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 2013  maggio 17 Venerdì calendario

TORNA IL CACCIATORE DI AQUILONI CON UNA STORIA DI FAMIGLIA CHE NON PREVEDE IL LIETO FINE

Dopo aver esaminato il tema della paternità in Il cacciatore di aquiloni del 2004 e della maternità in Mille splendidi soli nel 2007 (due bestseller con oltre 38 milioni di copie vendute in tutto il mondo, più di 4 in Italia), Khaled Hosseini punta i riflettori sulla famiglia nel suo insieme.

Nel suo terzo, attesissimo, romanzo E l’eco rispose, tradotto da Isabella Vaj e pubblicato in Italia da Piemme edizioni il prossimo 21 giugno (un mese dopo l’uscita negli Stati Uniti), il celebre medico e autore afgano esplora temi quali l’abbandono, il tradimento, l’amore gay, la violenza, la solitudine e il sacrificio attraverso una serie di storie multi-generazionali dove al centro c’è la famiglia: fratelli e sorelle, figli e genitori, cugini e zii, ma anche matrigne egoiste e domestici fedeli.

«A dire il vero, il tema della famiglia è presente in tutte le mie opere», racconta a Sette il 48enne autore, figlio di un diplomatico, che dal 1980 vive in California con la moglie Roya, avvocato, e i loro due figli, Harris e Farah, rispettivamente di 12 e 10 anni, ai quali è dedicato anche questo libro. «Nell’Afghanistan dove sono nato e cresciuto la famiglia, con le sue contraddizioni e tensioni, è l’elemento centrale dell’identità di ogni individuo», incalza, «anche volendo, non potrei ignorarla».
Nel suo terzo romanzo ha sentito il bisogno di uscire dagli angusti confini afgani per portare il racconto da Kabul a Parigi, da San Francisco all’isola di Tinos.
«Il sapore multiculturale dell’opera nasce dal desiderio di porgere tributo agli straordinari cooperanti umanitari incontrati durante le mie tante trasferte a Kabul nell’ambito del mio ruolo di inviato dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati. Greci, italiani, francesi, bosniaci che hanno lasciato i Paesi di origine e rischiano la vita tutti i giorni per salvare vecchi e bambini. Lo sforzo di ricostruzione non è solo americano, come sostiene qualcuno».
Il dottore americano di origine afgana Idris, uno dei personaggi del libro, ha l’aria di essere il più autobiografico.
«Il capitolo di Idris è ispirato alla mia esperienza personale. Nel 2003 tornai a Kabul per la prima volta dopo 27 anni. Ci andai per rieducarmi sul mio Paese, familiarizzarmi con un mondo che negli ultimi anni avevo vissuto solo attraverso i Tg. In uno degli ospedali che visitai, incontrai una ragazza cui avevano squarciato il cranio con una scure: la Roshi del libro. L’avevano sbattuta nel corridoio di un reparto maschile».
Idris è logorato dai sensi di colpa perché, dopo aver promesso a Roshi di portarla con sé in America e sponsorizzare la costosa operazione per ricucirle la testa, una volta rimpatriato si dimentica completamente di lei.
«Quel capitolo è inventato. Quando incontrai la vera vittima in ospedale e vidi la materia grigia che le fuoriusciva dalla ferita, il mio istinto iniziale fu di portarla via e curarla. Ma non lo feci perché l’Afghanistan è pieno zeppo di gente come lei che vorresti aiutare. Come afferma uno dei personaggi del libro, “questo è un Paese con mille tragedie per chilometro quadrato”: a ogni angolo di strada trovi un essere umano che ha disperatamente bisogno del tuo aiuto. Quando ti rendi conto che non puoi soccorrere tutti, per non arrenderti, sei costretto a indossare una sorta d’invisibile corazza protettiva».
È stato questo il motivo che nel 2008 l’ha spinta a fondare la Khaled Hosseini Foundation?
