino, Bruxelles, Vienna. Il sovrintendente Lissner lo ha già prenotato per il 2018 all’Opera di Parigi con due titoli in cartellone. Da Amsterdam a Tokyo, è stato incoronato come uno dei registi teatrali più importanti. E questo dovrebbe garantirlo in termini di successo, fama, popo-larità. Soprattutto dovrebbe suggerire che Romeo Castellucci è un maestro del teatro contemporaneo a chi ancora lo giudica stravagante, indecifrabile. Specie in Italia dove da vent’anni non mette piede in un teatro “ufficiale”, dove continua a essere considerato un artista off che costringe al pensiero, all’attenzione, dunque astruso, e dove perfino la recente notizia del Leone d’Oro alla carriera della Biennale di Venezia ha suscitato sorprese. E a pensarci fa impressione: non tanto per lui, timido e riservato regista cinquantatreenne, che da più di trent’anni con la sua compagnia, la Socìetas Raffaello Sanzio, firma lavori (Amleto, Genesi, Tragedia Endogonidia, Divina Commedia...), macchine stupefacenti di sottile violenza al senso comune, di oscurità, magia, non offuscate dalla spettacolarità volgare, fa impressione per l’Italia. «L’Italia? Il mio sentimento è quello di chi vive in esilio. Se fossi francese mi avrebbero affidato un teatro. E per come sono fatto non so nemmeno se sarebbe stata una buona idea».
Romeo Castellucci è seduto in un camerino del Théâtre de la Ville di Parigi.
Sembra più giovane in jeans e maglione scuro, i capelli quasi rasati a zero, un po’ rannicchiato sulle gambe lunghe e lo sguardo, spesso altrove, dietro la grossa montatura nera degli occhiali che gli danno quell’aria un po’ da nerd.
A Parigi ha presentato da poco, “tutto esaurito” sempre,
Four Seasons Restaurant, che arriverà per la prima volta in Italia, al Teatro Argentina di Roma, dal 30 ottobre grazie a Fabrizio Grifasi direttore di Romaeuropa Festival: è l’unica struttura che in Italia lo invita con continuità. Il suo è uno spettacolo maturo, affascinante che sta tra
La morte di Empedocle di Hölderlin, declamato da quattro attrici e sei ballerine con toni e gesti ipnotici e in abiti amish, e gli abissi oscuri del protagonista de
Il velo nero del pastore, la novella di Hawthorne che già gli ispirò l’omonima rappresentazione che l’anno scorso finì sulle prime pagine per le contestazioni degli integralisti cattolici irritati da una gigantografia del volto di Cristo in scena. «Hölderlin e Hawthorne sono due autori per me potenti, pregnanti, perché in questi nostri tempi così saturi di immagini da diventare un deserto in cui non c’è più niente da vedere, entrambi ci mostrano la via per sottrarci, la via del rifiuto».
Questa ossessione iconoclasta l’ha sempre avuta, nonostante gli studi di storia dell’arte a Bologna.
Santa Sofia, il primo spettacolo, nell’85, era una rivolta carica di odio verso le immagini, compresa l’immagine dell’attore, e di vis polemica verso la “nuova spettacolarità” di quel periodo impregnata di linguaggi pop a cui Castellucci contrapponeva i miti sumeri. E da quali letture, visioni, educazione, incontri sia nato il suo stravagante talento è difficile dirlo. «Sono nato e cresciuto a Cesena e rivendico il mio provincialismo. La mia è una vita normale. L’artista che vuol fare l’originale è estremamente noioso. A me piace la vita, direi, piccolo borghese. Quanto al teatro, lo faccio da quando ero bambino. Mia sorella Claudia, più grande di due anni, mi obbligava a fare spettacoli con lei nel garage di casa e io obbedivo». Proprio con Claudia e con Chiara Guidi, sua compagna, sempre a Cesena nell’81 fonda la Socìetas Raffaello Sanzio. «Era successo che qualche anno prima avevo accompagnato Chiara a Roma per farle da spalla all’esame di ammissione per l’Accademia. Non fu presa: l’insegnante, Anna Miserocchi, le disse: “Il
tuo è un punto di arrivo, non di partenza. Vai da Memè Perlini”. Andammo, ma Perlini scelse me. Non avevo ancora diciott’anni e del teatro amavo Carmelo Bene e i libri di Jerzy Grotowski. A Roma vidi però Punto di rottura, uno spettacolo del Carrozzone, il gruppo di Federico Tiezzi che ha caratterizzato il nuovo teatro degli anni Settanta, che mi colpì enormemente. Sospettavo del teatro, lo consideravo e talvolta ancora oggi lo considero un’arte priva di tensione, di nerbo.
