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 2013  maggio 19 Domenica calendario

ALL’INFERNO E RITORNO

Rileggere l’Inferno porta via grosso modo una domenica, mattina e pomeriggio, con un’ora di pausa pranzo e mezz’ora per la passeggiata. Alla fine sono un po’ più di 14.000 versi, e nella domenicalità è compreso anche il diritto di non mandare a memoria tutto di tutti i personaggi menzionati da Dante: se passa di mente chi era Puccio Sciancato de’ Galigai, pazienza. È una domenica ben spesa: il libro è pieno di bellezze che uno si ricordava benissimo e che è un piacere ritrovare, mentre alcune se l’era dimenticate, o non ci aveva mai fatto veramente attenzione, e la lettura d’un fiato le fa venire a galla. Qualche esempio più avanti.
Prima, per essere sinceri, bisogna anche ammettere che il rilettore ogni tanto si annoia un po’. È una frase che indispone quando viene detta parlando di un vecchio film, figuriamoci quando si parla della Commedia, ma sì, certi passi sono un po’ lenti, anche in quel prodigio che è l’Inferno. Cioè: data la velocità massima di Inferno X, con Farinata che dà sulla voce a Dante e poi sciorina in cento parole mezzo secolo di storia fiorentina, e poi viene interrotto da Cavalcante, data questa concitazione, bisogna anche dire che in altri punti le cose vanno diversamente, e il rilettore è tentato di tirare via velocemente, o addirittura di saltare. Poniamo: tutta l’incredibile capacità che Dante aveva di sentire la materialità delle cose, e tanto meglio quanto più minute, diventa quasi mania quando spende quaranta versi per descrivere la fatica che lui e Virgilio fanno nello scendere in Malebolge. E, nello stesso canto, diciotto versi di similitudine per dire che la sua ansia si è dissolta («lo villanello a cui la roba manca... ») sono ovviamente uno splendido virtuosismo, l’impronta del genio, ma sono anche un po’ un’esagerazione. E si ha un bell’insistere sulla modernità di Dante: a rileggerlo di fila sembra tutto più medievale di come ci si ricordava, tutto pieno di simboli araldici da interpretare con in mano il libro delle equivalenze: lupa lonza leone vogliono dire avidità lussuria superbia; il fiume che si calpesta «come terra dura» vuol dire forse l’amore per la conoscenza; e nel quarto canto le allegorie si ammucchiano, s’ingorgano, o forse sono solo stereotipi che sembrano "stare per" qualcos’altro, ma insomma non sembra neanche Dante, sembra uno di quei romanzi di fate e cavalieri col loro mobilio di castelli fiumiciattoli giardini incantati: «Venimmo al piè d’un nobile castello, / sette volte cerchiato d’alte mura, / difeso intorno d’un bel fiumicello... ».
Ciò premesso, i piaceri non mancano, e sono soprattutto piaceri che derivano dal vedere come Dante ha risolto gli infiniti problemi che si trovava di fronte. Intanto, i personaggi. Dante poteva popolare la sua visione di figure simboliche, e invece l’ha popolata di gente in carne e ossa, che per una sfacciata licenza poetica si tiene la carne e le ossa anche nell’aldilà. Poteva mettere in scena le donne e gli uomini di cui aveva imparato i nomi nei libri. Dante fa anche questo. Ma fa soprattutto un’altra cosa, molto più originale: mette in scena donne e uomini prelevati dalla cronaca contemporanea. Dopodiché mescola antichi e moderni, li fa stare gomito a gomito per l’eternità nel suo aldilà immaginario. Salvo che nell’Inferno sembra esserci una regola in più, e la regola è che Dante vede personaggi che appartengono un po’ a tutte le epoche, ma ha un dialogo soltanto con personaggi che appartengono alla sua. Vede Semiramide, per dire, ma parla con Francesca. Risolto il problema di inventio relativo all’assortimento dei personaggi – tanti, e di epoche e paesi diversi – restava il problema della dispositio: come presentare tutta questa gente senza ripetere ogni volta la stessa formula, cioè senza annoiare? Ecco alcuni dei modi scelti da Dante. Ritardamento: Dante introduce un nuovo personaggio ma non dice se non dopo molti versi di chi si tratta. Sorpresa: il nuovo personaggio entra in scena all’improvviso. Catalogo: quando Dante, anziché parlare coi trapassati, si limita a pronunciarne il nome. Eccetera. A volte il procedimento è un po’ meccanico. Nel canto XVII Virgilio manda Dante a farsi un giro per la bolgia, mentre lui – come si fa con un taxista – prende accordi con Gerione. Dante va e incontra uno Scrovegni, che gli predice la dannazione di due altri usurai; dopodiché torna indietro e Gerione è pronto a partire. Un po’ meccanico. Ma di solito l’obbligo di variare sollecita delle supreme invenzioni di regia. Suprema tra le supreme quella che mette in fila i papi simoniaci nel canto XIX: quando un uomo sepolto a testa in giù che si rivela essere papa Niccolò III scambia Dante per Bonifacio VIII («sè tu già costì ritto, Bonifazio?») e prevede la dannazione sua e del suo successore Clemente V.
