Matteo Renzi, il Fatto Quotidiano 19/5/2013, 19 maggio 2013
QUANDO B. MI DISSE: TU NO, PREFERISCO LETTA O AMATO
Le ore in cui il presidente Napolitano sceglie Enrico Letta sono per me una vera e propria esperienza sulle montagne russe. Le consultazioni si tengono martedì 23 aprile. E la sera prima ricevo – abbastanza a sorpresa – l’invito di considerare la mia candidatura per guidare il governo. Bersani, che ha vinto le primarie, è bruciato e si è dimesso. Il Pd deve comunque indicare un nome mentre si va verso il governo di larghe intese.
Ho detto in tutte le interviste che io non sono della partita e che se capiterà mai di salire le scale di Palazzo Chigi, questo avverrà attraverso la strada maestra della vittoria elettorale, non in altro modo. Improvvisamente sono costretto a pormi il problema di cosa fare se per caso il presidente mi chiamasse. L’ipotesi che consideravo impossibile, infatti , prende corpo nelle telefonate più stravaganti. Dai miei avversari interni nel Pd, che sono i “giovani turchi”, ai sindaci delle città più importanti, da leader esperti come Veltroni e Casini, da sinistra a destra ricevo molti incoraggiamenti a mettermi in gioco.
I MIEI AMICI sono ovviamente terrorizzati: “Matteo, questo è un trappolone. Cercano di fregarci”. La stampa rilancia con insistenza, io sono preoccupato e, come sempre, divertito. Mai prendersi sul serio, mi ripeto. Il mantra è una frase di Chesterton, uno dei miei autori preferiti: “Gli angeli possono volare solo perché non si prendono troppo sul serio”. E, da Calvino in poi, “leggerezza” è una delle mie parole preferite. Arrivano attendibili conferme. In ballo pare esserci una terna: Amato, Letta, Renzi (...)
L’iPhone consuma rapidamente più di una batteria. La partita è in mano ai professionisti e un democristiano di lungo corso come Dario Franceschini, che ormai ribattezzo Arnaldo o Mariano negli sms, costituisce un punto di riferimento. Mi sembra assurdo non parlare vis-à-vis con Enrico Letta: in questo caso siamo considerati in competizione, ma siamo innanzitutto amici. Raro esempio di cordiali relazioni tra un fiorentino e un pisano, dai tempi di Dante Alighieri! Fissiamo di vederci a quattrocchi in un luogo tabù per i media, nascosti ai fotografi in un ufficio privato in pieno centro. Ci nascondiamo, dunque. Altro che streaming. La giornata è piena di riunioni e appuntamenti, ma riusciamo a prendere al volo qualcosa da mangiare. Continuo a non capire perché a Roma, solo a Roma, la schiacciatina con il prosciutto crudo si chiami pizza. Ma quella che prendiamo insieme a una coca e una birra è molto buona. Ci parliamo, guardandoci in faccia: chiunque sarà il candidato avrà il totale appoggio dell’altro. Basta con il derby dei personalismi per cui siamo tutti amici e poi basta girare per trovarsi una coltellata alle spalle. Anche questo è frutto della rottamazione: si può collaborare, a viso aperto. Anziché farsi la guerra di soppiatto. Letta lascia l’ufficio e io cerco di capire che sta succedendo nel centrodestra. Alla fine mi risolvo a chiamare al telefono Angelino Alfano. Quando è stato ministro della Giustizia ho lavorato in modo molto fattivo con lui per trovare i soldi per finire il nuovo tribunale di Firenze e per realizzare la Scuola della magistratura a Castelpulci. Dunque lo conosco. E l’ho visto all’opera come un pragmatico. Gli chiedo conto delle loro posizioni.
LUI È MOLTO sincero e io lo apprezzo molto quando mi spiega che loro hanno altre preferenze. Lo ringrazio e mentre stiamo terminando la conversazione, cambia tono. Ehi, Matteo, è appena entrato Berlusconi: te lo passo, così ci parli direttamente. Avevo visto Berlusconi qualche giorno prima, per una cerimonia pubblica, e mi aveva lungamente illustrato le strategie per la panchina del Milan. Dall’altro lato della cornetta la voce è cordiale. “Non c’è un veto nostro, caro sindaco. Semplicemente non vogliamo te, preferiamo Amato e Letta”. C’è un problema di vocali, insomma: volevo prendere il voto dei delusi di Berlusconi, arrivo a prendere il veto.
È un’apofonia vocalica che non costituisce per me motivo di delusione, ma di divertita soddisfazione. Penso a quanto sono stato mediaticamente insultato nel mio partito per essere la “spia” di Berlusconi. Dopo tutto quello che mi hanno detto nel mio partito, adesso si scopre che non sono propriamente nel cuore del Cavaliere. Anzi, se c’è un nome che preferisce evitare, quello è il mio. Dormo molto sereno, sapendo di essere fuori dalla partita. Al mattino mi svegliano i messaggini: mentre i giornali danno per certo Amato, so che il Colle ha scelto Letta. Quando Enrico mi scrive, il suo sms è irriferibile: scopro che nei momenti di solenne intensità istituzionale il nuovo primo ministro usa lo slang pisano. Il premier incaricato sale al Colle mentre io saldo il conto in albergo, prendo il Frecciarossa e torno a Palazzo Vecchio. Inforco la bicicletta d’ordinanza e mi precipito in Oltrarno a fare un sopralluogo in un cantiere bloccato da settimane, come da segnalazione dei cittadini. La politica per me riparte da lì, dalle cose concrete. Cosa mi rimane di queste settimane così intense? Mi rimane la politica.