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 2013  maggio 19 Domenica calendario

LO YACHT DI BOSSI JR ERA UNA BUFALA E L’ASSALTO AL CARROCCIO COLA A PICCO

E adesso, cosa farà il mar­mittone tunisino piazza­to sul molo del porto di El Kantaoui a montare la guar­dia alla barca - un grezzo motoscafo­ne, a dirla tutta - di­venuto il simbolo ­della voracità della politica italiana, del nuovo leghista evoluto in vecchio, incontenibile tra­sporto per i confort della vita? Lo «Stel­la», entrobordo da venti e passa metri che per la Guardia di finanza apparte­neva a Riccardo Bossi, figlio primo­genito del fondato­re della Lega Lombarda, esce repenti­namente dalle cro­nache della nuova Tangentopoli in sal­sa Carroccio. La barca non è di Bos­si junior: questa è l’amara verità che consegna alle cro­nache il verbale di interrogatorio del vero proprietario della barca. Il figlio del Senatùr, confermando in questo l’im­pressione di non essere partico­larmente astuto, se ne vantava con le ragazze come di cosa sua. Invece era di un amico che qualche volta, e con parsimo­nia, gli permetteva di salirci a bordo. Tut­to qua. Non c’en­trano i fondi ne­ri della Lega, i diamanti di Bel­sito, i finanzia­menti pubblici sperperati nel mantenimento del­la «family», come nel­le cart­e dell’inchiesta veni­va definito il cerchio magico dei parenti di Umberto Bossi. E quel che ne resta alla fine è, a ben vedere, un apologo su co­me i massmedia riescano ad entusiasmarsi per i luoghi comu­ni, l’ovvio, il clichè che - a volte meritatamente - incombono sui protagonisti della seconda Repubblica.
Il verbale di interrogatorio di Stefano Alessandri, un signore romano di 55 anni, reso alla Guardia di finanza e approdato ieri sulle pagine del Fatto Quoti­diano - organo di stampa non sospettabile di indulgenza ver­so le disinvolture della casta- la­scia pochi dubbi. Di prestanome che cercano di salvare il pro­prio politico di riferimento so­no piene le cronache. Ma in que­sto caso si può escludere che si tratti di un alibi graziosamente offerto a Riccardo Bossi per sal­vare il salvabile. Alessandri ha fornito alle «fiamme gialle» dati incontrovertibili per dimostra­re che lo «Stella» è suo. Il fatto che sia stato com­prato qualche an­no p­rima che Ales­sandri e Bossi fa­cessero la loro conoscenza, per esempio. Ma anche - se­condo quanto si dice- un dato anco­ra più solido, perché proviene da quella fucina di rivelazioni che sono spesso i dissidi coniugali: quando il ma­trimonio di Alessandri è andato in crisi,tra i beni che la sua signo­ra ha preteso di­condividere nel­la separazione dei beni c’era an­che il barcone. Il figlio di Bossi non c’entra niente.
La storia dello yacht era finita su tutte le prime pagine il giorno in cui erano scattate le manette ai polsi di Francesco Belsito, ex te­soriere della Lega Nord, l’uomo che già da qualche mese è sotto inchiesta per la allegra gestione della cassa padana. L’inchiesta principale, che ha decapitato il movimento e ha ca­tapultato Rober­to Maroni alla sua guida, è ancora in corso. Tra i motivi che rallentano la chiu­sura dell’indagine c’è anche la difficoltà di in­quadrare esattamente nel codice penale le im­prese di Belsito e, di rim­balzo, di Umberto Bossi. Peculato, appropriazione in­debita, truffa ai danni del­lo Stato? L’indagine milane­se si è barcamenata a lungo tra sottigliezza giuridiche. Che i soldi erogati dallo Sta­to alla Lega Nord foss­e­ro impiegati per fini ete­rodossi è un dato di fatto.
Ma quale reato in grado di reggere in aula si dovesse imputare a Bossi e Belsito è tema che ha fatto discutere a lungo i pm milanesi. Poi, all’improvviso, il 24 aprile Belsito, fino a quel momento in­dagato a piede libero, viene arrestato. Insieme a lui finiscono in cella altri personaggi piutto­sto grigi, come quel Romolo Gia­rardelli, detto l’Ammiraglio, che incarnerebbe il trait d’union tra gli investimenti le­ghisti e quelli di alcuni clan del­la ’ndrangheta. La lettura del­l’ordine di cattura per Belsito non dà grandi soddisfazioni ai cronisti: false fatture, reati con­tabili, nulla in grado di appassio­nare i lettori. Se non fosse per le poche righe a pagina 32 in cui, per dimostrare la per­durante peri­colosità di Bel­sito, nel provvedimento si parla della barca: «Uno yacht del valo­re di 2,5 milio­ni di euro che Riccardo Bos­si, figlio di Um­berto Bossi, avrebbe a suo tempo acqui­stato avvalen­do­si di un pre­stanome gra­zie ad un’ulte­riore appro­priazione in­debita di Belsi­to». Bum. Il giorno dopo, la storia dello yacht di Bossi è su tutti i gior­nali, simbolo galleggiante di quella che è stata efficacemente ribat­tezzata «Lega Ladrona».
I pubblici ministeri, a di­re il vero, invitano i cro­nisti alla cautela: dello yacht, spiegano, si parla in una intercettazione realizzata in un’altra indagi­ne, «non siamo sicuri neanche che esista davve­ro». Ma lo yacht esiste, eccome. E infatti alla fine di aprile viene individuato in Tunisia dall’inviato del Corriere della sera. Il barcone è ormeg­giato a El Kantaoui, set­tanta chilometri a sud di Hammamet, la San­t’Elena di Bettino Cra­xi. Le immagini dello «Stella» fanno il gi­ro d’Italia. Parte la rogatoria internazio­nale, il governo tunisino mette i sigilli allo yacht e piazza un agente di guardia al molo.
Riccardo Bossi, che fino a quel momento ha taciuto, rilascia un’intervista a Chi negando di essere il padrone del vascello, ma non viene creduto. Però adesso il verbale di interrogato­rio del vero padrone della barca costringe a prendere atto della realtà: lo yacht non è del figlio di Bossi. Che è un bauscia, come si dice a Milano. Ma per scoprire questo non serviva una rogato­ria.