Gianni Trovati, Roberto D’Alimonte, Il Sole 24 Ore 19/5/2013, 19 maggio 2013
FISCO E IMMOBILI, UN RIORDINO CHE VALE PIÙ DI 50 MILIARDI
MILANO
Più di 50 miliardi da rivoluzionare in 100 giorni, o anche meno se si vuole chiudere i giochi a luglio. I due numeri indicano bene l’arditezza della sfida che si è lanciato il Governo con il decreto «blocca-Imu» approvato venerdì, che sospende la prima rata per abitazioni principali, terreni agricoli e case popolari ma condiziona il «superamento» dell’imposta richiamato dal premier Enrico Letta all’«attuazione» della «riforma complessiva» del Fisco sul mattone entro il 31 agosto. Una sfida tentata senza successo sia dal Governo Berlusconi, con il federalismo fiscale lasciato a metà, sia dai tecnici guidati da Mario Monti, che avevano scritto una delega fiscale naufragata per le esigenze elettorali dei partiti.
Ora il vincolo esterno, legato all’ipotesi improponibile di richiamare alla cassa a metà settembre i contribuenti "esentati" venerdì a causa di un fallimento della riforma, aumenta le chance di un intervento. Difficile naturalmente prevedere davvero in 100 giorni un riordino complessivo, che ridisegni anche i rapporti tra Fisco erariale e locale come promesso dal decreto, ma gli inciampi nel sistema attuale non mancano, e con loro le occasioni di riforme migliorative.
Fra le tante imposte che pesano oggi sulla casa, i difetti principali sono concentrati nelle ultime arrivate, Imu e Tares, e sono aggravati dal fatto che l’emergenza finanziaria ha ingigantito il peso di queste due nuove protagoniste. Il decreto di venerdì sospende una rata da 2,4 miliardi, quindi un’entrata annuale complessiva da 4,8: circa il 20% del gettito totale dell’imposta, ma è sull’altro 80% che si addensano i problemi più gravi.
Il primo, come mostrato dal Sole 24 Ore nei giorni scorsi, è il sovraccarico fiscale che grava su imprese, alberghi e negozi: qualunque economista, di qualsiasi orientamento culturale e politico, sottolinea che lì bisogna intervenire se si vuole provare a innescare una dinamica in grado di intercettare le speranze di ripresa dell’attività economica. Non serve nemmeno una laurea in economia, del resto, per capire che è insostenibile un’imposta che raddoppia (o in qualche caso triplica) mentre la crisi dei consumi colpisce i bilanci aziendali e i margini di negozi e attività turistiche.
Da questo punto di vista, il decreto di venerdì ha rinunciato a qualunque intervento immediato (per esempio la cancellazione dell’aumento dell’8,33% che le basi imponibili di capannoni, alberghi e centri commerciali subiscono anche quest’anno), ma ha inserito d’ufficio nei primi punti della riforma futura la deducibilità dell’Imu dalle imposte dirette sul reddito d’impresa. A livello di sistema, la mossa (se attuata) ha qualche vantaggio, perché può interessare un ventaglio amplissimo di attività e non inciampa nell’ostacolo delle compensazioni ai Comuni dal momento che impatta direttamente sulle imposte statali. I primi conti (si veda il grafico a fianco) mostrano che una misura di questo genere può certamente limare il peso dell’Imu, ma non è certo in grado di far tornare il carico fiscale ai tempi dell’Ici, oggi considerati aurei visti gli sviluppi successivi. Un capannone di 2mila metri quadrati a Milano (dove l’Ici era al 5 per mille), nel 2011 versava al Comune poco più di 13mila euro, mentre con l’Imu il conto è volato oltre quota 36mila: la deducibilità dall’Ires produrrebbe uno sconto di 10mila euro, portando l’Imu "netta" a 23.280. Diecimila euro più dell’Ici, diecimila meno dell’Imu 2012.
Accanto a imprese e negozi, comunque, la fila di nodi fiscali in attesa di scioglimento è sterminata: ci sono i maxi-aumenti subiti dalle case in affitto (maggiori rispetto a quelli degli immobili "a disposizione", dal momento che nel loro caso è scomparsa l’Irpef), il colpo inferto ai canoni concordati, c’è il debutto deludente della cedolare secca. E ci sono 100 giorni per provare a risolverne qualcuno.
Se poi si considera il versante del prelievo locale il percorso della riforma dovrà tener conto di un’altra emergenza, quella della riscossione. Proprio ieri il presidente facente funzioni dell’Anci, Alessandro Cattaneo, ha chiesto almeno sei mesi di transizione «per non perdere 13 miliardi di euro», di cui almeno 2,5 collegati alle multe. Questo per evitare l’addio di Equitalia senza che si siano prima costruite le condizioni per il passaggio di consegne ad altri soggetti nella riscossione.
