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 2013  maggio 19 Domenica calendario

LA GRANDE GUERRA DEI VINTI

TRIESTE
Tornano a migliaia dalle prime linee della Grande Guerra, ma non cantano Il testamento del capitano o Venti giorni sull’Ortigara.
Le loro canzoni hanno il ritmo cadenzato della marcia e dicono cose come: “Maledetta sia la sveglia/ sia la sveglia del mattino/ si riposa un pochettino/ per marciare un poco ben”.
Sono ragazzi che parlano italiano, ma non portano il Tricolore: hanno per simbolo un’aquila a due teste e vengono da fronti sconosciuti ai fanti del Piave: Ucraina, Polonia, Montenegro. Orizzonti scorticati dal vento e dalla neve.
Sono loro, i triestini, i goriziani e gli istriani, quei soldati “un po’ così” che furono sudditi dell’Impero d’Austria fino al ’18, e ora rientrano a battaglioni da cimiteri ignoti, armata perduta senza fanfare, con la forza di una memoria che riemerge dopo una rimozione troppo lunga. Tornano su una valanga di documenti inediti, messaggi di parenti, fotografie sbiadite, diari, registrazioni, lettere dattiloscritte o calligrafate, cartoline d’epoca, cimeli, onorificenze, medaglie portate da figli o nipoti. È successo che improvvisamente, a un anno dal centenario del ’14, Trieste svuota gli armadi di famiglia e, in un impressionante outing collettivo, fa giustizia del silenzio patriottico imposto sul passato austriaco della città “italianissima”, piena di piazze, scuole, vie e monumenti dedicati a irredentisti, coloro cioè che passarono all’Italia, ma che in guerra furono meno del cinque per cento dei maschi in età di leva.
È successo quando Il Piccolo, quotidiano di frontiera, ha rotto il tabù sulla storia dei “vinti”, parlando delle migliaia di caduti in divisa austriaca rimasti senza monumento. Da quel momento, la redazione è stata sommersa da lettere, telefonate e segnalazioni al punto da dover aprire delle pagine speciali. Storie, quasi sempre, di una guerra vista dalla parte “sbagliata”: la disfatta di Caporetto vista come trionfo, fanti in marcia al suono de
Lamarcia di Radetzky, voci disturbate di vecchi Schuetzen registrate dai nipoti, cartoline alla morosa da una base navale di Pola pavesata di bandiere giallonere, truci racconti di teste mozzate dai cosacchi sui Carpazi.
«Hai già pensato, piccina cara, ove andremo a dormire? — scrive, bramando una licenza, un soldato istriano alla moglie — ciascuno a casa sua oppure tutti e due in una stanza? Devi provvedere tu... In un hotel certamente no!». E ancora, uno sloveno del Carso: «Ho avuto una brevissima licenza perché mi era morta la moglie. Non mi sono nemmeno tolto la montura (divisa,
ndr), le ho fatto la cassa e l’ho portata al cimitero. Zaino in spalla sono ripartito subito verso Kozina per prendere la tradotta. Mio figlio Toncic, quello di otto anni, non voleva staccarsi da me. Mi ha seguito a piedi per un po’, poi, dopo Oscurus, è rimasto indietro».
Poco o nulla si sa di quei poveracci: né quanti partirono, né quanti morirono, né dove sono sepolti. La ragion di Stato, dopo il ’18, ha vietato ai parenti la ricerca di quelle tombe e secretato il numero dei Caduti. Un silenzio perdurato nel secondo dopoguerra, quando l’italianità non doveva vacillare di fronte alla stella rossa di Tito. Ma ancora oggi, mentre negli archivi di guerra viennesi puoi muoverti liberamente, i fondi fotografici dello stato maggiore italiano restano poco visibili su questi argomenti.
Nel silenzio ufficiale, ora è la gente a muoversi.
Un noto medico consegna un pacco con i diplomi incorniciati delle medaglie d’oro e d’argento consegnate a suo padre Mario Slavich dall’imperatore. Ignoti lasciano in redazione lo spartito della Karl von Ghega Marsch,
dedicata al costruttore della prima ferrovia Vienna-Trieste. Succede di entrare in uno studio radiografico e di essere arpionati dal titolare che ti apre le segrete carte di una famiglia ungherese di nome Felszegi, il cui capostipite fece meraviglie con un cantiere che poi fu chiuso per ordine romano.
Trieste si svela, si addentra senza timori nelle
sue radici multiple, fa i conti con un dialetto farcito di germanismi, dove il sorso si dice sluc, la battuta viz e la spinta ruc.
Un mondo dove nulla è come appare: perché qui puoi chiamarti Botteri ed essere di lingua-madre slovena, o fare Biloslavo di cognome ed essere italiano nel midollo. Dopo le foibe e i forni crematori, ci sono altre tombe da scoperchiare per fare i conti con la storia. C’è l’Austria, la madre di tutte le rimozioni.
