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 2013  maggio 17 Venerdì calendario

TUTTO A 1 EURO": COSA C’E’ DIETRO?

È corsa al prezzo più basso: in Gran Bretagna l’esempio di Poundland, la storica catena di negozi che vendono tutto ad una sterlina, è stato seguito da un’altra (99p Stores) che ha fissato il prezzo a 99 centesimi e, da qualche giorno, dall’ennesimo concorrente che per ogni articolo chiede soltanto 97 centesimi. Qual è la ragione del loro successo?

La possibilità di soddisfare con pochi sacrifici un acquisto di tipo compulsivo e «di pancia»: chi va in questi negozi lo fa non perché abbia bisogno di qualche cosa in particolare, ma per non essere costretto a rinunciare alle abitudini precedenti alla crisi economica. In pratica ci si accontenta di pensare di aver fatto un affare, senza domandarsi se si è acquistato un oggetto o quasi un rifiuto.

Quando nascono queste catene?

Portland, che è una delle prime ad aver aperto i battenti in Europa, funziona con successo in tutta la Gran Bretagna dal 1990, dove ha 335 punti vendita che commercializzano oltre 3000 prodotti diversi.

E in Italia?

Da noi le catene di questo genere sono un fenomeno ben più recente, anche se già ai tempi della lira in molte grandi città esistevano negozi dalla filosofia più o meno simile che vendevano tutto a 1000 lire.

Che cosa si può acquistare in questi negozi?

Davvero di tutto. Dal sapone alle patatine, dagli articoli per il giardinaggio alla cancelleria, dai libri al cibo per animali. Ma anche soprammobili, pile, giocattoli, deodoranti, articoli per la pulizia della casa… Anche nel nostro Paese la soglia di un euro è piuttosto rigorosa?

Più o meno sì. Una catena italiana (85 cent Quality Store) che ha circa 35 negozi in dieci regioni italiane ha fissato un prezzo di entrata (85 centesimi di euro, appunto) che corrisponde all’incirca ai 97 centesimi di sterlina. Ma vi si trovano oggetti con un costo fino a 5 euro. In altre realtà del genere la merce, a scaglioni di solito fissi (1, 2, 5 euro) può arrivare anche ai 10 euro.

Ma è vero che c’è anche chi vende ad un euro gli elettrodomestici?

È stata la provocazione messa in piedi da un centro commerciale di Palermo nello scorso mese di marzo. I pezzi disponibili erano soltanto 50 per ciascuna tipologia di prodotto (lavatrici, televisori e smartphone) e fin dall’apertura, nella struttura aperta poco più di un anno fa da Maurizio Zamparini, presidente del Palermo, si è radunata un’enorme folla: ed è stata subito ressa. Nella corsa per accaparrarsi la merce una donna si è fratturata il polso, e molti hanno accusato malori. Ingenti i danni al centro commerciale, «difeso» dai carabinieri.

Per fortuna non è sempre così… No, anche perché i negozi low cost, cioè a prezzo fisso, di solito non presentano sugli scaffali dei prodotti civetta in serie limitata, cioè delle offerte particolarmente vantaggiose per attirare clientela a cui vendere articoli più cari. Qui tutto è un prodotto civetta, tutto è all’insegna della trasparenza.

Qual è la ragione del successo di questa tipologia di commercio?

Lo spiega Alessandro Mostaccio, segretario nazionale generale del Movimento Consumatori. «Le catene di negozi a prezzo fisso proliferano ai tempi della crisi. Chi non può più spendere 100 euro per degli occhiali da sole, ne paga volentieri due anche se le lenti sono di bassissima qualità: al massimo li userà per pochi giorni, e poi li metterà in un cassetto. Gli acquirenti sono in genere giovani dalle scarse possibilità economiche che non vogliono rinunciare a finalizzare un giro in centro con l’acquisto di qualche oggetto. Rinunciano al gelato, ma soddisfano la loro propensione edonistica con un acquisto consumistico il più delle volte inutile, oppure per fare qualche regalo. La molla è lo svago, il focus è sul prezzo e mai sulla qualità del prodotto».

Quali sono i meccanismi che consentono a realtà del genere, che spesso occupano ampie superfici nei centri storici, di fare business?

«Tutto è basato sui grandi volumi di vendita, anche se il ricarico sui singoli articoli è per forza di cose limitato – spiega Mostaccio -. La merce viene fabbricata in Paesi non solo dal basso costo di manodopera, ma anche con standard infinitamente più ridotti rispetto all’Europa per quanto riguarda i diritti dei lavoratori e la sicurezza ambientale e del prodotto stesso. Il sistema produttivo che c’è alle spalle non ha nulla di etico ed è spesso irresponsabile perché basato su una delocalizzazione spinta in realtà nelle quali la legislazione sui prodotti è pressoché inesistente. Poteva persino capitare che gli articoli commercializzati in queste realtà fossero privi del marchio CE. Hanno fatto scuola le bolle di sapone prodotte con acqua cinese inquinata».