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 2013  maggio 18 Sabato calendario

UGUAGLIANZA E RAGIONEVOLEZZA

Ieri la Procura di Palermo ha sparato 176 colpi, quanti sono i testimoni che i pm vorrebbero ascoltare nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Colpi di pistola, ma anche di cannone, quando il bersaglio è il presidente del Senato, il procuratore generale della Cassazione, un ex ministro (anzi 4), l’ex capo dello Stato. Nonché il presidente in carica, Giorgio Napolitano. Sicché a Palermo si celebra il trionfo del principio d’eguaglianza, la mortificazione del principio di ragionevolezza.
Partiamo da qui, dall’eguaglianza. È possibile chiamare a deporre il capo dello Stato? In astratto sì, dato che il primo cittadino è innanzitutto un cittadino. Potremmo rievocare le vicissitudini di Clinton, che nel 1999 scansò l’impeachment per un pelo; e giustappunto l’accusa era d’aver mentito sotto giuramento nella sua deposizione al processo su Paula Jones, collegato allo scandalo Lewinsky. O più semplicemente possiamo tirare in ballo l’articolo 205 del codice di procedura penale. Dove c’è scritto che «la testimonianza del presidente della Repubblica è assunta nella sede in cui egli esercita la funzione di capo dello Stato». Dunque pure l’ordinamento giuridico italiano contempla espressamente quest’eventualità, limitandosi a disporre — per una forma di riguardo istituzionale — che il presidente venga ascoltato nel suo ufficio.
Domanda: e se Napolitano viceversa rifiutasse di testimoniare? In tale ipotesi non potrebbe capitargli ciò che succede a ogni altro cittadino, alla cui porta busserebbero due carabinieri per accompagnarlo in tribunale, con le buone oppure con le cattive. Non può accadergli perché lo esclude quella stessa norma del codice di rito, che distingue la sua posizione dagli altri vertici delle nostre istituzioni: i presidenti delle Camere, del Consiglio, della Corte costituzionale. Loro possono chiedere di deporre nei propri palazzi, per Napolitano è invece un obbligo. E soprattutto i primi — se rifiutano di testimoniare — subiscono l’accompagnamento coatto, cui Napolitano non può mai soggiacere (articolo 205, comma 3). Tanto che la Consulta, nella sentenza 1/2013 resa proprio in occasione del conflitto tra Quirinale e Procura di Palermo, ha tratto argomento da questa norma processuale per dedurne l’incoercibilità del capo dello Stato, l’assoluta tutela della sua libertà personale (punto 10 della motivazione).
Da qui una prima conclusione: ogni deposizione del capo dello Stato in tribunale ha natura sostanzialmente volontaria, non obbligatoria. Ed è assai dubbio che lui possa rispondere della non risposta, che insomma nei suoi confronti il rifiuto di testimoniare si traduca in un reato. La responsabilità del presidente per i delitti comuni descrive infatti un campo ancora da esplorare, e sul quale fra i giuristi prevale il disaccordo; ma i due precedenti che fin qui abbiamo registrato (Leone negli anni Settanta, per evasione fiscale; Scalfaro negli anni Novanta, per i fondi neri del Sisde) si conclusero con l’archiviazione. E tuttavia in quest’ultima vicenda non viene in gioco il diritto, bensì la politica del diritto. Non entra in scena l’eguaglianza, quanto piuttosto la ragionevolezza, che ne costituisce pur sempre la madrina.
Diciamolo: questa chiamata a testimone, i pm avrebbero potuto risparmiarsela. E se la Corte d’assise di Palermo accenderà il rosso del semaforo, non farà che agevolare il traffico, evitando l’ennesimo tamponamento fra politica e giustizia. Perché Napolitano non è stato testimone oculare di omicidi, non ha visto in faccia un assassino con il pugnale insanguinato, insomma non è affatto un testimone imprescindibile di fatti imprescindibili. Perché in Italia non era mai successo che un presidente della Repubblica fosse convocato da una Procura giudiziaria, e specialmente adesso abbiamo bisogno di regole, non di eccezioni. Perché infine il processo di Palermo è poi il medesimo sul quale la Consulta ha appena dato torto ai pm, sancendo le ragioni di Napolitano: sicché quest’ultimo episodio sa di rivalsa, se non proprio di vendetta. Ma per guadagnare un po’ di pace, bisogna anzitutto mettersi l’animo in pace.
Michele Ainis