Jenner Meletti, la Repubblica 17/5/2013, 17 maggio 2013
VITTIME PER CASO
Anche nel suo letto in terapia intensiva Giuseppe Giangrande non dimentica di essere, prima di tutto, un bravo carabiniere. «Quello che mi ha sparato, lo hanno preso?». Sono state le sue prime parole, dopo avere ripreso conoscenza. Non voleva che «quello là» potesse fare male ad altre persone. «È ancora libero?». «No, papà, lo hanno preso — ha risposto la figlia — e lo hanno messo in prigione ». «Dopo quella volta, dell’uomo che lo ha colpito non ha chiesto più nulla. Gli basta sapere che è in mani sicure. E io non sono scesa in tanti dettagli».
MONTECATONE (IMOLA)
Martina Giangrande, 23 anni, è appena uscita dalla terapia intensiva, al piano — A1 di Montecatone, Rehabilitation Institute Spa, sui colli imolesi. Un nome moderno per quello che era un vecchio sanatorio. «Io so già — dice Martina — che questo posto sarà per molto tempo la sua… la nostra casa».
Duecento metri di altezza ma si vede mezza pianura padana. «Bisogna avere la forza — dice Martina — di attaccarsi alle cose positive. E un fatto positivo c’è: mio padre è vivo e questa è la base su cui tutto può ricominciare. I medici parlano di certi piccoli, anzi piccolissimi, miglioramenti. Non solo: è lucido e mi parla. Certo, potrei stare con lui dalle 13 alle 19 ogni giorno, ma le visite lo stancano. Gli hanno fatto la tracheotomia, fare uscire le parole gli costa moltissimo». Sembra sollevata, la ragazza che assieme al suo babbo formava “un piccolo esercito sgangherato”. Poco più di tre mesi fa ha perso la mamma, il 28 aprile Luigi Preiti ha ferito il suo babbo. Martina sta male ma non si lamenta. «C’è chi ha avuto una vita semplice. Io no».
Bisogna attaccarsi a tutto, per avere una speranza. «I miglioramenti ci sono soprattutto per la respirazione. Dopo l’operazione alla trachea, il papà respira quasi sempre da solo. Solo alla notte viene ventilato. E ci sono progressi anche nella deglutizione… A livello motorio, invece, non è cambiato quasi nulla. Diciamo così: è questa la grande incognita che abbiamo davanti». Basta guardarsi intorno, nei corridoi e nel grande parco di Montecatone, per capire che il futuro sarà difficile: quelli che sono arrivati in terapia intensiva dieci o dodici mesi fa, o quelli che sono arrivati solo per la riabilitazione quattro o cinque mesi fa, si preparano all’uscita dall’ospedale ma quasi tutti sono su una carrozzella.
Martina l’aveva capito anche prima di arrivare su questa collina. «Resterò con papà — aveva detto a Roma — questo è sicuro. Non so se non riuscirà a muoversi da solo o se il Signore vorrà farlo camminare. Vedremo». Si è licenziata dal lavoro e non è pentita. «Mi dispiace solo avere lasciato quel posto da commessa perché vendevo oggetti per le feste, soprattutto per quelle dei bambini. E stare assieme ai bimbi è la cosa più bella del mondo. Con mio papà — lo ripeto, è ancora vivo e questo non è poco — cominciamo a parlare di “quando verremo via da Imola”. Speriamo di uscirne, diciamo così, nel modo più indenne ». Montecatone è stato scelto perché in questo centro di avanguardia la riabilitazione inizia già durante la terapia intensiva. «È importante — dice Roberto Pederzini, direttore sanitario — cominciare subito. Un fisioterapista insegna la ginnastica respiratoria, per evitare il ristagno delle secrezioni. C’è poi la ginnastica passiva, con la mobilizzazione delle articolazioni. Ci sono le macchine speciali che aiutano l’espansione toracica…». Ogni anno arrivano sulla collina imolese 220-240 pazienti acuti con lesioni midollari, su un totale nazionale di nuovi casi compreso fra le 1200 e le 1600 unità. A loro sono riservati 120 posti letto (18 dei quali in terapia intensiva e sub intensiva). Venticinque posti letto sono invece destinati a chi ha subito lesioni al cervello.
Non ci sono striscioni, nell’ex sanatorio, per il brigadiere Giangrande. Non si può “privilegiare” uno solo dei drammi che si stanno svolgendo nelle bianche camere dell’ospedale. Qui arrivano tutti. Il carabiniere vittima dell’attentato e anche chi è stato ferito in un conflitto con le forze dell’ordine. Operai caduti da un’impalcatura e giovani che si sono scontrati in macchina o si sono buttati dalla finestra. «Sono 665 all’anno i pazienti ricoverati in regime ordinario e 867 quelli in day hospital. Il 50% di loro è qui per cause traumatiche». Per tutti, una sola speranza: riprendersi la vita.
È una strada lunga, quella che il brigadiere e gli altri dovranno affrontare. «Dopo la terapia intensiva — spiega il direttore sanitario — il paziente entra in un’unità operativa per la vera e propria riabilitazione. Si insegna al paziente come riconquistare, almeno in parte, l’autonomia perduta: andare in bagno con la carrozzina, lavarsi la faccia, andare a letto e alzarsi… Poi ci sono la piscina, ancora palestre, e le istruzioni sull’uso dei diversi tipi di carrozzina».
Davanti al padiglione o sulla terrazza del bar si parla di queste carrozzine come fossero Panda o Ferrari. Ai “fortunati” basta quella che si muove con le mani, con un cerchio attorno alle ruote. Nella strada che arriva dal parcheggio c’è un uomo che affronta una dura salita. «Vuole una mano?». Sorride. «No, lo faccio per allenarmi. Mi restano le braccia, voglio che siano forti». Le “Ferrari” sono le carrozzine supertecnologiche. «La mia è fabbricata in Austria, credo che costi 29.000 euro». Dialoghi fra chi usa ancora gli arti superiori e chi invece sotto il collo non riesce a comandare più nulla. «Tu guidi con il naso? E con il computer, come fai?». «Tocco con la bocca. Nel letto ho invece i comandi vocali, per la luce, la tv, il telefono, per chiamare mio fratello…».
Carabinieri in divisa e in borghese ad ogni ora arrivano a chiedere informazioni. Anche le volanti della polizia salgono sulla collina per chiedere se sia possibile una visita. «Mio padre è contento di sapere che tanti si interessano a lui». Centinaia di messaggi anche su Facebook. «Forza Martina, che papà è una roccia». Ore ed ore passate accanto al babbo, con camice, mascherina e copricapo verdi. «Sì, parliamo spesso di “quando verremo via da Imola”. Guardo gli altri pazienti e mi chiedo: come sarà quel giorno mio padre? Come saremo? Mi dico: è vivo e questa è la notizia più bella. Il domani? Per ora mi basta spostare il pensiero un po’ più in là».