Negli archivi del Piccolo trovo un “nonno Willy fotografato con pipa all’ospedale militare di Graz”, la rocambolesca storia di uno “zio dal grilletto facile nello See-Bataillon” o la lettera di un giovane che promette scherzando alla madre di portarle in regalo “l’orecchio di un serbo”. Il diario di un istriano che finisce prigioniero dei russi e se la spassa suonando il clarinetto nella steppa; ma anche l’orrore dei prigionieri italiani restituiti dall’Austria a fine conflitto: napoletani o lombardi che la patria lascia morire di stenti in un lazzaretto per poi buttarli in fosse senza nome.
Èunatempestaidentitariachefaiconticonl’oggi: con la marginalità che aumenta, i posti di lavoro che saltano, i treni cancellati, i cantieri chiusi, le linee di navigazione svendute. Lo smantellamento, in definitiva, di una dote che era stata Vienna a donare alla città. «È tempo che si capisca che cinque secoli e mezzo di storia austriaca sono più lunghi di un secolo di italianità», sorride la studiosa Marina Rossi. I palazzi sul fronte mare sono al novanta per cento viennesi. E poi c’è il calendario, l’ecatombe che inizia un anno prima, nel ’14.
«Grazie, grazie che mi ha permesso per la prima volta di ricordare mio padre» dice commosso un ottantenne al telefono di Livio Missio, il giornalista incaricato di smaltire quella montagna di documenti. «Molti — racconta Missio — sono venuti di persona e hanno pianto di commozione». Il regista Franco Però sente «il sollievo di una città che respira, si libera e recupera il tempo perduto», e vede nella freschezza di quegli inediti un grande testo teatrale in potenza. Roberto Todero, che da anni fruga nelle trincee del Carso, dell’Isonzo e della lontana Ucraina, ha già fatto il pieno di adesioni per un pellegrinaggio ai cimiteri dimenticati dei Carpazi. C’è un ritardo da recuperare, perché Trento è più avanti. È da anni che la provincia sull’Adige si prepara senza reticenze alle celebrazioni: ricorda l’impiccagione di Cesare Battisti, ma censisce i morti di parte opposta con l’aiuto dei registri viennesi, delle anagrafi e delle parrocchie subalpine. A Trieste il risveglio è più tardivo. Troppo a lungo il teorema della città-bastione contro i barbari è stato strumento di scontro politico e ha ritardato la riconciliazione di Trieste con se stessa. «Fino a ieri — racconta Todero — l’Austria era evocata
solo come barzelletta o marcette militari semiserie », mentre i soldati triestini erano degradati a polentoni, e chi ne celebrava la memoria deriso come ridicolo austriacante.
Con la storia in ostaggio, i musei cittadini — quello della marineria in prima fila — sono rimasti elusivi pur di non testimoniare glorie palesemente non italiane. La Venezia Giulia dice poco di sé: non sbandiera di aver inventato l’elica navale o l’esplorazione artica con largo anticipo sui norvegesi; non dice che qui l’aviazione mondiale ha compiuto passi decisivi nel primo Novecento. Resistono, in compenso, falsi storici come il Leone di San Marco appiccicato dal Fascio al castello di una città che fu sempre avversaria di Venezia.
Da una mostra nel piccolo museo di Tarnova sul Carso emergono foto inedite di un mondo prebellico e felice. La stazione di Aurisina, bivio fra Trieste e Lubiana oggi dimenticato da Trenitalia, si mostra nereggiante di personale e con ristoranti di lusso sotto un ombrello in ferro stile Torre Eifel. Ed ecco alberghi e ristoranti popolati di nobili viennesi o ricchi cecoslovacchi; belle ungheresi in veletta portate a cavallo da stallieri serbo-croati. E poi le cave di marmo, con più di tremila addetti e filiali a Londra, Calcutta, Alessandria d’Egitto. «Il presidente Napolitano ci ha esortato a rileggere la storia» dice il promotore Joze Skerk, «e noi lo abbiamo ascoltato».
In un tripudio di eroi italiani in bronzo e pietra attorno a San Giusto oggi a Trieste c’è solo una piccola lapide ai Caduti in divisa austriaca, messa quasi “in castigo” sul retro del castello. Pochissimi, tra cui gli Alpini, vi depongono corone d’alloro. Il resto è silenzio. Un silenzio che sembra ritorcersi sui vincitori, persino sui ragazzi di Redipuglia o di Oslavia, i cui sacrari versano in stato di scandaloso abbandono. Nel più grande cimitero di guerra d’Italia cammini tra erbacce e pietre sconnesse su per scalinate dove il vento fa da padrone.