Paolo Tomaselli e Roberto Perrone, Sette 17/5/2013, 17 maggio 2013
ORA L’ALLENAMENTO COMINCIA IN AULA
Milano, sala executive di un grande hotel poco distante dalla Stazione Centrale. È domenica, le partite pomeridiane del campionato di serie A sono cominciate da un quarto d’ora: per i ventidue studenti del “primo master per mental coach dei calciatori professionisti” le gare in corso sarebbero direttamente materia di studio, ma prima c’è da assimilare un programma di lezioni molto denso e articolato, per un corso di quattro mesi, a weekend alterni, costato diecimilaseicento euro (più Iva), come una specializzazione in una buona università internazionale.
Sulla lavagna e sul maxischermo collegato al personal computer oggi si parla di obiettivi da raggiungere, di come identificarli con l’atleta e di come conseguirli, perché non basta appendersi un post-it sul frigorifero come faceva l’inarrivabile campione di nuoto Michael Phelps. Positività-tempo-controllo («l’obiettivo deve dipendere esclusivamente dalla nostra capacità e dalla nostra volontà»), sono gli altri cardini da mandare a mente in questa sessione. Il linguaggio è chiaro, schematico e persuasivo e introduce a una disciplina, la programmazione neurolinguistica (Pnl), che si è sviluppata soprattutto nei Paesi anglosassoni ed è confluita nel cosiddetto “coaching aziendale”, trovando estimatori e detrattori in egual misura.
La sfida è quella di applicare queste conoscenze al mondo del calcio, seguendo passo dopo passo attaccanti ossessionati dal gol, portieri con l’ansia da prestazione, difensori che si sognano di notte il pallone, allenatori che non sanno più come toccare le corde giuste della loro squadra. Ma anche, indirettamente, fidanzate disperate per un calcio di rigore sbagliato, madri apprensive che assistono a un’involuzione emotiva e tecnica dei loro figli. E alzano il telefono, in cerca di uno specialista in grado di fornire gli strumenti necessari per costruirsi una carriera, colmando un vuoto lasciato da tecnici, dirigenti e procuratori, che affollano un sottobosco spesso troppo conservatore, superstizioso e ignorante, poco fertile per far crescere i talenti.
Gli scettici, soprattutto all’interno del sistema pallonaro, sono il vero avversario da battere per chi vuol fare l’allenatore della mente dei campioni, aspiranti o presunti tali, che spesso non amano pubblicizzare un tipo di lavoro ancora frainteso da certi allenatori o dirigenti. Ma quello che viene preparato con scrupolo in questo master, largamente pubblicizzato a gennaio sui quotidiani sportivi e che ha ricevuto cinquecento domande di partecipazione, è tutto fuorché un salto nel buio. Perché l’ideatore e il docente di riferimento (assieme a un esperto di Pnl e a uno di coaching aziendale) esercitano già il mestiere con grande soddisfazione. Propria e soprattutto dei calciatori-clienti.
Se il gioco è anche ragionamento. Roberto Civitarese, 42 anni, lodigiano, ex consulente finanziario e immobiliare con la passione per il calcio e la folgorazione per la programmazione neurolinguistica, è il mental coach di oltre una ventina di calciatori di A e B, tra cui Alberto Paloschi, baby fenomeno nel Milan e ora al Chievo, Fabio Borini, in azzurro all’Europeo, passato dalla Roma al Liverpool, Lorenzo De Silvestri, ex Lazio e Fiorentina, ora alla Samp, anche lui tra i giovani più in vista, e Riccardo Saponara, 21enne dal grande futuro già acquistato dal Milan (ora è a Empoli) e citato dal presidente Berlusconi tra i simboli del nuovo corso rossonero nella conferenza stampa pre elettorale a Milanello.
«Ho conosciuto Civitarese in uno dei periodi più difficili della mia carriera nel gennaio 2010», racconta Saponara nel libro Gioco di testa, scritto dal suo mental coach e diventato un piccolo classico tra calciatori e addetti ai lavori. «Non so nemmeno io il perché, ma riuscii da subito a parlargli delle mie paure e delle mie difficoltà, raccontandogli dettagli della mia vita come se fossimo amici di vecchia data. Mi spiegò l’importanza di controllare le mie emozioni attraverso tre strade: il focus, il linguaggio e la fisiologia. Il mio principale ostacolo era il linguaggio: parlavo in modo negativo e non facevo altro che attirare nu0va negatività su di me. Ora rispondo con determinazione. Non mi lascio abbattere dalle difficoltà, ma cerco sempre la soluzione che mi possa portare al miglioramento…».
