Edoardo Vigna, Sette 17/5/2013, 17 maggio 2013
«I NOBILI INGLESI PAGHEREBBERO PUR DI ENTRARE IN UN LIBRO»
«Posso portare a cena una cara amica, per caso di passaggio a Milano in questi stessi giorni?». Edward St Aubyn, schiatta nobile di Cornovaglia che risale ai tempi di Guglielmo il Conquistatore, mette subito le mani avanti: «Da noi, in Inghilterra l’aristocrazia non interessa più a nessuno. Essere un duca sembra alquanto privo di significato: nulla rispetto ad aver partecipato a un talent show la sera prima!». Un attimo dopo, si presenta al ristorante con un’incantevole Kristin Scott Thomas (peraltro, la più sofisticata e la meno diva fra le stelle britanniche del cinema). E insiste, quasi da rinnegato: «Sono uscito dal giro dell’alta società tanti anni fa: a Londra, vado a feste come quella per il lancio del nuovo cd di Harper Simon – il figlio di Paul –, un amico».
Uscito per modo di dire. Da certi mondi non si esce mai veramente. Ma su una cosa non dice di sicuro il falso, St Aubyn: lui ce l’ha davvero messa tutta per sconvolgere il suo ambiente fatto di sangue blu. Con quattro libri, girando attorno alle storie di una famiglia protagonista (i Melrose) ne ha raccontato – senza la minima pietà – la vanità e la vacuità, la crudeltà e la mondanità, non salvando quasi niente. Con la stessa verità che ha messo nello svelare, fin dalle prime pagine del primo episodio della serie (che ora viene pubblicata da Neri Pozza, in un unico volume – I Melrose, appunto – in attesa del quinto e ultimo libro, in uscita in autunno), il dramma di Patrick: abusato dal padre David a soli 5 anni senza che la madre – immersa in un brodo di alcol e rimpianti – si accorgesse di nulla, passato attraverso anni di dipendenza da pasticche, eroina, cocaina, droghe di ogni genere ed effetto. «Sì, Patrick è il mio alter ego», ripete, rallentando il flusso monotono delle parole (considerato da molti un segno evidente del suo snobismo): dichiarazione-choc fatta alla prima edizione.
«Ero un party-goer, un festaiolo, ora sono un scrittore. Studiavo letteratura inglese a Oxford, ma ero un pessimo studente. Me ne stavo a New York o nella mia casa di Londra. Il mio tutor vide in me un talento: avrebbe potuto buttarmi fuori dal college. Ora tutto è diverso: conosco il valore del tempo. I miei tre migliori amici sono scrittori e sceneggiatori: il prossimo ricevimento a cui parteciperò, a Londra, sarà a Chelsea, per Tom Stoppard», ripete, distaccato, il 53enne St Aubyn («Sant’òbin: mi piace che si pronunci all’inglese»), lisciandosi i pantaloni di velluto grigio. «È a loro – ma non dirò chi sono – che ho raccontato per la prima volta la mia storia». Quella violenza indicibile che si è tenuto dentro per più di 20 anni, che l’ha spinto ad affogare in un gorgo di nichilismo e male di vivere, prima di riemergere, catarticamente, con il racconto di sé.