Punto di rottura mi dimostrò che invece il teatro può avere più energia di un concerto punk, essere qualcosa che ti muove le viscere, che scuote il tuo corpo, che è non solo una sedia legata a un abbonamento».
La Socìetas all’inizio è formata da sei-sette persone. Poi si aggiungono i figli di Chiara e Romeo, sei in pochi anni. «Non ci siamo mai posti il problema della famiglia, della casa, del lavoro... Semplicemente i bambini ce li portavamo dietro, ed è stata la parte più bella della nostra storia. Partecipavano ai nostri spettacoli. Non avrei mai potuto affrontare Auschwitz, il secondo atto di
Genesi, se non con figli miei». Ma visti gli spettacoli spesso terrorizzanti della Socìetas, la presenza dei bambini all’epoca suscitava anche parecchia indignazione. «I nostri bambini vivevano dentro il teatro, ci sono cresciuti, durante le prove mi stavano appiccicati alle gambe. Il teatro per loro era consuetudine, e spesso anche noia». Ma intanto si racconta che Teodora, la primogenita, oggi apprezzatissima attrice-ballerina con la sorella Agata nel gruppo Dewey Dell, raccontasse bugie alle maestre per non dire cosa facevano i genitori. «Ah sì, raccontava che ero un veterinario. Aveva capito che ci sarebbe stato troppo da spiegare. Alle spiegazioni pensavamo Chiara ed io, per esempio quando ci facevamo dare i compiti se i ragazzi venivano in tournée. Non avrei mai potuto rinunciare a loro. I bambini, come gli anima-li, sono presenze forti a teatro, oggettive, sono un anticorpo del teatro perché non sono finzione, ammaestramento... Ecco perché nei miei spettacoli ci sono stati anche orsi, cavalli, uccelli, pecore, scimmie. Si potrebbe fare una storia della Socìetas attraverso gli animali».
Oggi Romeo Castellucci vive con la valigia e lavora come un matto. Dopo Parigi Vienna e dopo Vienna Avignone, dove al festival, il 25 luglio, firma Schwanengesang
di Schubert, un concerto con Valérie Dréville, Kerstin Avemo e il pianista Alain Franco — «impercettibili deragliamenti, mi piacerebbe far piangere lo spettatore». Nel 2014 al Teatro La Monnaie di Bruxelles farà
Orfeo e Euridice, ma prima, a Manchester, per il centenario della Saga della primavera,
ne farà un allestimento shock: seguendo l’idea della musica di Stravinsky, del rituale, del sacrificio, riempirà la scena con trenta tonnellate di polvere di ossa («un fertilizzante prodotto industrialmente, ma che simboleggia milioni di animali sacrificati in un’epoca in cui il sacrificio non esiste più») che grazie a una serie di macchinari danzerà nell’aria «come ballerini polverizzati». La cosa può non essere consolante. «Fà niente, come non è importante capire per forza un’opera. Se di un libro, uno spettacolo, un film capisco tutto ne resto deluso. L’enigma non è fare cose strane, è un nodo logico, una forza dell’arte. Non a caso il teatro
è uno dei pochi edifici che non contempla le finestre ma le porte sì: se uno esce da un mio spettacolo perché lo trova astruso mi provoca dolore, ma è un suo diritto».
Il Leone d’Oro che riceverà a Venezia ai primi di agosto alla Biennale ha l’aria del risarcimento da parte dell’Italia, dopo che già la Francia lo ha insignito del cavalierato delle Arti. «Sono onorato, ma anche confuso. Un premio alla carriera costringe a guardarsi indietro, a rivedere con senso di responsabilità il tuo lavoro specie di fronte alle nuove generazioni». Perciò ha deciso che da Venezia partirà anche la prima fase del nuovo lavoro sul tema del vitello d’oro: ancora una volta l’immagine e l’idolatria. «È un’altra spinta che ricevo dalle riflessioni sul
Velo nero del pastore, perché trovo che quella novella sul pastore protestante che si vela il volto sia un tema di una potenza difficile da esaurire. Stavolta mi piacerebbe metterlo in scena in senso letterale, come un film. E ho capito che il pastore deve essere un volto riconoscibile, come lo è nel racconto il protagonista di fronte alla comunità dei paesani. Dunque sarà un attore famoso, una star. Ma non so ancora chi». Non è temerario lavorare così tanto, saltare tra lirica, prosa, musica? «Mi sento nel pieno della tensione creativa, lontano dal vivere il teatro come una casa, un’abitudine. Artaud parlava di forsennare il teatro, scuoterlo. Risvegliarlo ogni volta. Ed è così che lo sento, anche a costo di spingermi sempre di più verso ciò che non è visibile, che è intangibile. Ma solo quello è teatro».