Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  maggio 18 Sabato calendario

SOLARINO “LO SPORT DÀ UN SENSO MIA VITA”

«Lo sport non è un hobby, è un’ossessione». Valeria Solarino non è tipo da pilates. «Mi sono iscritta in palestra più volte di quante ci sia andata. Ma quando vedo uno che corre in tuta penso che stia perdendo tempo: ma torna a casa, dove vai? Io non mi sento sportiva, non so neanche che significhi. Io non faccio sport: io prendo cantonate ». E l’ultima è per la racchetta. Lei voleva essere Agassi, altro che Claudia Cardinale: «È una mania. Mi sveglio pensando al tennis e mi addormento guardando le partite in tv su
Supertennis. Sono schiava del tennis».
Parliamone. «Gioco quattro o cinque ore alla settimana. Non penso ad altro. Non smetterei mai di giocare. È totalizzante, mi ha preso, mi ha trascinata. Mi piace perfino che la terra rossa rimasta sotto lo suole si sparga poi per casa per pesticciarla il giorno dopo. Sono malata, lo so. Ma il tennis è la mia follia, è qualcosa che va oltre: mi ha salvato la vita».
La vita, addirittura? «L’anno scorso da aprile fino all’autunno non avevo lavoro e buttarmi su una passione nuova così forte mi ha dato un senso. Adesso sto veramente bene e sono felice: so che quando non ho un set, ho un campo. Il tennis è regole, disciplina, obiettivi. Io sono molto competitiva, non ho mai giocato tanto per fare. Anche quando faccio snowboard in montagna devo avere qualcuno con cui gareggiare sennò mi annoio. Mi piace che ci sia qualcuno che mi guarda e mi giudica, mi va bene anche l’arbitro, altrimenti non ha significato». Altroché benessere e relax, solo agonismo. «Non mi piace la parola hobby, non la capisco. Quando avevo sei anni mia madre mi portava a fare ginnastica artistica e ritmica, quelle cose che si fanno fare alle bambine. Nella palestra accanto c’erano i più grandi che facevano le gare volteggiando su travi e anelli. Io volevo diventare così, ma la maestra mi disse che a quei livelli non sarei potuta arrivare: ho chiuso subito con la ginnastica, prima ancora di cominciare».
Ed arrivò la pallacanestro: tredici anni, dai 9 ai 21, fino alla serie C nel Moncalieri in provincia di Torino. «Il basket ha significato il passaggio dall’infanzia alla vita adulta, mi ha cresciuta, mi ha formato, mi ha regalato una delle mie migliori amiche, Sara, e mi ha insegnato il principio che vinci solo migliorando te stesso. Più sei bravo e più vai avanti: lo sport sì che è meritocratico. Ero una guardia, la mia specialità non era il tiro bensì la difesa: mi davano sempre da marcare quella più forte dell’altra squadra. Menavo anche, abbastanza. Mi piaceva l’allenamento, la fatica, l’unione con le compagne. Mi ricordo una delle ultime partite: avevo informato l’allenatore che avrei mollato la squadra per dedicarmi al teatro, lui s’arrabbiò e per ripicca mi tolse dal quintetto per tenermi in panchina tra le riserve. Perdevamo di brutto e a un certo punto mi mandò in campo a marcare la migliore delle altre: non fece più un punto, rimontammo, anche se poi non riuscimmo a vincere. Se avessi avuto per il basket la stessa spinta che ho ora per il tennis, avrei continuato».
Galeotto fu il libro. «La scorsa estate ho letto
Open di Andre Agassi. Un libro meraviglioso sulla vita: sul rapporto col padre, il dovere, il rispetto, l’odio e l’amore. Mi ha conquistato il senso mistico del suo approccio al tennis: continuare a ripetere gesti all’infinito come un robot puntando alla perfezione, la determinazione anche nel perdere, l’imparare dalla sconfitta e dagli errori. L’ossessione dell’obiettivo. A me angoscia l’idea di una vita che sia sempre quella, e già mi rendo conto di essere una privilegiata perché ho un lavoro che mi fa sognare. Sentire di avere limiti fisici che posso superare mi dà un’adrenalina pazzesca. Così mi sono buttata sul tennis». Buttata, proprio. «Sapere che quella palla corta un giorno potrò arrivare a prenderla o quel colpo riuscirò a piazzarlo come dico io, mi inebria. Sapere che c’è un futuro. Non gioco mai con gli amici, ma solo con gli istruttori. Perché se c’è uno di là che sbaglia, mi irrita. Così come trovo umiliante se dall’altra parte della rete c’è qualcuno che me la tira piano apposta, come fanno il mio compagno Giovanni o suo fratello Sandro. Il mio obiettivo è giocarmela con loro alla pari, è partecipare a un torneo e sentire gli avversari che dicono “oh no, c’è quella” perché mi temono. E per questo mi alleno solo coi maestri senza perdere tempo in partitine. Quando mi iscriverò a un torneo, dovrò essere pronta: l’idea di perdere male non mi va. Io per una sconfitta posso anche piangere». Il controllo delle emozioni, altro obiettivo: «Quando giocavo a basket i tiri liberi decisivi li sbagliavo. Sono sempre stata molto emotiva. Anche adesso magari dopo aver fatto un dritto incrociato perfetto, il mio colpo migliore, il maestro dice “chi fa questa vince” e io la sbaglio... Avere il traguardo di conquistare la lucidità e la freddezza necessarie mi piace tantissimo».
Estrae dalla borsetta il pass per gli Internazionali di tennis romani. «Sono andata a Torino a vedere la Coppa Davis. E al Foro Italico questa settimana ci sono stata tutti i giorni. Ho conosciuto Roger Federer e ho chiesto il primo autografo della mia vita. Non l’avevo voluto nemmeno da Bruce Springsteen, che è il mio mito fin da ragazza: avevo i suoi poster in camera, portavo la bandana come il Boss. Ma quando me lo sono trovata davanti qualche anno fa a un cocktail sono stata l’unica a non farsi la foto ricordo con lui. Federer no, è un’altra cosa. E ancora di più mi piace Nadal. Loro hanno la bellezza del talento. Mi innamoro di giocatori che se vedessi per strada neanche mi volterei a guardarli, sul piano estetico, intendo. Devo ancora capire cosa mi è successo: il tennis mi ha cambiato la vita...». E il sorriso con cui lo dice, prendendosi un po’ in giro, è come uno smash della Sharapova dritto sulle gengive.