«L’ho creata perché sono consapevole di dovere il mio successo alla gente dell’Afghanistan. Volevo restituire qualcosa a quegli individui sofferenti, malati e perseguitati dalle guerre, costretti a fare tutti i giorni i conti con una povertà totale. Sono loro gli eroi dei miei libri e se posso contribuire anche minimamente a migliorarne l’esistenza sono un uomo felice. Ma anche così sarò eternamente debitore nei loro confronti».
Per raccontare le loro storie lei ha abbandonato la carriera di medico. Le manca mai?
«Ho dismesso il camice nel dicembre 2004 e dopo quasi dieci anni francamente non ho alcun rimpianto. Mi mancano alcuni dei miei pazienti afgani di cui però continuo a occuparmi nei miei libri. Il mio sogno fin da bambino è sempre stato scrivere e, pur rispettando enormemente la professione, come medico non ero felice. Poter vivere scrivendo è un miracolo che mi riempie di gioia ogni giorno».
Il libro pullula di personaggi ambigui e doppi come Timur, il cugino spaccone e intraprendente del dottor Idris.
«Molti americani di origine afgana che hanno vissuto in esilio per tanti anni, quando tornano a Kabul si comportano in maniera strafottente e spavalda, come se quel posto, che credono di conoscere come le proprie tasche, gli appartenesse. Un atteggiamento che non condivido affatto perché, pur essendo nati tutti laggiù, l’Afghanistan non è più “nostro”. Siamo outsider e fingere di essere “uno di loro” è falso, disonesto e aleatorio».
Il senso di colpa grava come un macigno sulla coscienza di molti personaggi del suo libro.
«Essere costretti a vendere un figlio, come capita a papà Sabur, creerebbe un trauma insormontabile in qualsiasi genitore, a prescindere dal contesto geografico e culturale. Il senso di colpa che lacera il dottor Idris è, invece, più specificatamente afgano. Lo provano gli esuli che, come me, si rendono conto che è solo per pura fortuna nella lotteria genetica, non per merito personale, se oggi non siamo a mendicare in un angolo di strada a Kabul. Abbiamo avuto l’opportunità di nascere in una famiglia abbiente che ci ha permesso di scappare quando eravamo ancora in tempo. Per questo ogni volta che vado a Kabul e vedo quel popolo sofferente, sono lacerato dai sensi di colpa di chi è convinto di non meritare ciò che la vita gli ha dato. Tornare a casa, in America, per me è puntualmente uno shock culturale».
In che senso?
«Al rientro in California è surreale ritrovare la tua auto sportiva, la tua bella casa e i tuoi figli preoccupati solo della recita scolastica e dell’ultimo, costoso, modello di scarpe da ginnastica. Ma se un tempo il mio successo economico mi induceva ad autoflagellarmi, oggi ho imparato ad accettarlo perché so che attraverso la mia Fondazione posso fare la differenza nella vita di tanti afgani».
Come mai il tema dell’abbandono permea quasi ogni pagina del libro?
«Quand’ero piccolo ero terrorizzato dalla possibilità di essere abbandonato dai miei genitori. Ricordo ancora il giorno, avrò avuto cinque anni, in cui la mia famiglia partì in automobile per l’Iran dove papà era stato inviato a lavorare nell’ambasciata afgana di Teheran. A un certo punto durante il viaggio ci fermammo a un chiosco per rinfrescarci e mio padre, dopo averci fatto scendere, risalì in auto e andò via. Era tutto uno scherzo e, infatti, non percorse più di tre metri. Ma il senso di panico che provai in quegli attimi è rimasto con me fino a oggi».
Il momento clou del libro è l’abbattimento di un albero millenario, simbolo della perdita delle radici.
