Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 18/5/2013, 18 maggio 2013
LAVORO? COPIAMO DALLA GERMANIA
«La vera riforma del lavoro sarebbe quella: copiare la Germania»: la voce di Sergio D’Antoni, nisseno, classe 1946, è pimpantissima come sempre. È un ex sindacalista certamente, ha guidato la Cisl a lungo, ma è tutt’altro che un ex politico del Pd, dopo aver tentato in proprio con la Democrazia europea di Giulio Andreotti, quindi con l’Udc. «Sono sempre in campo», spiega, «si può far politica in vari ambiti, a vari livelli.
Mi conoscono tutti: io continuo. Ci saranno le occasioni». Intanto, non si sottrae all’opportunità di dire che anziché rinconcorrere riforme dell’articolo 18, per dare nuovo smalto all’occupazione sarebbe da adottare la cogestione tedesca, con i sindacati nei comitati di sorveglianza.
Domanda. Le pare possibile, in Italia?
R. Certo. E perché no? Anzi, i nostri padri costituenti, quando scrissero l’articolo 46, avevano chiaramente in testa quella soluzione. Solo una destra chiusa e una sinistra massimalista hanno impedito in Italia l’adozione di quel modello. Che in Germania ha superato crisi importanti.
D. Ce le vede le rappresentanze di base dare i voti agli amministratori delegati?
R. Sì, come accade in Germania nei consigli di sorveglianza che entrano nel merito delle scelte prese dai manager nei comitati di gestione. Anzi, sarebbe un aiuto a superare la crisi perché contribuirebbe a creare una cultura nuova, segnerebbe una ripresa di protagonismo dei lavoratori. Il governo lo potrebbe fare, ora. Il mio partito, il Pd, potrebbe impegnarsi su questo versante.
D. Lei dice che il punto è quello: aprire a una cogestione?
R. Guardi che è cambiato il ruolo stesso dei lavoratori. Poco tempo fa il tema era la polemica contro Sergio Marchionne che voleva trasferire tutto negli Stati Uniti. Ora Marchionne non ha il problema di scontrarsi con la Fiom ma di fare i conti con il fondo pensione dei lavoratori Chrysler, che l’hanno aiutato a salvare l’azienda e che oggi, per uscire dal capitale, vogliono moneta sonante.
D. Le risorse per fare queste operazioni però, da noi, non ci sarebbero_
R. Infatti, ma, appunto, la compartecipazione non costa niente: facciamola.
D. Qualcuno obietterà che siamo un paese di piccole e medie imprese, in cui sarebbe inapplicabile.
R. Lo faremmo sin dove potremmo, intanto. Generando una cultura diversa, che si estenderebbe. Funziona anche in tempi di crisi: alla Volkswagen, quando le vacche erano magre, gli operai si sono ridotti il salario e l’orario, quando sono tornate quelle grasse hanno redistribuito.
D. Cosa dovrebbe fare poi, il governo di Enrico Letta? Si accinge a trovare un miliardo per la cassa integrazione in deroga_
R. Forse ce ne voleva 1,5 ma è stato importante farlo entro maggio ed è un segnale positivo. C’è un iter parlamentare, ci sarà un approfondimento serio, si faranno i calcoli e si troverà il restante. Poi però il premier ha da fare altro_
D. E cioè
R. Farsi dare dall’Europa margini di sblocco sui conti sui Patti di stabilità. È un’espressione che va molto di moda, golden rules, ma è quello ci vuole: gli investimenti dedicati all’occupazione non siano calcolati nel rapporto deficit/Pil.
D. L’Europa capirà?
R. E perché no, mi scusi? È un governo politico, credibile, credibilissimo. E non dimentichiamo che siamo il primo paese per avanzo primario consistente al netto degli interessi: non ce l’ha nemmeno la Germania un avanzo così. Se il debito è aumentato è per i soldi che diamo all’Ue, per i 43 mld che conferiamo al fondo salva euro. E poi Letta può fare un’altra cosa_
D. Siamo già a tre, D’Antoni, ma c’è la tenuta politica?
R. Questo è un altro paio di maniche. Conosciamo le difficoltà, inutile ripercorrerle. Ciò non toglie che l’esecutivo debba puntare a far il meglio, anzi è la condizione perché tenga. Ma le dicevo, c’è un’altra cosa.
D. Dica pure_
R. Un intervento sulle zone deboli usando i fondi europei. Ci sono ancora miliardi non spesi nei fondi 2007-2013, Letta metta in campo una task force nel più breve tempo possibile e trovi un accordo con le Regioni. Con due miliardi di presi da là può mettere in campo due crediti di imposta: uno per gli investimenti e uno per l’occupazione.