«Grazie a Dio, è morto». La verità vi renderà liberi, diceva Gesù nel Vangelo di Giovanni. I Cavalieri Ospitalieri lo ripresero nelle Crociate. Ma non è mai facile sbatterla in faccia – e in pubblico – a chi tanto male ha fatto. «Cosa le fa pensare che l’abbia detto a mio padre? No, non c’era già più quando ho pubblicato il libro. Era un ostacolo troppo grande, non sarei riuscito a scriverlo prima. Una volta mi è capitato di finire in ospedale, quasi morto, e poi in ospedale psichiatrico. Gli ho scritto: sono un eroinomane e ci sono cose che devo dirti sul nostro rapporto. Vuol sapere come rispose? Con un biglietto in cui non c’era niente... ma proprio niente... a parte i versi – in italiano! – di Dante: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Ho dovuto andare in biblioteca per vedere che cosa significasse. No, thank God, grazie a Dio, è morto. E anche a mia madre e a mia sorella, non ricordo se l’ho fatto leggere prima o dopo la pubblicazione». Così, fra dolore, ipocrisia e feste, scorreva la vita di un giovane e nobile rampollo inglese. Ma non c’è proprio nulla di buono che ricordi di lui? «Era...», dice, lentamente, dopo una lunga pausa, «era un musicista brillante, e aveva buttato via le sue qualità. Mi diceva spesso: se hai un talento, usalo, o sarai infelice tutta la vita. Quella è stata l’unica cosa positiva che mi abbia detto». Pausa. «Era intelligente, e psicologicamente sottile. Ma ha trasformato tutto in qualcosa di brutto».
È come se questa storia gli scappi da tutte le parti. «Ho scritto il libro per scoprire la verità, il suo significato. All’inizio non usciva, però. A vent’anni avevo messo giù 50 pagine, poi ho lasciato perdere. Finché ho incontrato questa ragazza spagnola, Ana Corbella: faceva la pittrice e la scultrice. Veniva da una famiglia “normale” per cui era normale “fare” le cose invece che “distruggerle”. Mi ha fatto sedere, e ha detto: hai sempre parlato di questo desiderio di scrivere. Ora tu parli e io prendo appunti».
Edward aveva 28 anni, e stava per diventare “Patrick”. «Mi sono seduto alla scrivania e ho cominciato a scrivere io stesso, il più veloce che potevo». Per far venire le cose fuori dall’anima prima che il cervello potesse trattenerle. «Non mi piaceva niente, però. Prendevo i fogli, li accartocciavo e li buttavo dietro le mie spalle. Solo che Ana entrava, li tirava su, li apriva, li stendeva e li batteva a macchina nella stanza vicina. Vivevamo a Londra, per lo più. Poi nella mia casa nel Sud della Francia, e un po’ da lei, in Spagna».
Snob arroganti, pezzi da museo. Lei dipingeva, e batteva a macchina, St Aubyn scriveva. Ed espelleva scorie, dolore, vita a perdere. «Sì, ma ero così arrabbiato con me stesso che non volevo leggere. Finché, un giorno, mi sono deciso. C’era un mucchio di robaccia, in quelle pagine. Parole senza speranza. Qua e là, però, saltava fuori qualcosa di buono. Così ho cominciato a tagliare con le forbici pezzi di fogli che poi attaccavo in un nuovo ordine con lo scotch. Ne è venuto fuori un papiro lungo, come un patchwork! Ovviamente non aveva molto senso, però è da lì che è nato il primo libro. Ana è tornata in Spagna, si è sposata ha fatto un paio di figli... ci siamo persi di vista».
Il libro, una bomba. Anche per i molti personaggi dell’upper class che racconta senza pietà alcuna. “Un sacco di pezzi da museo, di snob arroganti, di oche giulive e di signorotti da Medioevo”, chiosa uno dei suoi personaggi. «Patrick e i genitori sono ritratti veri, anche se letterariamente semplificati. Gli altri sono inventati, ma spesso mescolano quattro o cinque persone».
Alla pubblicazione, per lei sarà stato comunque l’ostracismo… «Al contrario: le non sa quanto la gente faccia la fila per essere descritta nei libri, anche in modo negativo! Ricordo di un pranzo in cui un ospite, quando il mio libro divenne oggetto di conversazione, disse: “John Smith” (“tal dei tali” in versione british, ndr) è uno dei protagonisti! La signora di fronte a lui, lo corresse con energia: “No, non è vero! Ma il mio fidanzato – che era accanto a lei – sì! E nessuno dei due era fra i personaggi che avevo raccontato. È la prova che la scrittura non è un’esperienza che finisce con la pubblicazione: risuona, nei lettori, che portano la loro parte».