«Quell’albero incarna la memoria perché testimone dell’intera storia afgana: un tema per me da sempre cruciale. Proprio per questo inizio E l’eco rispose con la favola del div (un demone, ndr), interrogandomi se la memoria sia una benedizione, la protettrice massima di tutto ciò che conta davvero nella vita, o se al contrario sia una maledizione che ti costringe a rivivere in continuazione i ricordi più luttuosi e crudeli. Ho capito che aiutare qualcuno a dimenticare è un atto di carità estrema».
Eppure lei sceglie accortamente di tenersi lontano da facili “happy ending”.
«Il libro inizia con una favola ma finisce con la vita che, per definizione, è caotica e non è mai fatta di convenienti simmetrie. La realtà se ne frega delle nostre aspirazioni e dei nostri desideri: va avanti per la sua strada, ferendoci e facendoci soffrire».
Perché ogni personaggio del suo libro cela un segreto, un mistero che cerca di nascondere agli altri?
«Suleiman è costretto a nascondere la propria omosessualità in un Paese che non potrebbe capirla e accettarla. E sua moglie, la bella, emancipata poetessa Nila, non sarebbe sopravvissuta un solo giorno sotto i talebani. Eppure c’erano donne come lei nell’Afghanistan relativamente aperto degli Anni 60 e 70. Anche se il Paese è sempre stato molto religioso e tradizionalista, Kabul era un’isola di progressivismo e sensibilità filo-occidentale. Io stesso sono cresciuto tra donne forti e potenti, giudici e avvocati, che indossavano minigonne, bevevano alcolici e insegnavano all’università».
Che cosa l’ha spinta a includere un personaggio gay nel libro?
«In fondo tutti i miei libri sono love story, ma non nel senso tradizionale del termine. L’amore romantico tra un uomo e una donna non mi è mai interessato. Preferisco esplorare l’unione profonda e fortuita tra individui che non hanno nulla in comune eppure s’incontrano e si amano di una passione totale, anche se platonica. Come Marian e Laila, le due mogli di Rashid in Mille splendidi soli che dovrebbero essere rivali e odiarsi e, invece, finiscono per forgiare un legame profondissimo e duraturo che io chiamo amore».
In un libro pieno di cattivi, il campione assoluto di malvagità finisce per essere il locale zar della droga.
«Nel Il cacciatore di aquiloni il cattivo di turno è Assef, il ragazzo che violenta Amir. In Mille splendidi soli il marito Rashid. Ma in E l’eco rispose è diverso. Inizio il libro col celebre verso di Jalaluddin Rumi, poeta afgano del XIII secolo, “Ben oltre le idee di giusto o sbagliato c’è un campo. Ti aspetterò laggiù”, proprio perché desideravo distanziarmi dalla nozione manichea e semplicista di buoni e cattivi. Come dire: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”».
La bellezza e la bruttezza nel suo libro finiscono per mescolarsi e confondersi.
«Ho voluto stravolgere anche questo tema per dimostrare che nulla è mai come ci appare. Il “demone” della favola iniziale rivela di non essere affatto il mostro mangiatore di bambini che tutti credevano e le bellissime e bruttissime dei miei racconti finiscono per condividere tutte un’unica sorte: l’essere per sempre prigioniere della propria immagine».
Come nasce la sua passione per il folclore afgano?
«Come scrittore ho molte debolezze, ma uno dei miei punti forti è la capacità di raccontare favole. Un talento che viene dall’essere cresciuto in Afghanistan quando non esistevano radio, computer e tv e dove la tradizione favolistica orale è antichissima. Senza le favole che mi raccontavano mia nonna e mio padre, non sarei ciò che sono oggi».
Ha qualche rimpianto?
«Solo uno. Come Idris, avrei voluto anch’io fare il giro del mondo con lo zaino sulle spalle, prima di iscrivermi a medicina, quando non avevo ancora figli e responsabilità e avrei potuto vivere da hippie per almeno un anno. E invece il senso del dovere mi ha bloccato. Per fortuna nei libri i tuoi personaggi possono fare ciò che nella vita tu non sei riuscito a fare».
