Vittorio Zucconi, la Repubblica 18/5/2013, 18 maggio 2013
LA BATTAGLIA DI LADY APPLE PER I PICCOLI IMMIGRATI
WASHINGTON
STRAPPATA dalla morte del marito al cono d’ombra e di timidezza nella quale la figura prepotente di lui l’aveva relegata, la vedova di Steve Jobs entra con forza nella vita pubblica e politica americana. Stringe fra le mani una carta che nessun uomo politico, nessun media, nessun ente di beneficenza può ignorare.
QUEI 17 miliardi di dollari che il genio della Mela ha lasciato a lei e figli andandosene due anni or sono e che intende calare per vincere la partita fondamentale della riforma dell’Immigrazione.
Come altre mogli di personaggi “larger than life”, di figure più grandi della vita, come la coetanea Melinda French coniugata Gates, tornato a essere con Microsoft l’uomo più ricco del mondo, anche Laurene Powell Jobs aveva scelto di rinunciare a una propria vita professionale e pubblica. Prima nella cura dei tre figli avuti da Steve, Reed, Erin ed Eve raggiunti dalla figlia adottiva Lisa (il nome del primo pc di Jobs, progenitore dell’Apple Mac) e poi nell’assistenza a lui durante la amarissima battaglia con il tumore al pancreas, questa signora oggi quasi cinquantenne si era autocancellata dalle cronache.
Se oggi torna sotto la luce non sempre tenera della politica e dell’attenzione nazionale con una prima intervista è perché una «Causa» per lei fondamentale l’ha chiamata. È il nodo attorcigliato dell’immigrazione, che stringe in un viluppo di passioni, di paure, di vite, di interessi l’esistenza di almeno venti milioni di “senza documenti” e dei loro figli. «Sono stata risucchiata inesorabilmente da questo dramma della riforma sull’immigrazione perché è una tale spreco di vite umane, di potenziale, di intelligenze che potrebbero fare tanto bene alla nostra nazione, oltre che a loro», ha detto
all’intervistatore della rete Nbc, Brian Williams.
Da tempo, Laurene Powell Jobs, californiana per seguire il marito nel 1991 dopo avere lavorato per la finanziaria Goldman Sachs a New York con il suo master in business, distribuiva i fondi ereditati in molte iniziative benefiche. Quasi sempre, i destinatari erano enti no profit dedicati al progresso scolastico e all’istruzione degli studenti a rischio di fallimento, ma il suo lavoro non aveva mai cercato pubblicità. Neppure la sua associazione con il Consiglio Nazionale per l’Istruzione, voluta da Obama nel 2010, l’aveva strappata all’ombra, con Steve Jobs ancora vivo.
La molla che l’ha spinta a vincere quel timore del pubblico che l’aveva sempre tenuta lontana dai monologhi e dagli show del marito, sono i figli degli immigrati non legali. Sono quei bambini e ragazzi che pur dopo anni di vita negli Stati Uniti e di scolarizzazione a spese anche dei contribuenti, restano appesi ai capricci e all’arbitrarietà delle leggi. «Il loro sogno è adesso », dice ora alludendo sia al titolo di un film documentario che sarà trasmesso dalla rete Nbcsia all’acronimo della legge di riforma, D. R. E. A. M, che la Casa Bianca sta cercando di spingere attraverso un Parlamento recalcitrante. «Non è soltanto questione di umanità, di generosità, di giustizia nel riconoscere che non possiamo punire i figli per quello che i loro genitori hanno fatto immigrando illegalmente. È questione di interesse nazionale».
La signora dai lunghi capelli biondi sulle spalle, ancora lasciati come piacevano al marito quando la conobbe più di vent’anni or sono, non ha l’impatto sull’opinione nazionale che Jobs aveva. Ma possiede, insieme con un cognome ormai entrato nella mitologia degli eroi americani, quel carburante capace di incendiare anche gli spiriti più refrattari. Da Steve ha ereditato la quota di maggioranza azionaria nella Disney, fantastica macchina dell’immaginario e della persuasione soft e con 17 miliardi a disposizione non c’è uomo o donna politici che non sia disposto ad ascoltarla. Non ha alcun interesse diretto, né ruolo, nell’azienda creata da Steve e oggi nella mani di Tim Cook né mai lo volle, neppure quando era la moglie del profeta vivente. Ma a neppure 50 anni, che compirà il prossimo novembre, con figli ormai ventenni, come il maggiore, Reed, o adolescenti, e con un bilancio privato che rivaleggia con il bilancio statale di molte piccole nazioni, Laurene ha sentito “l’orrore” di una vita ancora lunga davanti, con il solo problema di spendere quelle tonnellate di dollari. «Nonostante le mie lauree, non sono una donna d’affari».
Ma da discendente di immigrati lei stessa, e poi trapiantata dal New Jersey natale alla California, Laurene vede quotidianamente, nelle colline attorno alla casa dove visse con Steve a Palo Alto, lo scempio e lo spreco di intelligenze e di vite lasciate ai lavori più umili e mai sviluppate. «La mia citazione preferita è di un uomo politico che disse: non potrò mai votare leggi che avrebbero impedito a mio nonno di diventare americano». Vuole nuove leggi sull’immigrazione, più semplici da rispettare e da far rispettare, più umane ma più serie di quelle attuali che oscillano fra inutili repressioni e sfruttamento di fatto della illegalità. «Poi, piantiamo queste nuove pianticelle umane e facciamole fiorire», invoca, con una lontana, nostalgica allusione a quella generazione dei “figli dei fiori” che proprio nella California del marito conobbe una breve e intensa stagione.