Il problema è quello dell’uscita dell’agente nazionale della riscossione, in calendario per il 30 giugno. Già da domani, in realtà, secondo le richieste di Equitalia i Comuni dovrebbero smettere di inviare nuovi ruoli, ma nella maggioranza dei 6mila enti (il 75% del totale) non c’è nessuno pronto a subentrare all’agente nazionale. «Non vogliamo nuove proroghe, e nemmeno che Equitalia continui a gestire le riscossioni – chiarisce Cattaneo - ma serve una normativa e almeno sei mesi per gestire la transizione». I sindaci chiedono che l’addio di Equitalia non travolga le cartelle già lavorate e non arrivate a riscossione, e che si dia il tempo alle amministrazioni locali di bandire le gare per gli affidamenti a nuovi soggetti.
Gianni Trovati
ABOLIRE IL SENATO? SI PUÒ IN POCHI MESI –
L’abolizione del Senato contribuirebbe in maniera rilevante a risolvere vari problemi: sistema elettorale, semplificazione del processo legislativo, costi della politica. A differenza di altre riforme si può fare subito perché è indipendente dalla definizione della forma di governo. La scelta del nuovo sistema elettorale non si può fare senza decidere, prima o contestualmente, su parlamentarismo razionalizzato, cancellierato, semi-presidenzialismo o neo-parlamentarismo (il modello italiano, cioè elezione diretta del presidente del consiglio). In questo la destra ha ragione. Per fare una buona riforma elettorale non si può prescindere dalla architettura istituzionale complessiva. O almeno così dovrebbe essere, anche se in passato non si è proceduto in questo modo. Ma quello che è vero per il sistema elettorale non è vero per la riforma del Senato. Questa si può fare subito perché è compatibile con qualunque forma di governo. Se ne discuta quindi ora senza aspettare che vada a regime la complessa macchina riformatrice cui sta lavorando il ministro Quagliariello. Si dia un segnale concreto al Paese. Invece ci si perde in diatribe su impossibili resurrezioni o improbabili clausole di salvaguardia. Da tempo la sinistra propone il ritorno alla legge Mattarella facendo finta di non sapere che si tratta di una proposta irricevibile dal Pdl. Quel sistema elettorale è stato sostituito nel 2005 perché Berlusconi si è accorto che i suoi candidati nei collegi uninominali raccoglievano meno voti delle liste di partito cui erano collegati. E, a differenza di certi commentatori superficiali, ha capito che il problema non stava nella scelta dei candidati ma nella natura del suo elettorato che mal sopportava la disciplina imposta dal collegio. Sia nelle politiche del 1996 che in quelle del 2001 un milione e mezzo di elettori di destra invece di votare nei collegi i candidati comuni della coalizione hanno votato candidati minori. A sinistra invece queste defezioni non si sono verificate. Qui sta la vera ragione della riforma elettorale del 2005. Da questo punto di vista non è cambiato nulla. Dunque, cosa fa pensare che Berlusconi possa cambiare idea? Solo ingenuità o malafede possono spiegare la "favola" che il Cavaliere possa accettare come temporaneo il ritorno alla Mattarella in attesa di una riforma complessiva. La resurrezione del collegio uninominale è legata inestricabilmente alla modifica della forma di governo. Berlusconi e soci lo hanno detto in tutte le salse: accetteranno i collegi uninominali solo se abbinati alla elezione diretta del presidente della Repubblica. Hic Rhodus, hic salta. Ma data l’impopolarità dell’attuale sistema di voto nemmeno la destra può far finta di niente. E così pare che Quagliariello stia lavorando ad una modifica del cosiddetto Porcellum per poter tornare rapidamente alle urne in caso di necessità. Quale modifica? Forse il voto di preferenza, cosa che comunque a Berlusconi non piace. Ma questo non risolverebbe il nodo del premio e del suo potenziale distorsivo. Per questo occorre pensare ad una soglia per farlo scattare. E con ciò torniamo all’autunno dello scorso anno quando si tentò di fare una cosa del genere senza successo perché se la soglia è troppo bassa non serve e se è troppo alta ci fa tornare dritto, dritto alla proporzionale della prima repubblica. Magari questa ultima soluzione potrebbe piacere a tutti in una situazione in cui non è chiaro chi possa vincere al prossimo giro, o proprio per non far vincere nessuno, ma se invece un vincitore atteso si dovesse delineare, nemmeno questa modifica passerebbe. Ma forse Quagliariello sta pensando anche alla introduzione di un premio nazionale al Senato che difficilmente però può essere accettato da una sinistra che i sondaggi danno ora perdente. A ben vedere, come nel caso della riforma del Senato, una soluzione semplice ci sarebbe per migliorare l’attuale sistema di voto in attesa di sviluppi costituzionali futuri. Si tratterebbe di introdurre voto di preferenza e doppio turno per l’assegnazione del premio di maggioranza. Con la prima modifica si accontenta chi vuole che siano gli elettori a scegliere i candidati. Con la seconda si impedisce che una coalizione con il 29% dei voti possa avere il 54% dei seggi. Ma le riforme troppo semplici sono rischiose per una classe politica impaurita. E allora aspettiamo, ma senza troppe speranze, la Corte costituzionale.
Roberto D’Alimonte