Che cosa ha detto sua moglie del libro?
«Roya è la mia editor privata. Non mi dà idee però è bravissima a capire cosa funziona e cosa non funziona nel racconto, a distinguere il vero dall’artificioso. È un dono molto raro il suo, e anche se non ha mai vissuto in Afghanistan, mi fido ciecamente di lei perché è onesta e non ha paura di dirmi che una pagina è da riscrivere».
Le capita di leggere autori afgani?
«L’Afghanistan non ha avuto un’industria editoriale vera e propria e anche i poeti più celebri si pubblicavano da soli i propri libri; infatti, oggi sono introvabili. Certo, nel Paese lavorano tanti romanzieri ma è difficile mettere mano sulle loro opere perché, anche quando sono pubblicate in patria, non vengono tradotte ed esportate. Uno dei miei scrittori preferiti è Tamim Ansary, autore di West of Kabul, East of New York».
E tra gli autori non afgani?
«Mi interessano molto le giovani scrittrici contemporanee come Jhumpa Lahiri e Jennifer Egan. Amo anche Daniyal Mueenuddin e Colum McCann, autori, rispettivamente, di Altre stanze, altre meraviglie e Questo bacio vada al mondo intero. Purtroppo conosco poco la letteratura italiana perché in America viene tradotta pochissimo».
A quando risale il suo ultimo viaggio a Kabul?
«Al 2010, quando mi sembrò che la città avesse fatto passi da gigante rispetto al passato, con tutti quei nuovi edifici, negozi e scuole che stavano spuntando ovunque come funghi. Però notai anche sconcertanti peggioramenti soprattutto sul versante della sicurezza. Nel 2003 avevo attraversato il Paese coi cooperanti a bordo di un camioncino. Sette anni dopo non potemmo più farlo perché quella stessa strada era pericolosissima a causa dei kamikaze talebani riarmatisi ovunque».
L’invasione americana ha peggiorato la situazione?
«Proprio come nel mio libro, non c’è una risposta univoca e, se esistesse, non sarebbe certo in bianco e nero. Alcuni progressi sono clamorosi, impensabili 12 anni fa, come la presenza di donne nella Camera Bassa del parlamento e l’elezione di una Governatrice nella provincia di Bamyan. Per non parlare dei tre milioni di ragazzine che possono liberamente frequentare la scuola, delle migliaia di chilometri di nuove strade e dell’80 per cento del Paese che ha accesso alla sanità».
Tutti progressi molto importanti.
«Certo, cui bisogna aggiungere i programmi nazionali di vaccinazione, il crollo dei tassi di mortalità, il diritto universale di voto. Se solo un cinico può dire che queste cose non contano, il merito è di molti, non solo degli americani. Non dimentichiamo, però, che restano problemi enormi quali il tasso astronomico di disoccupazione che costringe milioni di indigenti a emigrare, la fuga dalle campagne e la mancanza di acqua e materie prime».
È ottimista sul futuro del Paese?
«Sono realista. L’Afghanistan non sarà mai un modello jeffersoniano di democrazia, ma ho grandi speranze perché il Paese è fondamentalmente giovane, con oltre il 60 per cento degli abitanti sotto i 25 anni, cioè non ancora nati durante la guerra sovietica e quindi privi di forti legami con quell’era ispiratrice di mujaheddin. Questi ventenni cresciuti nell’era della rivoluzione informatica si relazionano alla vita attraverso l’istruzione, il job training e i social media».
Resta da vedere cosa succederà dopo la partenza definitiva degli americani nel 2014.
«È una scadenza che apre un capitolo di grandi incognite soprattutto per quanto riguarda le donne. Dipende tutto da chi siederà al tavolo delle trattative con i talebani dove temo compromessi dolorosi che sacrificheranno proprio loro. Ma se le donne verranno tagliate nuovamente fuori, e può succedere, sarà la fine del Paese».