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 2013  maggio 19 Domenica calendario

GLI ESECUTORI CHE RIACCESERO IL SUBLIME

Qual è la differenza che distingue, nelle arti e in particolare nella musica, l’intelligenza dal genio, la perfezione formale dall’irresistibile sovrappiù di energia, la consumata abilità dal miracolo irripetibile? Dov’è il salto tra la bellezza splendidamente manifestata e la bellezza ineffabile? Tra il Bello e il Sublime? Ed è vero, come osservò Rilke in Duineser Elegien I, 4-5, che oltre il Sublime è il Terribile e l’Indicibile? La risposta è variabile secondo il significato più preciso della domanda: parliamo del compositore o dell’interprete? Tra le due funzioni artistiche non c’è superiorità né inferiorità: il compositore non crea dal nulla, e, come l’interprete, inventa oppure trova, invenit, e l’uno e l’altro scelgono. Li guida l’intelligenza, e intelligere è inter-legere, scegliere "attraverso" o "fra" infinite possibilità, poiché sia il compositore sia l’interprete esistono nell’universo d’infiniti possibili. Infinite sono le combinazioni matematiche in cui si aggregano e succedono i suoni, infinite sono le evenienze del caso che gioca a dadi, infinite sono le relazioni sincroniche e diacroniche tra dimensioni e proporzioni. Einstein, Heisenberg e il vetusto Fibonacci fissano, anche qui, le regole del gioco.
Tuttavia, diverso è ciò che si chiede al compositore oppure all’interprete. Sono due funzioni complementari dell’ars musica, lo sappiamo. Il compositore prepara il terreno all’interprete, gli offre ciò che gli piacerà, lo accenderà, lo porrà a cimento, lo farà soffrire ed esultare. Compie il balzo e colma il dislivello tra l’esatta ed elegante osservanza della norma e il genio dinanzi al quale c’inchiniamo, se impara a sognare, e se ha in sorte occhi aperti da usare sognando. Qui però dobbiamo dedicare una riflessione agli interpreti, legati ai compositori da stretta relazione. La relazione dev’essere davvero stretta, se l’interprete-inventore vuole congiungersi con il compositore -inventore salendo al vertice della piramide sul quale tutti i punti si unificano. Ma all’interprete si chiede di sognare "un po’ meno" e di curare "un po’ più" l’attenzione durante la veglia, il che non significa che il compositore non deva essere accurato nel sognare, né che l’interprete non deva essere estroso nella veglia. Le due misure, "un po’ più" e "un po’ meno", sono talvolta minime, ma non risultano mai trascurabili, poiché nell’arte, e nella musica in particolare, possono diventare il differenziale tra il finito e l’infinito, e accrescere o diminuire gli spazi e i tempi quanto basta per condurre noi ascoltatori, aggrappati al vertiginoso ramo discendente dell’iperbole, in vista del nostro asíntoto.
La qualità dell’interprete, e il suo realizzarsi nella propria entelechia, il suo «divieni ciò che sei» («genoio hoios essí mázon», Pindaro, Pitiche , II, 72; F. Nietzsche, Ecce homo, sottotitolo), è affidata soprattutto al merito o al talento? Agli sforzi e agli studi e agli esercizi, o all’innata superiorità delle doti naturali? La domanda è stolida e ipocrita: occorrono entrambe le facoltà. Le dicotomie di questo tipo sono quasi sempre mentitrici. Il merito, gli sforzi, lo studio, non bastano di per sé al raggiungimento del Sublime, ma, perché si possa raggiungerlo, il genio a sua volta non basta, se il lavoro e l’esercizio non soccorrono. L’incrocio perfetto di eroismo e di genialità è raro: in compenso, possiamo esercitarci a riconoscerne l’esito. I documenti, ciascuno unico nel suo genere, che Il Sole 24 Ore propone all’ascolto dei lettori, ci permettono di udire, al vertice delle loro prestazioni artistiche, tre direttori d’orchestra, Arturo Toscanini (1867-1957), Herbert von Karajan (1908-1989), Wilhelm Furtwängler (1886-1954); cinque solisti di vari strumenti, ossia due pianisti, Arthur Rubinstein (1887-1992) e Arturo Benedetti Michelangeli (1920-1995), un violinista, Yehudi Menuhin (1916-1999), un violoncellista, Pablo Casals (1876-1973), un chitarrista, Andrés Segovia (1876-1973); due leggendari cantanti d’opera, il tenore Enrico Caruso (1873-1921) e il soprano Maria Callas (1923-1977).
L’assoluta superiorità dell’interprete è individuabile in varie qualità. Più numerose sono quelle non calcolabili né definibili con precisione: tuttavia, se non le definiamo, ne avvertiamo la presenza. Ma ad alcune di quelle caratteristiche possiamo forse dare un nome.