Sembra tutto facile, dato che in tre anni Saponara è passato dalle difficoltà nella Primavera empolese al Milan e che, come lui, sono almeno una settantina i calciatori di A e B che utilizzano o hanno utilizzato un mental coach per migliorare (anche del 70% secondo alcuni di loro) il proprio rendimento. Ma evidentemente non lo è. E non solo perché non tutti hanno i piedi buoni per diventare calciatori. «Quanti talenti si perdono per strada perché non hanno la testa giusta? L’allenamento mentale deve andare di pari passo, quotidianamente, con quello fisico» spiega Civitarese. Anche con esercizi di visualizzazione da fare prima di addormentarsi: i giocatori rivivono le giocate che dovranno e che vorrebbero fare. Il cervello decodifica i messaggi e durante la partita vera li riproduce, dando sicurezza nei propri mezzi e una grande serenità. Per me la soddisfazione maggiore non è solo registrare la crescita professionale di questi ragazzi, che sono molto più intelligenti e sensibili di quello che si pensa comunemente, ma il fatto che molti di loro riconoscano che i miei insegnamenti sono utili anche nella vita di tutti i giorni, fuori dal campo».
Ma creare un piccolo esercito di allenatori della mente, tra questi apprendisti di varia estrazione (medici, consulenti, studenti, liberi professionisti) non rischia di aumentare la concorrenza sulla piazza, senza contare che il carisma e il giusto distacco sono qualità difficili da insegnare? «No», spiega Civitarese, «perché per me è impossibile ormai far fronte a tutte le richieste di assistenza e quindi trovo indispensabile formare altri specialisti per gestire il cambiamento in atto nel mondo del calcio». In cui tutti parlano di motivazioni e mentalità. Ma ancora pochi sanno davvero come mettere la testa nel pallone.
Paolo Tomaselli
«VI SPIEGO PERCHÉ L’EDUCAZIONE FA BENE AL GOL» [Paolo Marchesini, l’ex calciatore che insegna ermeneutica] –
Paolo Marchesini, quando gli si chiede della sua età, risponde: «Ho quarant’anni, ma valgono come ottanta». Praticamente autodidatta, animato da una grande passione, vive tra Bologna e il Lago d’Iseo. È stato calciatore professionista, in Italia e all’estero, poi la folgorazione e la creazione del progetto EdEs (con tanto di marchio depositato): Ermeneutica dell’Espressione sportiva che, ci tiene a precisare, «pur essendo una proposta che riguarda gli aspetti della fragilità dello sportivo, non c’entra nulla con i motivatori: loro si occupano di un capitolo, il problema però è il libro». Marchesini (pmarchesini@progettoedes.it) lavora dal 2003 al progetto del “precettore sportivo”. Al centro, l’uomo e la sua educazione. «Perché il calciatore, lo sportivo, non è fuori, ma dentro la vita, il calcio non è che una meravigliosa parentesi». Marchesini spiega che «nel calcio da venti anni esiste un clamoroso squilibrio tra la considerazione per il calciatore e la trascuratezza per l’uomo che “è” quel calciatore. E il progetto EdEs opera proprio su questo squilibrio, sottovalutato da tutti». Il precettore sportivo non è l’ennesimo “specialista” ma un vero e proprio educatore. «Io non mi occupo della qualità tecnica, ma del comportamento a supporto del rendimento». Queste sono le cinque attività didattico-educative del progetto EdES: allenamento, protocollo genitori, precettistica, corsistica, talent keeping. Nel progetto di Marchesini il precettore sportivo si allena con la squadra e «senza mai interferire con il lavoro dell’allenatore, impersona, nel gruppo, il prototipo di comportamento virtuoso. Il calcio moderno è paragonabile a un palazzo pericolante: i club aggiustano le rifiniture, io punto a rafforzarne le fondamenta, cioè sui valori umani». Il segreto del successo di questo progetto? «Allenatori, psicologi, motivatori, in definitiva, vengono percepiti come estranei, per via del distacco che il loro ruolo impone, mentre il precettore sportivo è “complice” in virtù della condivisione». Ma un club cosa ci guadagna? Perché alla fine è questa la domanda di una società sportiva. «C’è una valenza educativa nel mio progetto, ma anche una ricaduta tecnica. Un esempio? Abbattimento delle ammonizioni e delle espulsioni del 50 per cento». Una rivoluzione.
Roberto Perrone