Il grande Primo Levi. Da bravo oxfordiano, però, per St Aubyn la letteratura non è solo vita. Lascia sbucare Shakespeare qua e là, tra Re Lear, Macbeth e il Duca Vincenzo di Misura per Misura. «Se vogliamo dirla tutta, c’è anche Samuel Beckett e la Mrs Jellyby dickensiana di Casa desolata: è la madre che pensa a salvare una tribù dell’Africa mentre i suoi stessi figli finiscono all’inferno. Mentre scrivevo, la mia testa era piena di frammenti di altri, dei miei scrittori preferiti: Proust, Joyce, Henry James. E il grandissimo Primo Levi: lui che è riuscito a scrivere di qualcosa ancora più indicibile della mia storia. Ma oggi è diverso: non credo che nessun libro possa alterare il modo in cui scrivo».
Tante cose sono cambiate. Tanta esistenza è passata. Un matrimonio giovanile, tre lunghe convivenze. “Ma Patrick, tu sai cos’è l’amore?”, chiedono al protagonista. «È facile confondere fra amore e attaccamento, ossessioni, affetto, dipendenza. Credo di essere nella fase della vita in cui sono in grado di riconoscere quando NON è amore». sghignazza. «Amo i miei figli. Ho capito che per loro darei la mia vita, senza riflettere né esitare neppure per un attimo. Quando questo pensiero si concretizza nella tua mente, è come se cambiassero le regole del gioco».
È cambiata anche la Londra del suo ambiente. «Ci sono state, nel corso delle mia vita, due grosse trasformazioni. Innanzitutto, un profondo scollamento fra l’upper class e il potere politico. Le persone che guidano il Paese non sono più – come un tempo – quelle che “posseggono” il Paese. Questo divorzio ha indebolito l’alta società, che dal punto di vista dello stile e dei modi di vita in molti casi è comunque rimasta immutata. Inoltre la gente ha perso interesse nei confronti dell’aristocrazia, e questo non è stato dovuto – come si può pensare – alla stagione laburista di Tony Blair, ma alla Signora Thatcher che, prima di lui, ha scombussolato il Paese, promuovendo la meritocrazia e il talento, chiudendo con il fatto che le classi fossero bloccate e immutabili. Oggi gli inglesi non sono più interessati a duchi e quant’altro: come il resto del mondo sono interessati alle celebrities».
Così, ora, Edward St Aubyn scrive alla mattina «cominciando tra le 3 e mezza e le sei, per finire a ora di pranzo». Alla sera, un libro («Sto leggendo, molto lentamente – retaggio della dislessia che manifestavo da piccolo – Il muro di Jean-Paul Sartre e Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut») o piuttosto, una serie tv, «tipo Madman, i Sopranos o la francese Spiral: cerco di registrarli e me li vedo tutti insieme in un’unica sessione, un episodio dopo l’altro, per ore. Channel 4 ha appena acquistato l’opzione per trasformare la saga dei Melrose in uno sceneggiato tv».
Droga e infelicità. E centellina i parties: «A 20 anni, quand’ero veramente perso e molto infelice, era consolatorio immergersi in quelle feste. Il vero problema è l’infelicità, come con la droga. Quando le persone sono profondamente infelici cercano qualcosa che dia sollievo: iniettarsi eroina o cocaina, avere un orgasmo. Ma quando queste cose finiscono inevitabilmente di dare sollievo, la gente capisce e smette di cercarle. Per questo credo che tutte le droghe dovrebbero essere legalizzate, con una pesante tassa sopra: si otterrebbe anche la distruzione del crimine organizzato. Ma nessuno ha il coraggio politico farlo».
Oggi, però, St Aubyn non è più infelice. «So cosa voglio dalla vita. Che è non perdere tempo. Anche se qualche volta mi trovo in una vecchia situazione, oggi voglio spendere il mio tempo con persone che hanno fatto qualcosa, non con gente che è solo “nata”, che non è abbastanza».