D. Funziona?
R. Guardi Fabrizio Barca, da ministro della Coesione, lo ha fatto con 140 milioni nell’occupazione e le cose sono andate molto bene. È provato che ogni euro di credito di imposta, in queste condizioni, ne genera altri cinque di investimenti. Può essere il motore giusto in tutte le aree deboli.
D. Barca, mi fa tornare in mente il suo partito. Lei ha salutato positivamente la nomina del suo ex collega Guglielmo Epifani, come traghettatore. Ora però arrivano già altri nomi, come Sergio Chiamparino_
R. Tanti nomi e a me sembra davvero troppo presto. Serve a tutti trovare un equilibrio che ci faccia gestire al meglio il partito e il rapporto con il governo. Epifani è l’uomo giusto. Le candidatura sono state lanciate sin da ora con troppa fretta. Discutiamo dei temi e non delle persone.
D. Le ferite lasciate dalla gestione del dopo voto e delle elezioni presidenziali sono profondissime. Ce la farà un congresso? Alcuni dicono che, se non escono allo scoperto i 101 «traditori di Romano Prodi», non se ne verrà fuori_
R. Eh no. Allora perché non partiamo dai 200 voti che sono mancati a Franco Marini? Che differenza c’è? C’era un nome, una linea, una figura condivisa come deve essere la prima carica dello Stato ed è stata bocciata. Così come si è sovvertita, è vero, quella successiva. Ma le due cose stanno insieme: non si può chiedere di discutere la seconda senza la prima. Basta così o non la finiamo più. Intanto del congresso definiamo il campo, le regole_
D. Anche lei è favorevole a scindere le figure di segretario e di candidato premier?
R. L’abbiamo già fatto per Matteo Renzi, direi che sarebbe inutile tornare indietro. L’importante è fare tesoro degli errori compiuti: io sono ottimista.
D. Cosa gliene dà motivo?
R. Dal fatto che siamo l’unico partito in campo e questo ci si scorda sempre.
D. Dice che gli altri sono partiti personali?
R. Beh, non è che Pdl sia un partito su: è grande movimento dietro un leader o un padrone, ognuno lo chiami come vuole. E il M5s poi: s’è un partito quello, io sono africano. La vicenda di Mario Monti e Scelta civica non è stata poi brillantissima, Fli e Udc spariti.
D. Sulla forma partito, il già citato Barca ha prodotto pensiero_
R. Visione molto ambiziosa, le cose sono più semplici, al di là del linguaggio che mi pare complicato. Si tratta di trovare giusto equilibrio fra iscritti, elettori e stabilità dei gruppi dirigente. E collegarsi alle forme organizzate che sono nella società, alle élites complessive di questo paese. Perché la crisi, non nascondiamocelo, è anche lì. Anche nelle imprese. C’è una crisi di classe dirigente.
D. Chi sconta qualche patema è anche il sindacato. A voi tiravano i bulloni (a lui, a Milano nel 1992, per l’appoggio della Cisl all’accordo sulla scala mobile). Questi si ritrovano, come a Torino, il 1 maggio, i cartelli inneggianti allo sparatore di Montecitorio.
R. Noi (si ferma, ride, ndr). Un «noi» sentimentale, mi scusi. Dicevo: il sindacato continua a essere deciso contro ogni violenza e a farlo con impegno. Sono casi isolati nella piazza. Il sindacato su questo terreno è deciso: non ho dubbi, non ci sono tentennamenti. Certo l’unità, in questo caso, come per tutto il resto è decisiva.
D. E nella sua Sicilia, come va? L’altro giorno c’era un segretario regionale Cisl arrabbiatissimo con Rosario Crocetta_
R. La crisi colpisce in tutta Italia, figurarsi nelle zone deboli. Ci vuole il coinvolgimento di tutte le parti sociali. E a volta qui si fanno troppi annunci.
D. Dice Crocetta?
R. (Ride, ndr) Non vorrei farne anche io, però nessuno ce la può fare da solo, né Crocetta né Mandrake. Abbiano l’umiltà e la capacità di dare tutti un contributo. Non si può fare sempre appello al popolo: a volte il popolo non risponde, come la vicenda del Pd, a febbraio, ha dimostrato.
D. Dica la verità faceva bene il Pd a candidare Pippo Baudo, suo compagno di partito in Democrazia europea, come ha rivelato lo stesso presentatore?
R. Io mi sono battuto moltissimo per candidarlo alle regionali del 2006, ai tempi di Prodi, quello era il momento. Lui non volle abbandonare il suo lavoro, non se la sentì e fu un peccato. Quel tentativo lo rivendico. Il resto, non so, mi sono parse chiacchiere.