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 2013  maggio 18 Sabato calendario

LA CRISI DELL’EURO E IL DEBITO SBAGLIATO

QUELLA dell’eurozona è una crisi di debito pubblico. La sua manifestazione più evidente è lo spread che i paesi con debito elevato devono pagare. L’austerità fiscale, agendo sul deficit per ridurre il debito, sarebbe dunque la cura giusta per uscire dalla crisi. La ritrovata capacità dell’Irlanda di collocare titoli di stato sul mercato, il miglioramento del rating della Grecia e lo spread dimezzato di Italia e Spagna rispetto ai picchi, dimostrerebbero che l’austerità funziona e che i limiti quantitativi al deficit pubblico imposti dall’Europa sono l’obiettivo da perseguire. Così non è.
Alla radice della crisi dell’euro non c’è l’ammontare del debito pubblico, ma la parte che è stata collocata all’estero: il debito pubblico esterno e interno sono diversi. Se cala la fiducia degli investitori nella capacità
dello Stato di onorare il debito, la domanda si contrae e il governo è costretto a pagare maggiori interessi. Per finanziarli, e recuperare la fiducia, il governo deve aumentare le tasse. All’interno del paese c’è una redistribuzione del reddito, in quanto i residenti che detengono il debito recuperano parte delle maggiori imposte sotto forma di tassi di interesse più elevati. Per i detentori esteri invece l’aumento delle tasse è un trasferimento di ricchezza netto, perché loro le imposte non le pagano; ma neanche le possono votare. I residenti, quindi, si oppongono a tassarsi a vantaggio dello straniero, che così percepisce il debito come maggiormente rischioso; e se ne disfa. L’unico modo per uscire dalla crisi è rimborsare il debito detenuto all’estero con il risparmio nazionale, attraverso un avanzo delle partite correnti. È il deficit esterno, non il deficit pubblico, l’obiettivo giusto.
Lo dimostra il Giappone che non ha mai avuto una crisi del debito pubblico, pur avendone più di tutti in rapporto al Pil. Con un avanzo stabile delle partite correnti, infatti, non ha mai usato capitale estero per finanziare il proprio debito pubblico, quasi totalmente in mano dei giapponesi.
Deficit e debito non sono un problema anche per gli Usa, pur essendo a livelli da Piigs, perché lo finanziano in una
moneta che controllano. I paesi dell’Eurozona in crisi, invece, non possono fronteggiare la contrazione della domanda estera per il proprio debito svalutando il cambio, e facilitando così la creazione di un avanzo delle partite correnti. Devono generare l’avanzo necessario esclusivamente con una forte contrazione della domanda interna, per destinare una maggior quota della produzione all’export, in cambio di pagamenti con cui rimborsare il debito all’estero. Di fatto, è la via europea all’uscita dalla crisi: l’austerità fiscale serve a questo, anche se l’obiettivo dichiarato è la finanza pubblica.
Nell’ultima parte del 2012, Grecia e Portogallo hanno raggiunto il pareggio delle partite correnti dopo deficit record (-15% e -13% del Pil); Italia e Spagna erano in leggero avanzo a fine anno, partendo da -3,5% e
-10%; e il “successo” irlandese si spiega con un avanzo esterno che ha raggiunto il 2% (da -6%). Questa tremenda e rapida compressione della domanda interna ha eliminato il fabbisogno di capitale estero dei paesi in crisi, che ora cominciano a rimborsare il debito collocato fuori confine.
Anche se è questa la strada per uscire dalla crisi, non vedo la luce alla fine del tunnel. L’avanzo con l’estero non basta: deve essere proporzionato al debito esterno e mantenuto per un numero sufficiente di anni. L’Italia, con titoli di stato all’estero pari al 38% del Pil, avrà bisogno per diversi anni di avanzi del 3-5%. Difficile sostenerne gli effetti depressivi così a lungo. Inoltre, lo squilibrio fra domanda e offerta di debito pubblico italiano è mascherato da interventi e moral suasion delle autorità: il 43% dei nostri titoli è in mano a Banca d’Italia, Bce, banche e assicurazioni italiane. Una percentuale eccessiva. Infine, i capitali esteri non fuggono solo dal nostro debito, ma anche dalle banche, che così dipendono dal credito della Bce. Ma le prospettive per le sofferenze, il rischio paese, e la bassa redditività, scoraggiano l’afflusso dei capitali. Dubito che il risparmiatore italiano, da solo, riesca a sostituirsi al capitale estero nel finanziare Stato e banche.