È molto visibile, in un musicista interprete, la capacità di riconoscere l’idea di centro come fine ultimo dell’artista, come criterio di lavoro e come forma simbolica, a un tempo, della musica e del cosmo. La "perdita del centro" è stata, nel secolo XX e in particolare dopo la Seconda guerra mondiale, la chiave interpretativa delle rovine subìte dall’Occidente tra il 1914 e il 1945, e delle antiche premesse di tali rovine, fra le quali l’egemonia della tecnica trasformatrice, disumanizzante, mercificante e reificante. Thomas Stearns Eliot, negli anni in cui Toscanini cominciava a capire che il regime fascista lo avrebbe costretto a lasciare l’Italia, metaforizzava come aridità e siccità la prossima fine della grande creatività civile e sociale dell’Occidente (in The Waste Land). Nel 1935, Walter Benjamin si domandava quale sarebbe stato il destino dell’opera d’arte in un’epoca in cui essa sarebbe stata riproducibile all’infinito e privata dell’irripetibile aura posseduta dall’opus unicum. Nel 1947, Dialettica dell’illuminismo di Theodor Wiesengrund Adorno e Max Horkheimer si aprì con una considerazione cinerea: «la terra interamente illuminata risplende all’insegna di trionfale sventura». Nel 1948, due libri fondamentali si proposero il ritrovamento della centralità smarrita ma forse non perduta: il saggio di Hans Sedlmayr sulle arti visive, in cui il concetto è nel titolo stesso (Verlust der Mitte, "Perdita del centro"), e Notes towards the definition of culture di T. S. Eliot. Riflettiamo sui significati della musica intesa non come "intrattenimento" o "décor" bensì come una fra le supreme manifestazioni dell’attività intellettuale e del lavoro culturale, e ci accorgiamo che l’immenso lavoro compiuto da Toscanini lungo settant’anni di organizzazione e di educazione di numerose compagini orchestrali di qua e di là dell’Atlantico è storicamente inestimabile proprio grazie al suo procedere nella direzione della centralità. La sua mano ferrea, persino «crudelmente severa» così come fu da alcuni giudicata, non è stata soltanto uno strumento di disciplina artistica, ma anche un segno forte, avverso alla deriva della storia: uno dei rarissimi elementi di saldezza e di energia in un’epoca in cui si sarebbe dovuto tendere alla ricostruzione dell’Occidente, mentre troppe forze in gioco pretesero di definire "sviluppo" ciò che era, nella maggioranza dei casi, tendenza alla dissoluzione o, quanto meno, allo svigorimento.
Toscanini è stato oggetto di aspre critiche, soprattutto da parte di Adorno, a causa di uno spirito eurocentrico e per così dire "romanticocentrico" decisamente "naïf": pure, nessuno ha potuto negargli la bellezza del suono orchestrale, la misura classica dei tempi direttoriali, la tendenziale fedeltà alle partiture originali, e probabilmente oggi, dopo decenni di quarantena, è il momento di riscoprire il fascino delle sue esecuzioni. Considerazioni parallele possono valere, e non sembri strano, per un grandissimo e quanto mai longevo solista, Segovia, al quale si deve una maniera originale e molto esplicita d’intendere la centralità della musica nella cultura occidentale, e, d’altro lato, lo sforzo di restituire a uno strumento divenuto marginale nell’era romantica e falsamente ridotto a una funzione "suggestiva" e "caratteristica", qual è la chitarra, il suo posto d’onore nella letteratura strumentale.
Proprio la presenza della centralità come forma simbolica sempre presente quale fine (anche in senso reciproco: il reale come centro dell’arte musicale e del lavoro di un musicista, la musica a sua volta come centro dell’esperienza reale) dà energia ed efficacia a ciò che altrimenti, nel lavoro del musicista, potrebbe essere abbandonata alla velleità e alla casualità. Così acquistano significato decisivo, e divengono connotazione di stile e di personalità, la tensione assoluta senza fine di Karajan, la forma mentis filosofica di Furtwängler («Bach è l’Essere, Mozart è l’Accadere, Beethoven è il Divenire», Dialoghi sulla musica, 1951), la signorile ritrosia di Benedetti Michelangeli la cui personalità artistica parve desiderare di nascondersi e volle a tal punto levigarsi e affinarsi da apparire quasi cancellata, l’altissimo impegno civile e politico di artisti come Menuhin e Casals in nome della libertà e contro ogni ideologia autoritaria (nelle loro esecuzioni se ne avverte inequivocabilmente il segno), il trionfo dell’arte da parte di un artista nato di umile stato e dalle immense doti naturali quale fu Caruso, il mistero della Callas, rimasto in gran parte insondato dopo la sua morte ma certo da considerarsi il vero segreto della sua forza invincibile, la straordinaria fortuna di doti fisiche, intellettuali e morali dell’artista che Thomas Mann ravvisò in Rubinstein, da lui definito «l’uomo più felice che io abbia conosciuto».