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 2013  maggio 17 Venerdì calendario

LE CITTÀ DEL PLUTONIO


Un gigante minaccioso imprigionato sottoterra da decine di anni si sta svegliando. È un colosso di 200 milioni di litri di scorie radioattive, stivate in 177 contenitori, ciascuno grande quanto un palazzo di tre piani: i resti delle attività nucleari dello stabilimento di Hanford, vicino alla città di Richland, costa ovest degli Stati Uniti, stanno erodendo il metallo e filtrando nei terreni. Intanto, sull’altra taccia del Pianeta, nelle campagne russe vicino al Lago Irtyash, i contadini raccolgono frutti avvelenati e mungono latte contaminato da portare al mercato di Ozersk. Tanto la città americana quanto quella russa hanno accanto un fiume tra i più inquinati del mondo: il Columbia e il Techa.
Quelle di Richland e Oxersk sono le storie gemelle di due città del plutonio, cresciute negli anni Quaranta per dare ai loro Paesi la bomba atomica. Il compito è stato eseguito da entrambe – il plutonio che distrusse Nagasaki veniva proprio da Richland – ma il contrappasso è stato letale: un avvelenamento al rallentatore prodotto in 40 anni dal rilascio di oltre 200 milioni di curie di radioattività, ossia due volte le emissioni di Chernobyl.
Ne parla Kate Brown, docente di storia all’Università del Maryland, nel libro Plutopia (Oxford University Press, pp. 416, euro 22,27). «Plutopia è in realtà l’utopia al plutonio, l’idea che dall’impiego della fissione nucleare potessero arrivare non solo le bombe, ma un futuro radioso per l’umanità. Richland venne sviluppata a partire da un villaggio nel 1943 e Ozersk nacque nel 1945, entrambe come città modello, con servizi, comodità, sicurezza sociale e benessere senza pari nel resto delle loro nazioni. Vennero concepite proprio come città esca, tanto attraenti da richiamare e trattenere lavoratori qualificati e affidabili: un turnover di operai, tecnici e ricercatori avrebbe reso più difficile proteggere i segreti dell’atomo» racconta l’autrice.
«Richland, fino al 1957, anno in cui le case furono vendute ai cittadini, è stata l’unica città statunitense senza proprietà privata – quasi un’eresia in pieno maccartismo: tutto apparteneva al governo federale, che affittava a prezzi stracciati ai dipendenti di Hanford. Ozersk invece, nella regione di Chelyabinsk, era una delle dieci città fantasma dell’Unione Sovietica, non segnata sulle mappe, e ancora oggi è impossibile visitarla senza permesso del governo. Ma anche Ozersk era una città modello: il padre dell’atomo rosso Igor Kurchatov, in un discorso del 1948, così blandiva i suoi abitanti: "Questa città avrà tutto: asili, bei negozi, un teatro e un’orchestra sinfonica!"».
Che cosa rimane oggi delle città del plutonio? «A Richland, lo stabilimento ha chiuso nel 1987 ed è in corso un’operazione di recupero ambientale da 100 miliardi di dollari, necessari alla vetrificazione delle scorie. Di fatto però i veri lavori non sono ancora partiti, e anche nel mese scorso si sono aperte nuove falle nei tank. Intanto prosegue la battaglia legale di oltre mille cittadini, dopo che nel 2005 sono arrivati i primi due risarcimenti (317 mila e 227 mila dollari per cancro alla tiroide)». In Russia invece lo stabilimento di Ozersk è ancora in funzione e tratta uranio per i reattori civili. «Molte scorie sono state gettate nel Lago Karachay» dice Kate Brown. «Se stai per un’ora sulle sue sponde, è quasi certo che morirai per le radiazioni».
E pensare che già negli anni Quaranta si sapeva che gli isotopi radioattivi entrano negli organismi, attraverso la pelle o gli alimenti, alterando le cellule. «Hanford ebbe il primo morto per leucemia nel 1944. Ma per vincere la corsa all’atomo si decise di rimandare la tutela della salute e dell’ambiente. Lo stabilimento era stato costruito in un posto poco popolato, il bacino del fiume Columbia, per utilizzare l’acqua come refrigerante per i reattori e poterla poi ripompare, ormai contaminata, nei fiumi». Ma si sottovalutò la capacità di accumulo degli isotopi nei tessuti viventi: i pesci del fiume Columbia, già nel 1945, avevano una radioattività sessanta volte superiore a quella dell’acqua. Sui cittadini i dati invece scarseggiano. «Il controllo sanitario era costante, ma i medici nelle diagnosi ai pazienti non potevano citare le radiazioni» racconta Kate Brown.
Eppure i loro effetti erano già noti. «Nel 1945, dopo Hiroshima, un gruppo di giornalisti andò in visita all’impianto di Hanford. A un certo punto chiesero a Marge DeGooyer, tecnico di laboratorio, di posare come modella per le fotografie: doveva tenere con guanti speciali una provetta di plutonio. Il suo capo consigliò ai fotografi di lasciare le macchine nella stanza, impostare l’autoscatto e precipitarsi fuori: temeva che il plutonio, per via del flash, potesse provocare un rilascio mortale di neutroni». Nessuno si preoccupò di Marge, che continuò a sorridere da sola nella stanza. «Ho avuto tumori dappertutto, sulle gambe, sulle mani, sul volto e al seno» dice Marge nel libro, che ha parlato con Kate Brown poco prima di morire.
Non è eccessivo dire che la popolazione fece da cavia: «Nell’estate del 1943 si palesò un chiaro conflitto d’interesse: da un lato i dirigenti della Dupont, l’azienda che gestiva Hanford, scambiavano lettere ansiose con lo scienziato Joseph Hamilton riguardo agli effetti della radioattività sui lavoratori di Hanford, che Hamilton aveva l’incarico di tutelare. Dall’altro Hamilton studiava come impiegare le scorie di Hanford per causare nausea, vomito e altri disturbi in una popolazione nemica». Nel 1949 il direttore di Hanford, Herbert Parker, per studiare la distribuzione della radioattività ordinò il rilascio di gas che, per il vento imprevisto, formarono una nube tossica su Richland con livelli di iodio 131 mille volte più alti del limite consentito. Ma neppure questo fermò Hanford: lo stabilimento riversava 400 curie al giorno nel fiume Columbia nel ’49, 7.000 nel 1951 e 20 mila nel 1959» spiega Kate Brown.
In Russia intanto, nel 1950, gli scarichi nel fiume Techa toccavano i 4.300 curie giornalieri. Nel 1990 si scoprì che i trentamila abitanti della zona avevano ricevuto dosi fino a quaranta volte superiori alla soglia di tolleranza e sviluppato una quantità inusuale di tumori all’intestino, al fegato e all’utero, con una mortalità del 23 per cento più alta rispetto alla media. «Oggi però sono ancora lì, non possono vendere le terre e andare via: non le comprerebbe nessuno».