Altro problema da risolvere: sonno o veglia? Il viaggio della Commedia sarà un viaggio presentato come reale, vissuto in stato di veglia, oppure come un sogno? Di fatto, è una via di mezzo: Dante dice di aver perso il sentiero perché era «pieno di sonno», ma non dice di essersi addormentato. E nel seguito del racconto c’è poco o niente che possa far pensare a un sogno, e non c’è neppure una netta distinzione tra cose che vanno prese alla lettera e cose che vanno prese come simboli. Smarrirsi in un bosco, per noi, è subito un’allegoria. Ma smarrirsi in un bosco doveva essere un’esperienza che molti avevano vissuto, al tempo di Dante, e che tutti potevano figurarsi di vivere. Ma certo, quando Dante dice che la lupa reale che gli si para innanzi «molte genti fé già viver grame», sappiamo che la lupa vuol dire altro da quel che sembra. Eppure il lettore, e persino il rilettore, condivide l’angoscia del protagonista, che non sa qual è il monte che si trova a scalare, non sa perché contro di lui si schierano le tre fiere, non sa chi è l’uomo che lo salva mentre sta rovinando «in basso loco». È difficile pensare a un altro racconto medievale in cui il dubbio circa il luogo in cui si situa la vicenda è mantenuto così a lungo. Se fosse un sogno, tutto sarebbe chiaro. Se fosse pura allegoria, anche. Ma il fatto che sogno e veglia, lettera e allegoria non si lascino separare con un taglio netto acuisce il senso di mistero.
E poi, come ammobiliare la scena? Nel Paradiso la fantasia è libera, perché Dante deve descrivere l’esperienza inaudita dell’ascesa attraverso i cieli. Inferno e Purgatorio, invece, sono luoghi ultraterreni fatti di cose terrene, cioè di muri, sentieri, ponti, rocce, acqua, ghiaccio, fango, sterpi, fuoco... Questo richiamo alla terra ci ricorda un fatto che il lettore della Commedia tende a non vedere, e cioè che la gran parte di quella realtà che brulica nella Commedia esiste, di fatto, solo nelle similitudini. Chi ricorda i primi versi del canto XXI («Quale ne l’arzanà de’ Viniziani...») ha negli occhi l’arsenale di Venezia con gli operai che impeciano i legni delle navi, «chi da proda e chi da poppa». Ma è chiaro che tutto questo, sulla scena in cui si muove Dante, non c’è, sulla scena c’è solo un lago di pece bollente. È un’invenzione che sta dentro un’invenzione che sta dentro un’invenzione: Dante immagina l’inferno, e dentro l’inferno mette una pozza di catrame, e da questa pozza di catrame nasce l’arsenale di Venezia. In un modo non molto diverso, un sentimento d’angoscia produce tutti gli eventi e le figure che popolano una canzone come Tre donne intorno al cor: le tre donne non esistono veramente, eppure sono cospicue, eppure agiscono. È come se la realtà vista o sentita rimandasse ad altro: ma non a un altro simbolico, ad altra realtà – per contiguità, non per metafora. Ho riletto l’Inferno perché è uscito un nuovo commento alla cantica a cura di Saverio Bellomo. Recensire i commenti non è facile, perché di solito non si legge un commento da cima a fondo, specie quando si conosce già l’opera. Quello che posso dire in generale è che il commento di Bellomo non ha nessuno dei difetti che si trovano in altri commenti: non è mai retorico, non è inutilmente erudito, non è pletorico, cioè non dà informazioni che non siano utili alla comprensione del testo; l’annotazione è misurata, i problemi filologici illustrati e discussi senza bizantinismi. Le note messe al l’inizio e alla fine di ciascun canto mi sembrano, per le prove che ho fatto, un modello di rigore, chiarezza ed equilibrio. Inoltre, Bellomo può contare su una rara conoscenza degli antichi commenti alla Commedia, qui ottimamente messi a frutto. Nel complesso, mi pare una guida eccellente nella lettura dell’Inferno, forse la migliore.