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 2013  maggio 17 Venerdì calendario

I POLITICI E LA TELECAMERA QUALCHE ESEMPIO DEL PASSATO

Considero del tutto fuori luogo le apparizioni «in solitario» delle personalità politiche in televisione convocate da un giornalista. Mi riferisco all’ultima, quella di Enrico Letta, neo premier, da Fazio. Percepisco la situazione sempre come una discesa di livello del politico rispetto al proprio ruolo ufficiale. Che senso ha, mi chiedo, che un soggetto con una posizione apicale, che dispone di tutti i mezzi di informazione ufficiali — e nel caso di Letta (cosi come Monti ed ecc., in precedenza) ha già illustrato in Parlamento il suo programma e ha ricevuto il voto di fiducia — andare a una trasmissione per farsi interrogare come uno scolaretto da un giornalista, che fa domande come se fosse un illuminato certificatore incaricato di ratificare la qualità e quindi la validità della scelta operata da milioni di elettori nonché dalle usuali pantomime della politica? Sempre dal mio punto di vista, lo scenario va rovesciato esaltando il fattore campo. E quindi è il giornalista che va presso la personalità che, accordata la propria disponibilità, risponde con approfondimenti e dettagli alle domande che il giornalista necessita per lo svolgimento del proprio ruolo. La persona in linea con questo schema la identifico nel nostro presidente Giorgio Napolitano che mai e poi mai è apparso in una situazione del genere.
Enrico Gattoni
enrico.gattoni@libero.it
Caro Gattoni, la scelta del luogo (casa mia o casa tua?) non mi sembra molto importante. Se Enrico Letta avesse invitato Fazio a Palazzo Chigi, qualcuno avrebbe potuto osservare che non è opportuno trasformare la sede del presidente del Consiglio e del governo in uno studio televisivo con tutte le attrezzature che sono necessarie in queste circostanze. Accade al Quirinale per il messaggio di Capodanno, ma questa è una cerimonia della Repubblica ed è giusto che si svolga nella sede ufficiale del capo dello Stato.
Resta l’altro problema a cui lei allude nella sua lettera: se sia opportuno, per il presidente del Consiglio, sottoporsi all’interrogatorio di un giornalista. Rispondo che questa è ormai la formula preferita da molti capi Stato e di governo quando vogliono adottare lo stile più informale della conversazione. Il generale De Gaulle, negli anni della sua presidenza, amava farsi intervistare da un noto giornalista del Figaro, Michel Droit, con cui aveva una vecchia familiarità. Durante le rivolte studentesche del 1968, mentre il governo sembrava perdere il controllo degli avvenimenti, il generale ebbe con Droit una lunga colloquio durante la quale disse che la situazione stava diventando «inafferrabile». Se avesse pronunciato quella parola nel corso di una delle sue abituali conferenze-stampa al palazzo dell’Eliseo, la Francia ne avrebbe dedotto che il capo dello Stato era impotente. Detta informalmente a un giornalista, con il tono di chi giudica i fatti realisticamente, significava che la situazione, prima o dopo, sarebbe stata afferrata. L’afferrò infatti di lì a poco sciogliendo l’Assemblea nazionale e chiamando i francesi alle urne: una mossa che gli valse una strepitosa maggioranza.
François Mitterrand adottò lo stesso metodo ed ebbe queste conversazioni-interviste con alcuni fra i migliori volti delle televisione francese: Jean-Pierre Elkabach, Paul Amer, Patrick Poivre d’Avor. Se ne servì in particolare per dare qualche spiegazione su certi discutibili aspetti del suo passato: la militanza in una organizzazione del colonnello La Rocque, esponente di una sorta di fascismo cattolico, e il periodo trascorso a Vichy nella amministrazione del maresciallo Pétain. Se avesse parlato di fronte a una platea di giornalisti, sarebbe stato travolto da un torrente di domande. Nella conversazione con un intervistatore intelligente e garbato poteva meglio pilotare il colloquio ed evitare i trabocchetti.
Sergio Romano