Riccardo Luna, la Repubblica 19/5/2013, 19 maggio 2013
SCUSI, MI STAMPA UNA CASA?
Se ne avete abbastanza delle stampanti 3D e dei piccoli oggetti che escono fuori in qualche modo da questi strani strumenti, la storia che stiamo per raccontare è fatta per voi. Perché qui non parliamo più di stampare fischietti, giocattolini, bicchieri, violini o altre cose simili: non è più una novità. Parliamo invece di stampare vere automobili, veri aereoplani, vere barriere coralline e vere case. Parliamo delle maxi stampanti 3D e di come la loro improvvisa ascesa, in Cina e negli Stati Uniti, non modifica soltanto il modo in cui d’ora in poi si potranno fare le cose. Ma modifica le cose stesse: la loro forma, il peso, la resistenza. Stampare una casa infatti non vuol dire fare la stessa casa che si faceva prima. Vuol dire costruire, fisicamente ma anche esteticamente, un altro mondo, proprio come questa storia sembra arrivare da una galassia lontana e invece è iniziata in Italia, in provincia di Pisa. A Bientina, vicino a Pontedera per la precisione.
Qui Enrico Dini nel 2009 ha realizzato una mega stampante 3D in un anno in cui del fenomeno dell’additive manufacturing non parlava quasi nessuno. Ma Dini è l’archetipo dell’inventore come lo vedevamo nei fumetti: laurea in ingegneria, un passato nell’industria calzaturiera dove si era segnalato per alcuni brevetti utili ma non memorabili come “il levastivali” e “il siliconatore di suole”, a 45 anni a Dini era rimasto il sogno di quando era bambino. Ovvero fare castelli di sabbia. E così aveva fondato la DShape mettendosi a produrre manufatti sparando dagli ugelli un composto di sabbia e cloruri da lui stesso mirabilmente accroccato. In Italia naturalmente non se lo fila nessuno: lo scoprono a Londra, prima il Financial Times lo incorona come “lo stampatore di case”, poi l’archistar Norman Foster accetta di partecipare con DShape a un bando dell’Agenzia Spaziale Europea per stampare case sulla Luna, nel caso di una improbabile colonizzazione. Il prototipo in scala di una casa lunare viene esposto a Torino nel 2011 in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia, ma ancora una volta nessuno prende sul serio Dini e l’idea che con le stampanti 3D si possa fare altro che piccoli oggetti. Sono passati due anni e il mondo è cambiato. Tre mesi fa, per esempio, Jim Kor, un barbuto ingegnere americano che ha al suo attivo la progettazione di trattori e autobus, ha presentato la Urbee2. Ha tre ruote, ospita due passeggeri ed è la prima vettura prodotta da una stampante 3D: «Resistente come l’acciaio, pesa la metà ed è pronta per andare in commercio » ha detto fiero l’ingegner Kor. Come ha fatto? Ha progettato l’auto al computer, ha spedito il progetto a un centro che affitta stampanti 3D e ha aspettato che il materiale utilizzato, non solo plastica, si indurisse secondo una tecnica chiamata Fused Deposition Modeling.
Ci sono volute 2500 ore per stampare i 50 pezzi di cui è fatta Urbee2. È sicura? «Vogliamo che passi i test di sicurezza per partecipare alle gare di Le
Mans» ha detto Kor, che ha già ricevuto i primi ordini e pianifica un giro degli Usa battendo il record di consumo di carburante.
Può sembrare folklore rispetto a certe notizie che arrivano dalla Cina. Ad Haidian, per esempio, un distretto di Pechino, c’è un fabbrica senza operai: al lavoro ci sono solo otto grandi stampanti 3D. Si chiama AFS, che sta per Automated Fabrication System: se serve un prototipo di aereo o di automobile, in due settimane lo stampano (contro i due mesi di un metodo tradizionale). Ma la stampante più grande, dodici metri, sta nei Laboratori nazionali per aeronautica e astronautica della Beihang University. Secondo quanto emerso recentemente in un seminario, è qui che il governo cinese punta per competere un giorno con i colossi della aviazione commerciale Airbus e Boeing. Per riuscirci questa mega stampante 3D usa titanio e acciaio, ma pare che non abbiano ancora risolto il problema di controllare la cristallizzazione dei metalli dopo che sono stati fusi da un laser.
Intanto anche Dini è andato avanti. Ha girato il mondo per trovare interlocutori. E ci è riuscito. Grazie alla collaborazione con i designer di Co-De-It e Disguincio, ha varato il progetto Emergent Reef, per realizzare moduli per il restauro costiero e il ripopolamento ittico (test in corso in Bahrein e in Australia; concorso vinto per il recupero dei pali del molo di New York; in attesa di risposta da Savona e dall’Argentario); sta lavorando per stampare le montagne di un parco divertimenti in Cina; sta negoziando con un paese arabo la stampa di alberi di pietra in modo da fare ombra nel deserto; ed è pronto a partire con la prima casa stampata. A Rotterdam, in Olanda. La sua DShape adesso ha uffici in quattro continenti, collaborazioni avviate con una dozzina di università e lui, l’ex inventore pazzo, è diventato una autorità in materia. Non solo non c’è studente di architettura che non ne abbia sentito parlare, ma qualche settimana fa a New York è stato accolto come una star alla prima grande expo delle stampanti 3D e in Olanda gli hanno dedicato un documentario: The Man Who Prints Houses.
Il suo obiettivo adesso naturalmente è farne un business, intanto per rientrare degli investimenti. Ma non solo. Lui parla sempre di rivoluzionare l’architettura per trasformarla in archinatura.
E se il concetto sembra strambo assai, dice, pensate al Grand Canyon o alle rocce sarde, alla grandiosa meraviglia che ci ispira qualcosa che è stato modellato dalla natura e non dal piccone. «È questo che cerco di applicare a DShape. Ho finalmente lo strumento per esprimere il linguaggio della natura. Gli algoritmi». Si chiama design computazionale e non è una sua invenzione, ma in questo caso funziona al contrario. La natura infatti modella, in millenni di anni, scavando rocce e canyon; la stampante 3D di Enrico Dini modella, in decine di ore, aggiungendo strati di sabbia fino ad arrivare all’era geologica giusta. Per questo a Bientina non c’è solo il cantiere di un sognatore: c’è una macchina del tempo.